II -Fioriscono le strade-

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Gli avrebbe dovuto confessare il proprio odio, non il proprio amore. Eppure le sillabe erano corse fuori dalla sua bocca come un alito d'inverno, gelante richiamo di silenzio. Membra di gelatina, ogni suo arto si era fatto molle, chissà come riusciva a stare in piedi dopo quel che aveva detto.
Ma quel venerdì non era fatto per tremare, non più del solito, ed il suo corpo si ergeva statuario nonostante le urla che imperversavano mute al suo interno.
Riportare a galla ricordi troppo recenti dava ad Izuku solo angoscia, che si trattasse di felici o tristi memorie non faceva differenza. Il momento era passato, non poteva mortificarsi più del dovuto per quel che era stato, né rincorrere gli attimi in grado di strappargli un sorriso. La sua vita era un carpe diem continuo e quel venerdì, quel maledetto venerdì aveva dovuto farsi trasportare dalla corrente, sparare prima di essere colpito.
Era più forte di lui: rovinare per poter ristrutturare, disegnare per cancellare, gridare per spegnere la voce. Ogni azione di calma richiede una premessa, un caos da sistemare, tutto è conseguenza.
Il ritornello della vita risuonava nel suo petto e ripeteva le strofe di una canzone movimentata; sull'orlo dei desideri inespressi poteva danzare, sentirsi libero. La sua era una melodia crepata dal tempo, dagli anni mal spesi intrinsechi di fiducia mal riposta. Aveva avuto fede nel proprio animo, nelle aspettative sul futuro, sulle avventure da consumare e sull'amore.
Eppure al concludersi dell'adolescenza non aveva ancora assaporato il gusto degli affetti passeggeri, ma ne avvertiva il richiamo destarsi con prepotenza e la sensazione di avere un tassello mancante gli si attorcigliava attorno alla testa. Lo martellava, la tentazione, e cedervi fu l'unica, giusta, sbagliata, ambivalente via da seguire.
Vivere per vivere, provare ad errare per sentirsi parte di un mondo di cui già sentiva la mancanza. In un innocuo gioco divenne il re a cui fare scacco matto.
Nessuna regina a cui affidarsi, nessun pedone di cui essere sovrano, le strade di Ginevra lo accolsero in una tortuosa esplorazione che mai aveva avuto coraggio di tentare.
Giù dalla città vecchia, su per il centro, in quel suo ristretto gruppo di amici iniziò a volare solo. Ognuno pensava per sé, sia chi di vite ne aveva fatto incetta, sia chi si trovava agli albori della caccia, la loro era l'età del riscatto, per cosa ancora non lo sapevano.
Lui e Shouto si muovevano per primi, Iida e Uraraka si creavano il proprio spazio nella mischia dei locali e sulla discesa della lucidità ogni fallo ed ogni vittoria erano leciti. La prima volta che si avvicinò ad una ragazza le sue lentiggini risplendevano di una bellezza intonsa, impossibile da ignorare, e poco importava del primo bacio a fior di labbra che gli venne rubato: per lui era puro edonismo, la ricerca di una singola notte in un singolo pensiero.
Chi sono queste persone? Ricorderanno il mio volto? E perché non mi importa di questo? Per sapere, è solo per sapere. Era la frase che sfuggiva alla sua bocca come unica spiegazione. E nell'inseguire i sapori delle persone, come già è stato detto, si rubavano innumerevoli vite a chi disperdeva le proprie energie nell'ennesimo drink.
Loro non sono diversi da me. Ne era convinto. I giovani desiderano, i giovani vogliono, i giovani ottengono, i giovani perdono, i giovani immergono le mani nel sangue dell'innocenza. Quest'ultima sarebbe scomparsa in un sali e scendi di penosi flirt, facili conquiste, secchi rifiuti e fatidiche prime volte.
Il suo corpo era fatto di costellazioni, di punte di spillo luccicanti, ed il mondo non sarebbe rimasto a fare da spettatore ancora per molto.
Era ormai trascorso un mese dalla fine del liceo quando l'ingarbugliato filo d'Arianna che si portava appresso venne tirato da mani che non erano le sue.
Il dedalo era intorno a lui, il come vi fosse finito era una storia che non avrebbe saputo raccontare. Ma quelle alte mura si erano innalzate come rovi e lo avevano circondato, questo non l'avrebbe mai capito. Troppo restio ad ammetterlo, ignorava di essersi spinto in un viaggio di breve, ma intensa durata. Labirinti come enigmi di sentimenti e piaceri, gli uomini non ne sanno mai abbastanza.
Fra un'accozzaglia di profumi, un sentore di vaniglia lo aveva raggiunto all'angolo del solito locale del sabato sera. L'estate aveva portato con sé la fame e la sete, il bisogno di sottostare alle leggi del mondo e quello di infrangerle.
Così le acque del fiume erano state mosse dalla brezza calda ed i ponti si erano fatti deserti, affondavano le proprie gambe nel Rodano e si beavano dell'umidità che risaliva fino al parapetto. Izuku, nel ripercorrere con calma le scale e battere le suole sulla pietra, si rammentò dell'odore della città, del dolce richiamo di una giovane donna che come lui si era persa nel ristretto spazio che la calca estiva poteva offrire e che come lui sarebbe scomparsa senza lasciar traccia del proprio nome fra le labbra dell'avventura che cercava. Scomparve in angoli di strada, vicoli di ripensamenti che di lì a poco sarebbero stati zittiti, una mano stretta alla sua, segno di un'attenzione momentanea. La sensazione dei vestiti che grattavano sul muro di un palazzo fu qualcosa che a stento sopportò, persino nello scivolare nell'ascensore di un qualche edificio il fruscio della stoffa gli sibilava nelle orecchie e solo una volta messo piede in una casa ignota poté liberarsi del fastidio. Cotone e pelle non potevano, non dovevano toccarsi quella notte.
Nell'ombra di una camera piena di pungenti fragranze divorò l'odore di vaniglia che lo aveva attirato, ne impresse le tracce nella mente, ma alla mattina seguente, così avrebbe scoperto, gli avrebbe dato la nausea.
All'alba il calore dei loro corpi era tiepido, dalla finestra aperta filtrava un'aria gelida e si sentiva addosso uno strato di sudore ed umidi sospiri che da un lato lo fece sorridere e dall'altro gli fece desiderare un bagno caldo. Respirava l'odore di un'innocenza consumata e provò disgusto, piacere e confusione. Ingarbugliata fra le lenzuola vi era una ragazza senza nome, senza volto, dall'anonima pelle diafana, fili corvini in testa ed emanante il consunto profumo che indossava la sera prima.
Cancellare le tracce fu semplice quanto si era prospettato e nel raccogliere i propri vestiti, indossarli per poi scombinarsi i capelli e sedersi a bordo letto, si convinse di dover sparire. Contemplò la moquette, cercò con lo sguardo le proprie scarpe e pochi minuti dopo si stava chiudendo alle spalle una porta che mai più avrebbe rivisto. Senza alcun rimpianto stava tornando a casa e senza riflessioni riviveva la notte appena trascorsa da spettatore, come se ogni tocco a lui dedicato avesse avuto la fattezza illusoria di un soffio. Allora è questo il modo? C'è altro? Vorrei scoprirlo. La sua era una curiosità ingenua, gentile, ma che aveva iniziato a macchiarsi di indifferenza, la stessa che si sarebbe portato appresso negli anni a venire.
Imboccando la via del proprio quartiere, Les Eaux-Vives, si era preso la libertà di vagare e di dirigersi verso il lungo lago. Il clima freddo di inizio giornata era rinvigorente e gli avrebbe portato via quel poco di sonnolenza che gli era rimasta. Ripensò di nuovo alla giovane donna, ma come preannunciato non riuscì a figurarsi altri particolari se non l'unica cosa, oltre la vaniglia, che il buio della notte gli aveva lasciato: la sua voce. Non l'avrebbe mai riconosciuta, si disse, poiché l'intimità che aveva ascoltato, toccato poche ore prima, erano cose assai lontane dalle formalità della vita. Se anche l'avesse rincontrata e fosse stato riconosciuto, ne era certo: il suo tono, il suo viso non gli avrebbero ricordato nulla. Finanche la sensazione dei suoi fianchi lisci stretti fra le dita e del calore della sua bocca sarebbero svaniti con la stessa velocità con cui erano arrivati. La nostalgia per certe, passeggere debolezze non gli apparteneva e lo avrebbe imparato ad un prezzo troppo allettante per esser risparmiato. Estate di ansiti, estate di gemiti e perdute memorie, i suoi diciannove anni furono un misto di compiacimenti e sensi di colpa per scelte che, a distanza di settimane, non avrebbero lasciato alcuna traccia.
In questo caos come poteva trovar posto qualcuno di importante? Dove poteva scavare per far accomodare i resti di un cuore in fase di costituzione e ancora succube di sentimenti troppo giovani per sbocciare?
Capitò nel novembre dello stesso anno e sopraggiunse come una tempesta nel suo animo la realizzazione di avere un pezzo mancante. Aver fatto incetta di dolci assaggi di pelle e di respiri grigi di fumo non era bastato a colmare il suo bagaglio di esperienze che in futuro, purtroppo, avrebbe traballato, trascinato dalla sua mano, per un peso che a fiato ansante avrebbe inseguito. Infiniti tramonti e albe sfocate non poterono farlo sentire vivo quanto avrebbe voluto.
Sesso e alcol, balli solitari e miraggi, presto sopraggiunse la convinzione di essersi venduto per un ricompensa incompleta. Amava donare baci, vagabondare per una città capace di mutare pelle nella notte, tuttavia...che ne era dell'inesperienza? I suoi amici erano davvero maturati? Era così anche per lui? Era così anche per il primo amore che ancora doveva incontrare?
Capì con l'arrivo dell'inverno che in fondo niente di ciò che aveva vissuto era riuscito ad appagarlo. Si gelava lungo le vie, i marciapiedi erano puliti e scivolosi per quel ghiaccio non ghiaccio formatovisi sopra ed era incominciato il primo anno di accademia. Era stata improvvisa la decisione di Inko, ma quando gli rivelò di volersi staccare dalla città per prendersi una pausa dalla vita di ricordi che era ormai costretta a condurre non se la sentì di trattenerla e di rivelarle che, sotto sotto, non voleva saperla lontana. Per quanto le sue spiegazioni fossero state esposte con calma, Izuku sentiva ogni gesto della madre, dalla ripetitività delle giornate ai sospiri davanti allo specchio, urlare di voler scappare dai resti della casa troppo grande che li ospitava, dai libri accatastati vicino alle scale, dallo studio rimasto chiuso per anni ed infine da quel che aveva lasciato suo padre: tutto. Non ebbe il cuore di parlarle francamente e si limitò a salutarla un lunedì pomeriggio, alle porte della città, e a prometterle che sarebbe andato a trovarla ogni mese. "Veyrier non è così distante mamma,
, in neanche quindici minuti di strada sarò da te", le ripeteva ad ogni telefonata.
Non erano state molte le discussioni al riguardo, in poco più di un mese, fra settembre ed ottobre, la sua routine era stata sconvolta dai nuovi orari, dai treni e dal trasloco nel suo nuovo appartamento. D'un tratto comprese di esser cresciuto, seppur non di molto, e che la stagione calda era passata per far posto ad una quiete lenta e terrorizzante. Di lì a poco tutte le novità sarebbero diventate abitudini, eppure sua madre gli ripeteva di non accomodarsi, poiché a fidarsi di un posto non si ricava nulla di buono. Che parlasse per esperienza?
La sua prima casa fu un disastro.
Nonostante la vicinanza alla fermata degli autobus perdeva sempre la corsa delle sette e un quarto ed erano costanti gli ingressi alle otto precise ed i conseguenti tre minuti di ritardo a lezione. Inutile parlare delle settimane passate a mangiare cibo confezionato e ad accumulare spedizioni di libri che ordinava pur di non doversi muovere fino alla libreria più vicina, non era portato per vivere da solo e ne fu convinto per molto fin quando non trovò modo di evadere e di raggiungere la madre. Quel weekend aveva nevicato, lo ricordava bene, e le strade erano diventate d'argento. Era pronto a confessare la propria inadeguatezza quando Inko lo accolse con un sorriso e la faccia di chi aveva già capito tutto senza bisogno di spiegazioni. Mezzo pomeriggio di lamentele ed ogni incertezza era scivolata via da lui con tanta facilità da farlo ricredere sulle proprie incertezze. Poteva continuare a viaggiare, proprio come aveva fatto durante l'estate, in un bagno di nuove alee e grigi cammini in centro città.
Passava comunque da un estremo all'altro. I fine settimana in cui tornava dalla madre si fecero più radi con l'avvicinarsi dei primi esami e piuttosto che disturbarla con il suo nervosismo da matricola preferì chieder consiglio al signor Toshinori. Prendendo la mano con i nuovi ritmi aveva ripreso a svagarsi con la sua comitiva: lezioni di giorno, corse di notte. Così arrivò dicembre e la promessa di passare in famiglia le due settimane di vacanze che gli erano concesse fu un impegno che non poté rifiutare. La ripresa della sua vita scalmanata, in simbiosi con la sua rettitudine scolastica, l'aveva fatto anelare sempre più ad una pausa.
Tuttavia quell'anno Natale si rivelò un supplizio ed un doloroso piacere.
Fu una sorpresa trovare due valigie in più del previsto accanto alla propria e ritrovarsi, alla mattina del ventitré, una macchina che non era quella di sua madre parcheggiata sotto al suo palazzo.
Una lucida Pontiac nera del '67 stava a bordo strada e due figure snelle vi appoggiavano la schiena con le mani infilate in tasca. Dal vetro del finestrino si intravedevano gli interni in pelle chiari occupati da qualche borsa e sul cruscotto un elegante foulard bordeaux spiccava come un papavero in un campo di grano, allo stesso modo due paia di rubini lo fissavano avvicinarsi con le chiavi dell'appartamento appena chiuso strette fra le dita.
Una donna ed un ragazzo, la prima puntava i propri stivali sul marciapiede e si gongolava nervosamente nel suo cappotto beije con un portamento che ad Izuku incutì timore al primo sguardo. Era visibilmente corrucciata, impensierita da qualcosa che, nel notarlo, venne scacciato via malamente per far spazio ad un sorriso. Mentre il secondo soggetto, oh, non era certo di poterlo giudicare, ma fu inevitabile che non saltasse all'occhio come il suo vecchio amico fosse cambiato dall'ultima volta che l'aveva incrociato per i corridoi dell'accademia. Mezzo mese, non un gran lasso di tempo, era bastato per farlo apparire più minaccioso, scorbutico e suscettibile che mai. Lo aveva capito subito che qualcosa non quadrasse, dal ticchettio dei suoi anfibi sul cemento alla postura scombinata con cui si stringeva nella pesante giacca di pelle. L'opposto di sua madre ad al contempo la sua perfetta copia, eccolo lì, comparso come uno schizzo d'inchiostro purpureo sul suo bel programma natalizio: Katsuki Bakugou.
Li riconobbe all'istante, ma sul momento non gli venne in mente alcun saluto da poter rivolgere loro. Fortuna che la donna, nonché l'affabile Mitsuki Bakugou, si premurò di fare il primo passo.
Staccandosi dalla vettura face un cenno ad Izuku.
<Tua madre ci ha chiesto di darti un passaggio. Perdona se non abbiamo trovato il tempo di avvisarti, è stato tutto improvvisato. Spero non sia un problema> il suo sottile naso si allungava verso la chioma verde del riccio ed era arrossato viste le basse temperature. Ad Izuku si bloccò il respiro, si rese conto tutto d'un tratto di quanto freddo facesse e di quanto fosse simile a quello emanato dalle persone che aveva davanti.
<Mitsuki... - iniziò senza saper come continuare -sì, va benissimo> concluse quasi subito, con domande che fecero retromarcia per esser sostituite da un assenso come unico, logico continuo.
Un raschio di suola e la sua attenzione saltò per la seconda volta su Katsuki, che si era già premurato di sbuffare e fare il giro dell'auto, salire, sbattere la portiera, farla traballare. Stranamente sua madre non lo riprese, anzi, stette in silenzio ad ascoltare il malumore del figlio ed invitò Izuku a posare la sua valigia nel bagagliaio. Nel sollevare lo sportello e trovar posto per le sue cose fu impossibile non notare quanta roba i due si stessero portando dietro. Un senso di inquietudine lo attanagliò e non lo lasciò per tutto il viaggio.
La coda per uscire dalla città fece raddoppiare il tempo previsto per il tragitto ed in mezz'ora di vaghi e banali quesiti furono messe in chiaro poche cose: Mitsuki era stata invitata da Inko, Katsuki era stato trascinato lì con lei ed il marito era occupato con il lavoro.
Izuku, seduto davanti, alternava lo sguardo fra le labbra tinte di porpora di Mistuki e le sue mani strette attorno al volante più del necessario. L'argomento "lavoro" fu toccato solo una volta.
Lei ed il padre di Katsuki, Masaru, erano stilisti e non era inusuale esser costantemente alle prese con qualche nuovo progetto, per questo Mituski non spese molte parole al riguardo. <È impegnato e tua madre è stata così gentile da ospitarci. Non abbiamo avuto tempo di organizzare la nostra solita vacanza a Chamonix, quando gliel'ho detto mi ha sorpreso con la sua offerta. Avevo già in mente di declinarla per non essere un peso, ma sai com'è Inko: un suo invito non può esser rifiutato> aveva spiegato così la situazione. Breve, perfetta, mirata e soddisfacente.
Dai sedili dietro si udì un sospiro frustrato e solo in quell'occasione Izuku spiò il biondo che non aveva spiccicato mezza parola da quando erano partiti.
Se ne stava imbronciato, come al solito, con una mano pizzicava la cerniera della giacca, con l'altra si reggeva il mento mentre osservava distrattamente il paesaggio cittadino mutare oltre il finestrino. Fronte liscia e mille pensieri, uno più silenzioso dell'altro, Katsuki confermò la sua prima impressione: era proprio una bomba ad orologeria e lui e Mitsuki se la stavano portando appresso.
Il biondo non era mai stato felice di vederlo, ma quella mattina la sua reazione gli era sembrata fin esagerata ed aveva tutti i motivi per presupporre che il suo comportamento avesse ben altre motivazioni oltre la comparsa di una sottospecie di amico con cui non aveva più legami. Era pallidissimo nel bianco che circondava le strade, le sue iridi si assottigliavano quando vedeva qualche macchina andar troppo veloce e superare la loro, sembrava voler maledire il conducente come a dirgli "Rallenta, idiota, l'asfalto è ghiacciato!". Non aveva perso il vizio, constatò Izuku, di esser diretto nei gesti più banali, né di esser trasparente riguardo alle proprie tempestose emozioni. Lo leggeva ancora, ma si chiese, ritornando a guardare in avanti, se la cosa fosse ricambiata.
<Tra poco saremo lì, ti va di chiamare tua madre?> la domanda di Mitsuki interruppe il suo vagare di pensieri ed il silenzio, dopo aver avvisato Inko, sia in quel piccolo cubicolo, sia nella sua mente, divenne loro compagno fin quando il motore non si spense ed i passeggeri non spalancarono le portiere.
Fu tutto automatico: le valigie furono scaricate, i convenevoli scambiati, le stanze degli ospiti occupate.
A pranzo la conversazione si riaccese solo per Mitsuki, che aveva trovato nella sua amica di vecchia data un interlocutore instancabile, ma tra Izuku e Katsuki, seduti a meno di un metro di distanza, non volò una mosca. C'era da aspettarselo, pensò, dopo tutto le uniche frasi che si scambiavano giungevano sempre in modo indiretto alle orecchie dell'altro. Ciò avveniva solo a scuola.
Katsuki faceva qualche brutto commento su di lui, la voce giungeva ad Uraraka, lei riferiva e lui rispondeva con il solito "Cosa vuoi che sia? È Katsuki, è così".
Katsuki. Le sillabe gli rimasero in testa fin oltre l'ora del caffè e nel tardo pomeriggio, seduto sul suo letto con l'ultimo numero preso in fumetteria fra le mani, si accorse di aver dimenticato qualcosa che ormai non sapeva se definire inutile o importante.
Aveva preso a chiamarlo per nome dopo il secondo anno di liceo, quando era ormai chiaro che i loro due mondi si fossero divisi a tal punto da rendersi l'uno l'opposto dell'altro. Il motivo non fu chiaro per nessuno dei due, ma fu facile dare la colpa alla cattiva indole del biondo che lo spingeva a denigrare qualsiasi azione del riccio. Ad un certo punto Izuku si sentì talmente distante dal ricordo del suo amico d'infanzia che smise di usare quell'innocuo appellativo con cui lo aveva identificato per lungo tempo. "Buongiorno, Kacchan" divenne "Buongiorno, Katsuki" e presto non vi fu più alcun buongiorno.
Assurdo che in quel momento si trovasse a dividere la casa ed il suo tempo libero con una persona che aveva deciso di uscire dalla sua vita, quella che considerava tale, e che ora lui è quel ragazzo stessero a pochi metri di distanza, divisi da un muro di mattoni.
Smise di leggere, non era più interessato alle avventure degli X-Men, anzi, per un attimo pensò che non avrebbe più ripreso in mano il numero da quanto era iniziato a sembrargli noioso. Adorava quelle storie, eppure quel giorno avevano un sapore amaro capace di rovinare qualsiasi trama e colpo di scena. Aveva imparato a prevedere le mosse dei suoi eroi, perché leggeva ancora? Forse perché sentiva di poter aver di più da loro, sentiva le pagine assottigliarsi verso la fine e desiderare di averne altre decine pronte ad esser sfogliate. Magari poteva esser così anche per la vecchia favola che aveva vissuto da bambino, magari i personaggi potevano ritornare e sistemare antichi rancori, fare pace, tornare a vivere come una volta.
Quella sarebbe stata l'illusione di un paio di settimane, di una vacanza e nient'altro, ma andava bene gustarla, giusto per non sprecarla.
Arrivò l'orario per la cena e si ripetè la stessa scena del pasto precedente, nessuno se ne stupì. Le loro madri erano tanto prese dai loro discorsi da non poter prestare attenzione ai due ragazzi che piano si alzarono per sparecchiare ed in pochi minuti sparirono al piano di sopra, ognuno nella propria camera.
Izuku si era buttato sul letto e aveva dato un'occhiata veloce alla valigia aperta. Mille vestiti per quattordici giorni, che si aspettava di fare? Starsene tranquillo, no?
L'idea di ricreare un po' della calma che aveva nel suo appartamento, esclusivamente alla fine del giorno, gli balzò in testa senza preavviso. Si sollevò ed incominciò a frugare nelle tasche del cappotto che si era portato dietro e sospirò tirandone fuori un accendino. Dovevano esserci anche le sigarette, ma probabilmente aveva lasciato il pacchetto aperto a Ginevra, sul suo comodino, perciò estrasse quello nuovo dal bagaglio e prese a scartarlo uscendo dalla stanza. Tastava il pavimento in legno distrattamente mentre si dirigeva dalla porta di fronte alla sua.
Ormai era lì, ormai doveva farlo.
Bussò. Non ottenne risposta. Bussò di nuovo, due colpi, il terzo non arrivò visto che il varco della camera degli ospiti si spalancò lasciandolo con il pugno in aria. Abbassò il braccio.
<Che c'è?> come prime parole che si scambiavano erano state fin gentili, si disse, per uno come lui.
Non lo guardò in viso, gli fissò i piedi e alzò il palmo per mostrargli i due oggetti che reggeva.
<Vado in terrazza, vieni con me?> e nell'istante in cui il serioso, scontroso Katsuki gli annuì lo fissò per due secondi che parvero un'eternità.
Una divisione annullata, ricongiunta, lo fece sentire pieno, convinto di tutto e di nulla. Loro che erano stati, potevano forse essere?
Salirono le scale privi di fretta, di fluttuanti ripensamenti, e la gelida notte di dicembre li accolse com'erano: felpa e pantaloni di tuta, vecchie scarpe da ginnastica, cotone su pelle d'oca e diatribe archiviate, messe da parte di fronte al loro breve punto d'incontro.
Lasciarono la portafinestra socchiusa, Izuku sapeva del difetto della maniglia: se spinta dall'esterno si faceva fatica a riaprirla. Quel varco che li aveva condotti nell'aria pungente dell'inverno, a pestare sulla neve accumulata sui tetti delle case e spazzare via con le mani quella depositata sulla ringhiera di metallo, ecco, quell'uscio difettoso sapeva tanto di lui e di quel che aveva intorno. Izuku non aveva mai imparato ad scartare decentemente un pacchetto di sigarette, a vederlo chiunque lo avrebbe preso per uno alle prime armi, curioso di un vizio da cui si era fatto tentare. Ma il biondo che gli stava vicino non gli rivolse alcuna occhiata, non tentò di schernirlo, era troppo preso a starsene coi gomiti appoggiati al ferro della ringhiera e a respirare l'aria della provincia. Non era una novità, per il ragazzo che stava stropicciando malamente la plastica e la carta fra le dita, vedere Katsuki a quel modo. Lo notava, fra una lezione e l'altra, starsene zitto a fissare le finestre, essere il riservato, ma altezzoso bambino che aveva conosciuto. Guardava tutti dall'alto al basso, non aveva mai smesso di farlo e con la sua chioma riccioluta dava il meglio di sé. Chissà come Izuku era riuscito a passarci sopra così tante volte da poter finalmente ridere della cosa. Basta pensieri, si disse, quella sera voleva solamente riallacciarsi ad un passato che sentiva troppo distante.
Essere in quella casa, con Inko, Katsuki e Mitsuki gli suscitava un senso di sbagliato, come se a distanza di anni fosse oltremodo strano, quasi sconveniente, che due famiglie tornassero a cenare assieme come una volta. Il tempo le aveva divise, lo stesso era successo fra Izuku e Katsuki.
Tuttavia a vedere le loro madri conversare non si sarebbe potuto dire che avessero perso confidenza per un solo giorno di vita. Erano due amiche di vecchia data, parlare era qualcosa di naturale per loro, non di complicato come per lui ed il biondo alla sua destra.
Si infilò la plastica in tasca e gli allungò una sigaretta, lui la prese subito con un breve cenno della testa. Era forse un ringraziamento?
Gli diede anche l'accendino, con indifferenza Katsuki si chinò con il filtro fra le labbra e con le mani chiuse a cupola inspirò il calore della fiamma. Riusciva ad essere schivo finanche in gesti tanto banali.
Venne il momento di Izuku e lui, beh, in tre secondi di movenze fluide aveva acceso la propria sigaretta, dando mostra di una bravura insignificante, ma che catturò lo sguardo di Katsuki.
<Da quand'è che fumi?> chiese buttando fuori aria biancastra.
<Non fumo> rispose.
<Se proprio lo vuoi sapere - riprese a parlare - questa è la terza sigaretta del mese. Lo faccio solo quando posso, non quando voglio. Per esempio, posso prima di un esame, ma non dopo, posso quando non sono con Iida e Ochako, ma non se mi stanno vicino, odiano la puzza di fumo> sembrava divertito nello spiegarsi, come se stesse illustrando una qualche fantasiosa e rivoluzionaria teoria sulle sigarette. Fumo quando posso, non quando voglio. Una proibizione o una condanna? E se il posso avesse superato il voglio? Non concepiva un tale pericolo? Forse no. Forse sapeva di non potersi assuefare ad un vizio tanto disgustoso che gli lasciava la bocca impastata con un sapore amaro. Quindi ecco la regola del "Posso", perché fumare non gli piaceva, ma gli distendeva i nervi e lui era alla continua ricerca di un momento di relax.
<Meglio così> fu un commento davvero inusuale. Cos'era? Izuku se lo chiese per lunghi secondi. Che fosse preoccupato per la naturalezza con cui si beava del primo tiro? Se così fosse stato non avrebbe accettato la sua offerta e nessuno dei due si sarebbe ritrovato in quel punto solitario della casa. E poi perché chiedere?
La sigaretta di Katsuki era già a metà, volute di respiri appannati giravano attorno alla sua testa, salivano dalla sua bocca come miasmi di una qualche pericolosa creatura. Il biondo lo era agli occhi di molti, ma non per Izuku, per lui era solo un ragazzo nel mezzo della crescita, come lui d'altronde. E non vi era banalità nel suo pensiero, anzi, vedeva dettagli unici nel suo momentaneo compagno di vizi.
Sentiva, dopo anni di lontananza, di esser ancora vicino a lui, di conoscerlo, ma non di poter oltrepassare il confine che li divideva. Quanto avrebbe voluto poter esser come le loro madri, capace di riportare alla luce un'amicizia simile senza difficoltà.
E quella casa, non più abbastanza nuova per esser sconosciuta e non abbastanza vecchia per legarlo alle sue mura, era insapore fino alle fondamenta. Non c'era niente che gli appartenesse lì, nessun ricordo d'infanzia, niente vecchi scatoloni del padre accatastati in corridoio, e d'un tratto erano arrivate due persone dal passato che, da cocciuto che era diventato, si rifiutava di accogliere appieno. Il nuovo Izuku, quello che non era più Deku, ma solo un raccomandato ed un insoddisfatto ragazzo di diciannove anni, era muto di fronte ad eventi che un tempo lo avrebbero scosso. Nell'arco di pochi minuti arrivò a domandarsi perché fosse lì con qualcuno che come lui era diventato un'ombra. Era così, Katsuki era ormai un distorto riflesso del Kacchan che aveva conosciuto. Erano entrambi una serratura rotta, uno di loro guardava all'interno, uno all'esterno ed i ruoli erano confusi. Non avrebbe mai saputo chi stesse mantenendo i piedi affondati nel passato, chi nel futuro, ed in fondo non era da escludere l'idea di esser divisi fra le due parti. Veniva trascinato indietro dai ricordi, veniva trascinato in avanti dalle tentazioni, si convinse che per Katsuki fosse lo stesso. Nel pensarlo lo osservava di sottecchi, lo stesso faceva il biondo. Che cercavano di carpire l'uno dall'altro? Infine gli occhi si arresero e tornarono alla distesa di tetti e comignoli coperti di bianco ed illuminati dal riverbero della luce delle stelle sulla neve. Un mare di ghiaccio, tante onde immobili, le case più scure erano scogli, i balconi spiagge.
La calma di Veyrier veniva fuori di notte, quel grumo medio grande di case diventava deserto e l'unico suono udibile erano i loro respiri.
Diedero un colpo al filtro, lo fecero insieme, senza alcun accordo, e quella coincidenza diede ad Izuku la forza per riaccendere il discorso.
<Mio padre avrebbe odiato questo posto> affermò aggrappandosi alle memorie che aveva dell'infanzia come si fa con un appiglio di roccia durante una scalata. Era faticoso avere un'idea chiara della figura paterna per lui, lo conosceva tramite racconti e fotografie, di quelle sere nel suo studio teneva solo le scene più importanti impresse nella mente. Inko ed il signor Toshinori lo avevano riempito di memorie che avevano trovato posto per incastrarsi nel suo trascorso di vita, ecco perché Hisashi era diventato più di un semplice padre, era diventato un ispirazione.
<Già, non avrebbe sopportato di vivere in provincia> concordò Katsuki ed Izuku realizzò che pure lui avesse in sé una parte di quella distante figura che inseguiva. Aveva conosciuto anche lui suo padre e pur non avendo avuto occasione di ascoltare le storie di Inko aveva potuto dargli ragione. Per un istante, l'ennesimo della serata, ad Izuku sembrò che il Kacchan di una volta avesse preso qualcosa da Isashi, che i pomeriggi passati a giocare nel suo studio avessero dato al biondo modo di assorbire quel che bastava per fargli dire che sì, quel posto non avrebbe fatto per lui.
<È un bene che non possa vedere tua madre rifugiarsi quaggiù> tagliente come sempre, la sue parole lacerarono l'atmosfera.
<Perché? Dovrebbe essere con lei>.
<Se così fosse la odierebbe> ribatté subito e lì il riccio si sentì correre il sangue nelle vene, giungere alla testa e fargli male. Con quale supponenza poteva dire certe cose? Era abituato alle sue cattiverie, ma in quel momento era l'ultima cosa che si sarebbe aspettato di sentire.
<Non poteva restare in città, persino tu potresti cercare di capirla> disse a tono tirato. Era sull'orlo di alzare la voce. Ora aveva disprezzo nel rivolgersi a quello che per poco gli era parso il suo vecchio amico.
<No, non mi piacciono le persone che scappano. Tua madre se la sta solo dando a gambe, dovresti fartene una ragione invece di essere tanto accondiscendente nei suoi confronti> limite era qualcosa di sconosciuto per lui, così si disse il riccio, lui non sapeva cosa significasse spendere parole tanto mortificanti in sua presenza.
Il pulsare delle tempie passò per lasciar spazio ad un formicolio che presto scese fino alle mani. Non resistette. Si sporse verso il biondo, un paio di passi e stava stringendo il collo della sua felpa, schiacciando il suo corpo contro la ringhiera, fissando le proprie giade nel pozzo cremisi del suo incauto interlocutore. Katsuki fece cadere il mozzicone ancora acceso dalle dita per reggersi mentre si rendeva conto della poca altezza che Izuku aveva guadagnato rispetto a lui. La cenere fumante baluginò brevemente d'arancione prima di spegnersi fra i fiocchi di neve.
<Cosa ne sai tu?!> la sua era un'accusa. Certamente si trattava di uno sfogo dettato dal momento, ma in quella domanda Izuku riversò involontariamente un continuo che rimase non detto. Cosa ne sai tu che sei scomparso dalla mia vita?
Un rumore di ceramica risalì dalle scale e fece sussultare entrambi.
<Tornerai a casa?>
<No, la stiamo vendendo. Ognuno per la sua strada, questa è la nostra decisione>.
Le voci di Mitsuki e di Inko si udivano dal salotto fino alla terrazza, uscivano dalla portafinestra e arrivavano alle orecchie del riccio come una movimentata canzone impossibile da ignorare.
<All'epoca non lo potevo sapere, cosa volesse dire perdere un genitore, infatti non ho mai capito il tuo silenzio al riguardo. Ma ora è diverso - disse trattenendo un colpo di tosse, il fumo lo aveva strozzato - ...ora è come se stessi perdendo tutto>. Ogni centimetro di Izuku si tese, poi divenne molle. Katsuki era calmo, calmo come non l'aveva mai visto. Rilassò i muscoli, ma non lasciò andare la presa sulla stoffa. Aspettava qualcosa di più, qualcosa che giustificasse le sue pungenti frasi ed il tono afflitto che aveva appena assunto.
<I miei stanno divorziando>.

Eccomi con il secondo capitolo, tante risposte e nuove domande fra le righe

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Eccomi con il secondo capitolo, tante risposte e nuove domande fra le righe. Il tragitto di Izuku dalla segreteria all'aula della seconda lezione della mattinata si fa sempre più lungo (─.─||)
Speriamo che riesca ad arrivare prima di incappare in qualche altro pensiero.
E riguardo a Katsuki? Vi aspettavate una situazione del genere?

Come sempre vi lascio con la speranza che la lettura vi aggradi.

P.s. : domani parto per una vacanza, cercherò di pubblicare, ma non prometto nulla( ╹▽╹ )

La Petite mort -Dekubaku-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora