Prologo

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Il dolore più forte che tu possa provare nel corso della vita non è esterno, ma è quello interno, quello psicologico, quel dolore che comincia a mangiarti vivo cominciando da dentro senza preoccuparsi di farti male.

Mi chiamo Dakota Marshall e questa è la mia storia, quello che ho passato nella mia vita che mi ha cicatrizzata per sempre ma mi ha anche aiutata a crescere, e a capire che non ci si può fidare di nessuno.

Leggendo queste righe, sembrerà come se io abbia passato un totale inferno, ed è stato così.

L'amicizia supera ogni cosa: un amico vero è per sempre, ti sostiene in ogni decisione tu voglia prendere, ma allo stesso tempo ti dice se stai sbagliando. È la spalla su cui poter sempre piangere, la spalla di cui hai la certezza di non dover chiedere il permesso, perchè sai già che ci sarà in qualsiasi momento. E' quella persona con cui sai di poter condividere tutto, dalla cosa più bella e stravolgente, alla cosa più banale e sarcastica, ed infine, alla cosa che ti turba di più, alla cosa che sai di non poter affrontare da sola perchè sembra troppo grande, ma avrai comunque quella persona che ti dirà che niente è più grande di te e che sei in grado di affrontare di tutto.

Io avevo una di quelle persone, anzi, ne avevo due. Avevo delle amiche in grado di capirmi solamente dallo sguardo, da una telefonata, e addirittura da un messaggio. Erano delle persone che una volta presa confidenza erano solari, aperte, e forti come un uragano, ma soprattutto, avevano la formidabile capacità di capirmi ed aiutarmi, sempre e comunque.

La nostra amicizia faceva parte delle nostre vite ormai da circa otto anni, dai tempi delle scuole medie, quando mi feci praticamente bocciare quasi di mia spontanea volontà.

Era un brutto periodo della mia vita, dove l'ambiente in casa mia non era dei migliori: avevo scoperto degli eventi riguardanti mia madre che non mi piacevano per niente, e lentamente mi distruggevano.

Io e lei non abbiamo mai avuto un grande rapporto: non siamo mai riuscite a dialogare come due esseri umani fanno di norma. Tutte le volte che provavamo a parlare, che tentavo di raccontarle qualcosa o di chiederle consiglio, lei trovava sempre e comunque un modo per criticarmi, attaccarmi e ferirmi. Era come se ciò che dicevo io era stupido ed insensato, e lei invece aveva sempre ragione. Il più delle volte non mi dava nemmeno delle risposte, mi insultava e basta. Mi sono sempre chiesta il perché fosse così difficile conversare con lei, d'altronde, le ho sempre portato il giusto rispetto e ho cercato di fare sempre il mio dovere, per non regalarle delusioni. Era la mia casa: abitavo sola con lei e per come la penso io, una mamma dovrebbe essere la prima e vera amica di una figlia.

Mio padre invece, è la mia roccia, il mio eroe, il mio miglior amico. Si separò da mia madre quando io ero ancora abbastanza piccola, perciò ricordo ben poco di quello che accadde, ma pur non abitando con me è sempre stato più presente lui da lontano, che mia madre dall'altra parte del muro.

Comunque, io e lui spendevamo tutti i fine settimana insieme e dormivo a casa sua, dove abitava con i suoi genitori, nonché i miei nonni. Con il passare del tempo, scoprii da loro degli eventi che influirono negativamente sul passato di mia madre, fino ad essere odiata da tutto il paese con tanto di brutta nomina, che a quanto pare le rimase anche dopo molti anni.

Insomma, il succo della storia fu che mia madre non mi ha mai desiderata per suo volere, ma mi ha concepita e partorita solamente per... mettersi la coscienza a posto, ecco.

In quel periodo pensavo a tutto meno che ad impegnarmi a studiare. Ero chiusa in me stessa e volevo sempre stare fuori casa in compagnia di un gruppo di conoscenti che frequentavo da qualche mese. Non erano miei amici, non mi confidavo con loro e loro non lo facevano con me, ma mi faceva piacere passarci del tempo, e poi era una scusa per mettere il naso fuori di casa. Uscivo presto e non avevo mai voglia di tornare, come se quando pensavo al mio rientro nell'abitazione, vedessi solo oscurità, tristezza, angoscia e malinconia. Andavo fuori di testa quando non mi permettevano di uscire, mi sembrava come un giorno perso della mia vita, una giornata senza sorriso e senza libertà, ma l'ennesimo giorno nella mia depressione.

In famiglia poco dopo, si aggiunse un membro che venne presto ad abitare con noi, ovvero il compagno di mia mamma, che per assurdo era caratterialmente uguale a lei; come si dice, Dio li fa e poi li accoppia.

Questa situazione di incomprensioni, richieste di aiuto non afferrate, e liti senza fine, mi hanno fatta star male fino alla sfinimento, mi hanno portato ad una tristezza e depressione psicologica, tanto da poter dire oggi, di esser stata un'autolesionista. Quello che ho passato in quel periodo non è affatto da sopravvalutare: ogni sera, al calar del sole e allo spuntar della luna, era il mio momento di libertà nella gabbia, quando nel cassetto del comodino vicino al mio letto, sotto una pila di libri di Twilight, tenevo una lametta, a cui ogni sera facevo assaggiare il sapore della mia pelle. In quel momento esatto, era come se il dolore che provassi sul mio braccio sanguinante, mi faceva dimenticare il dolore che avevo dentro, e per me era una liberazione non da poco. Andai avanti per mesi, ma fortunatamente non arrivai mai al punto di mettere fine alla mia vita.

Arrivò settembre, dove ricominciai l'anno per la seconda volta. Professori diversi anche se non tutti, compagni nuovi e più piccoli di uno o due anni. Sono una persona a cui non piace per niente socializzare, o perlomeno non sono una di quelle persone a cui piace cominciare un discorso, sto bene con me ed i miei pensieri. Odio i cambiamenti, non mi sento mai a mio agio con persone che non conosco e solo questo sarebbe una scusa per andarmene.

Passarono i giorni, quando per pura casualità, durante una lezione di scienze motorie e sportive, mi ritrovai con due ragazze a dover svolgere un lavoro da consegnare entro la fine dell'ora, e da lì nacque tutto.

Quelle erano le due ragazze che divennero in futuro le mie uniche e vere amiche, quelle che divennero quella famosa "spalla su cui piangere", che c'erano sempre e per sempre, un'amicizia rara, una di quelle di cui, sin dal primo giorno, eri certa che non sarebbe mai finita.

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