Capitolo 17

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Erano quasi tre settimane che stavo in quell'ospedale quando Harry decise di leggere lui un po' del suo diario, per me.
Si sedette con fare stanco e distrutto sulla sedia blu accanto al mio letto. Doveva aver passato un brutto turno di lavoro. Prima, di sfogliare le pagine ingiallite che componevano le mie mattinate si passò le mani sul volto. Era bellissimo, una mascella sporgente e un sorriso che non riuscivo a concepire nei miei pensieri, se non per una forma di qualcosa più profonda di molti a questo mondo.
Era un sorriso ovviamente, nulla di più e nulla di meno. Ma nonostante tutto, potevo leggere perfettamente tra lo screpolio della sua pelle quasi rossa, che lui, nascondeva ancora molte cose.
Sospirò leggermente mentre si preparava per dar voce a quelle frasi scritte con mille emozioni, per poi essere state racchiuse in un diario.
-Mia sorella, parlava di mia madre come si parla degli eroi.
Era una grande donna, come diceva sempre lei, ma nonostante tutto io non riuscivo a dirlo come lo diceva lei. Parlavo di mia madre con disprezzo e disgusto solamente perché se ne era andata.
Mi aveva abbandonato come si abbandonano i cani sull'autostrada.
Ovviamente ne parlai con lo "psicologo" della comunitá e lui con fare molto rilassato mi passò una bustina di cocaina.
La rifiutai e gli urlai contro.
Avevo altri modi per sentirmi vivo, per ricordarmi che ero come gli altri.- Chiuse il diario con un colpo netto e lo posò al mio fianco. Si alzò dalla sedia e mi guardò con sguardo triste, i suoi occhi così scuri potevano essere definiti come una sola cosa. Solitudine.

Uscì dalla stanza e io riaprii subito suo diario.

"Odiavo tutto, non potevano farlo, non a lei e non a me! Avevamo già avuto abbastanza delle sventure. Basta! io non ce la faccio più"

Oddio.

La pagina era macchiata, stropicciata e sgretolata sui bordi. Quelle macchie, erano sangue.

Quello che i circolava nelle vene si bloccò e la pelle d'oca prese il sopravvento sul mio corpo, lanciai il diario per terra e mi alzai dal letto con un salto. la flebo saltò dal mio braccio come ogni volta che mi muovevo di scatto. Corsi fuori dalla stanza e mi guardai attorno tra i tanti infermieri che mi passavano attorno fino a vedere una testa riccia entrare nel bagno dei pazienti. velocizzai il passo verso quella stanza e entrai senza nemmeno preoccuparmi che ci fosse qualcuno.

Non volevo crederci. Lui non poteva fare quelle cose, insoma, sembrava così tranquillo e in pace.

Aprii varie porte di bagni vuoti fino a trovarlo, era seduto per terra con la testa tra le ginocchia e le braccia stese in avanti.

Mi buttai a terra davanti a lui, non alzò nemmeno lo sguardo. sapeva benissimo che ero io, quando stava con me le sue sensazioni erano rilassate. Un effetto che preferivo del mio strano cervello era proprio quello, il poter percepire le sensazioni degli altri senza nemmeno impegnarmi.

Gli afferrai i polsi e sbarrai gli occhi, le lacrime invasero i miei occhi e la paura il mio cuore.

-Visto Shirly? Io non sono nessuno.- Sussurrò mentre il angue colava sullemie mani dalle sue braccia, afferrai della carte igienica e gliela tamponai sopra.

-Lo faccio solo... per sentirmi ancora vivo- Alzò lo sguardo su di me -Per sentire che Gemma è ancora nel mio cuore- aggrottai le sopracciglia per far intendere che non avevo capito.
-Vai a prendere il diario- Rispose con voce lenta e stanca, annui e corsi nella mia stanza. Presi il libro che era caduto per terra e tornai da lui. Gli infermieri mi guardavano stranito ma, nessuno di loro mi fermò o disse nulla.
Mi sedette accanto a lui e gli porsi il diario.
Sfogliò svariate pagine che io non avevo ancora letto, fino a fermarsi a 20 pagine dalla fine.
-leggi- disse ridandomelo.
"Quando anche mia sorella morì decisi che anche io, prima o poi, sarei andato via. Erano quasi due anni che vivevo da solo a Londra quando la mia vecchia comunità mi chiamò. Kimberley, la tutrice di mia sorella aveva la voce distrutta e singhiozzante. Portai la mano davanti alla bocca mentre mi annunciava la mia perdita. Ero rimasto completamente solo.
Quel giorno non andai nemmeno a lavorare alla C.O.S, anche se avevo promesso ai bambini del reparto più importante che sarei stato con loro, rimasi nella mia stanza a piangere e a distruggere ciò che avevo attorno, compreso me stesso." Spostai il mio sguardo dal diario al ragazzo che avevo davanti, non riuscivo a non piangere davanti a lui per quello che gli era successo. Non se lo meritava.
Sorrise amaramente portando una sua mano grande ad accarezzarmi le lacrime che cadevano copiosamente sulla mia pelle.
-lavoro qui da tre anni, tu sei l'unica persona che mi da una speranza, ma ami lui. Sono il ragazzo della tua scuola, quello che ti ha difeso il tuo primo giorno, eri così strana e audace.
Poi... Sei arrivata qua.- Abbassò lo sguardo. Io non amavo Niall, era solo molto importante per me.
Harry sfogliò nuovamente le pagine e me lo posò davanti. I suoi occhi un po più chiari e i tagli avevano quasi finito di sanguinare. Lui, non era come noi. Provava dolore e anche intensamente, non anticipava le emozioni, non scattava contro le persone senza motivo.
"Quando mi affidarono il controllo di Shirly Wood mi sentii felice, era un emozione che non provavo da molto e quando sentii le mie labbra piegarsi in un sorriso senza il mio controllo mi spaventai, andai subito nella sua stanza con il capo reparto e lei stava dormendo profondamente avvolta dalle coperte bianche.
Non parlava, ecco come si giustificò la sua permanenza qui dentro. Frank, il direttore decise di non farla vedere neanche da uno qualsiasi dei tanti psicologi che avevamo in questa specie di ospedale. Dopo qualche minuto mi sedetti accanto a lei, ammirandola come se fosse una dea greca. Avevo parlato con Fred, il figlio del direttore e proprietario di questo carcere per persone diverse. Lui mi aveva raccontato molte cose su di lei, di come aveva tentato il suicidio molteplici volte dopo la scoperta del suo strano cervello. Beh, anche io lo avrei fatto"

The White Wall |n.h.|#wattys2015Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora