XII -Non parlare, silenzio-

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Un'altra settimana era passata, giorno più e giorno meno, la fine di gennaio era vicina. Il venerdì pomeriggio non era mai stato così alieno per Izuku. C'era qualcosa nell'aria: odore ormai sbiadito di fumo nelle mani, di camomilla, l'elettrizzante fragranza del gelo che con la terza, grande nevicata della stagione aveva riconquistato il terreno perduto e si affacciava alle porte di febbraio.
<Sono sfinita> sospirava di tanto in tanto con tono lamentoso Ochako. Ondeggiava con la testa ed il profumo di fiori dei suoi capelli tornò a pizzicare il naso del riccio. Izuku pensò distrattamente al pacchetto di sigarette nella tasca della giacca e tornò presto a concentrarsi. Alla sua destra la ragazza si stiracchiò scompostamente per poi crollare sul libro di storia dell'arte e distendere un braccio sul freddo tavolo in legno della biblioteca. Izuku, per contro, si liberò della squallida postura che aveva assunto pur di continuare a leggere e rimpianse di aver avuto il buon cuore di accettare l'invito di Iida per studiare tutti insieme. Le panche della biblioteca erano la cosa più scomoda su cui si fosse mai seduto. Il legno su cui posava gli aveva ormai fatto intorpidire il corpo.
<Non dirmi che hai intenzione di finire il capitolo> la castana gli lanciò uno sguardo truce, ma ormai conosceva il riccio e biascicando un qualche verso di dolore schiacciò il naso sull'immagine dell'Efebo di Maratona. La didascalia scomparve sotto la sua pelle e dalle sue labbra sporgeva, come a fuoriuscirne, una qualche scritta e l'anno "330 a.C.".
<Se è così, dovrò finirlo pure io> e diede un paio di colpi con la fronte sul petto di bronzo della statua. Izuku si limitò ad alzare un sopracciglio prima di tornare al punto in cui si era interrotto, ma non nascose un certo sorriso divertito. Prese l'angolo della pagina pronto a voltarla e si rese conto che la luce era fioca, le parole si mischiavano, aveva dimenticato di come fosse l'inverno. Le giornate avevano iniziato ad allungarsi, tuttavia mancava ancora molto alla primavera e faceva tardi presto, perché il sole scendeva e le alte vetrate della biblioteca non bastavano più ad illuminare l'ambiente. Una volta passate le prime ore pomeridiane era già sera. Si fermò, guardò fuori chiedendosi se fosse il caso di dichiarare la sconfitta. I rami degli alberi, nel piccolo giardino che contornava l'edificio, erano stati appesantiti dai fiocchi che continuavano a scendere dalla mattina e sui più leggeri correva un filo bianco e sottile che di sicuro non sarebbe resistito alla brezza che piano si stava alzando. Erano molli, proprio come loro che ancora si ostinavano a far correre gli occhi fra righe di nozioni e figure piane.
Dall'altra parte del tavolo due occhiali furono posati con un lieve "tlack" disperso fra fogli, matite e quaderni.
<Uraraka ha ragione> ed Iida si lasciò andare ad un respiro profondo prima di iniziare a raccogliere le proprie cose. Izuku lo ascoltò, ma non diede segno di voler fare lo stesso e, anzi, il pensiero di non esser giunto alla fine del capitolo lo pizzicò in una parte della mente, la stessa che gli diceva di dover esser più ordinato nello scrivere gli appunti a margine e che se non avesse portato a termine lo studio previsto, una qualche catastrofe sarebbe sopraggiunta a rovinare la giornata. Non era ancora abbastanza stanco per smettere.
<Ormai sono quasi le sei, io devo correre per prendere l'autobus> commentò Ochako e d'un tratto si alzò per infilarsi la giacca e tirare la zip dello zaino. Era già pronta, il riccio non si era nemmeno accorto di quando e come avesse messo via tutto.
<Idem> rispose Iida ed i due si voltarono a guardare la testa riccia di Izuku come se fosse un alieno. Era ancora lì con i libri aperti, la matita in mano, occhi che rimuginavano su immagini di statue, vasi e affreschi.
<Tu non vieni?> Uraraka gli posò una mano sulla spalla ed Izuku ingoiò un respiro.
<Sì, ma voi andate. Io faccio un salto ai servizi prima di uscire> ed i due annuirono, lo salutarono, lui sollevò una mano per far lor cenno di sbrigarsi per non perdere la corsa e lo scalpiccio degli stivali della ragazza, accompagnato dal leggero fruscio del cappotto del rappresentante, si perse dietro gli alti scaffali stracolmi di libri. Quei due -pensò nell'immaginarli correre verso la fermata- non lo capiscono proprio. Iida non le parlerà nemmeno oggi.
Izuku li immaginò scendere i gradini della biblioteca, iniziare a chiaccherare, finire per inciampare in qualche vago discorso e sorridersi prima di salire sull'autobus. Nessuno di loro si farà mai avanti. Iida era troppo rigido, Uraraka troppo timida ed Izuku era stanco di vederli rincorrersi fiaccamente con lo sguardo. Si alzò per stiracchiarsi, il pensiero diviso a metà fra le pagine lette e l'idea che prima o poi queste si sarebbero esaurite proprio come il tira e molla dei due suoi amici. Finito il capitolo, finito il cruccio, no? Izuku aveva evitato di dare una qualche spinta e la sua posizione al riguardo non era cambiata, ma veniva ormai difficile, soprattutto nei mesi freddi, ignorare come Iida cercasse di tenersi lontano dalla castana per ripararsi dal suo caloroso sorriso. Non voleva sciogliersi, abbandonare la compostezza che tanto amava. Sembrava quasi che la neve appena caduta gli avesse offerto riparo e come una qualche galaverna temeva il tocco delle persone.
Doveva nevicare proprio quel giorno, perché così avrebbe potuto scappare nuovamente. Izuku non glielo avrebbe mai confessato, ma iniziava ad odiare il suo comportamento. I suoi amici erano troppo gentili per mettersi in gioco, in una galanteria che rasentava in parte la codardia.
Ricordava ancora quando Iida gli aveva chiesto come fare a dichiararsi e ci pensava proprio lì, su quelle scomode panche, nel trascinare sul tavolo una piccola pila di libri e quaderni fino alla cartella. Si respirava la stessa aria ferma, in quello stesso posto, ed anche allora il riccio aveva le sigarette in tasca e le dita amare di fumo. Era la fine dell'estate, le porte del primo anno di università erano vicine ed Izuku aveva appena finito di traslocare nel nuovo appartamento. Chissà perché lui, Iida e Shouto si erano dati appuntamento davanti alla biblioteca. Todoroki era in ritardo e non si sapeva quando sarebbe arrivato di preciso. L'erba mezza ingiallita delle aiuole, distanti qualche metro dalle scale su cui sedevano, traballava sotto la luce del sole e l'asfalto riluceva di piccoli laghi inesistenti. Il caldo si prendeva gioco delle persone come ogni anno e presto l'umidità della sera vi si sarebbe mischiata per rendere ancora più insopportabile il clima. Iida si rigirava il cellulare fra le dita ed Izuku, qualche gradino più in alto, pensava agli scatoloni che ancora dovevano essere svuotati che aveva lasciato ai piedi del letto. Si sfregava le mani, si metteva più comodo, di tanto in tanto dava un'occhiata alla chioma scompigliata dell'amico. Quell'estate aveva deciso pazzamente di far crescere i capelli, era stata un'idea assurda.
<Dimmi che te li taglierai prima dell'inizio delle lezioni> fu brusco nel parlargli, ma sincero.
<Mh? Sì, sì, lo farò. Non sei il primo a farmelo notare, sai?> disse girandosi sorridente verso il riccio.
<Me lo ha detto anche Ochako> e sorrideva, gli angoli della bocca si infossavano da tanto erano tirati. Quella, aveva subito pensato Izuku, era una delle confessioni più delicate che avesse mai udito. Nel rumore della città, con quell'indistinto vociferare di persone a passeggio, quel ragazzo aveva tolto le solite vesti. Cos'era quella sincerità nello sguardo? Non lo seppe, né se lo chiese più, ma bastava ripensarci per dare una stretta allo stomaco. Ad Iida era bastata un'espressione felice, qualche parola infilata fra le righe, per ammettere i propri sentimenti e al riccio era stato sufficiente un secondo per intenderli.
<E quando?>.
<Ieri>.
<Vi siete visti? Solo voi?>.
<Sì, al parco>.
Quando glielo dirai? Aveva pensato e subito aveva trattenuto la domanda perché non evadesse dal pensiero. A volte bisogna rallentare per poter capire. Iida stava solo prendendo tempo prima della fine della stagione estiva, prima dell'inizio dell'università, prima dell'autunno, prima che qualche parola minacciasse di sfuggire anche a lui e appassisse come le foglie che ancora si stagliavano verdi, immobili, nel paesaggio cittadino. Avevano un'apparenza immortale, quasi che i mesi più caldi, successivi all'ultimo anno di liceo, dovessero durare per molto, molto più tempo del necessario e tutti i segreti della stagione estiva si sarebbero persi nella loro vastità.
<Lei mi piace, ma non so che fare> aveva voluto esporsi.
<Non chiederlo a me, Iida>.
<Perché?> la calura di fine agosto si addossava all'edificio, l'erba sembrava ancora più traballante e la città si apriva a forza davanti agli occhi di due ragazzi frastornati dagli eventi più banali della gioventù. Izuku guardava i palazzi farsi piccoli sotto al cielo limpido della giornata ed era tornato a sfregarsi le mani quasi involontariamente. Se il caldo lo avesse potuto far sciogliere ed evitargli di doversi pronunciare su questioni così semplici e al contempo complicate, si sarebbe precipitato oltre l'ombra dell'edificio della biblioteca e gettato alla luce del sole.
<Non ho buoni consigli in proposito>. A me non è mai piaciuto qualcuno, non come a te piace lei.
Ed Iida non aveva più detto nulla, né a lui, né ad Ochako. Allora non era pronto, ma a distanza di mesi Izuku si chiedeva se lo sarebbe mai stato. Continuare a vivere come sempre era tutto quello che il suo amico sapeva fare e alla fine forse era lui e non le parole a dover scappare dalla scomoda, comoda routine a cui si era affezionato.
Si era promesso di non dire un solo "ma" riguardo alla questione anche per questo: perché lui in primis non riusciva a metter piede al di fuori della propria zona di comfort. Tutti i buoni propositi che si fanno all'inizio dell'estate erano stati smarriti come sempre. Da quel giorno di vaghi discorsi la biblioteca si era ormai raffreddata e dalle finestre il paesaggio dormiente dell'inverno dava sonnolenza a chi si tratteneva all'interno dell'edificio. Basta, era stanco. Cacciò le proprie cose nella cartella ed infilò il cappotto.
Caricandosi lo zaino in spalla il peso dei due libri che si era portato dietro sembrò volerlo tirar giù a forza; il giorno era stanco, gliene parlava la luce sbiadita del tramonto che si era perso, ed il suo corpo ne seguiva l'andamento con movimenti che piano lo trascinarono lungo il corridoio. Fra gli alti scaffali in legno persino i tomi ivi contenuti sembravano pronti a riposarsi. Brevi scricchiolii sul vecchio parquet e qualche sussurro lontano lo rassicuravano sul fatto di non esser l'unico studente ad essersi attardato. Le luci alle pareti, che venivano accese rigorosamente alle sei in punto, si manifestarono mentre Izuku si tastava le chiavi della macchina nella tasca destra del cappotto. Quelle luminarie erano sbiadite e affaticavano gli occhi, i topi di biblioteca come lui ne fuggivano per preservare quel che restava della vista. Vagava con lo sguardo, respirava l'odore della carta e si chiedeva se anche quella sera avrebbe aperto il frigo per scoprire di non aver fatto la spesa.
A metà corridoio un fruscio pesante di pagine lo allontanò bruscamente dal pensiero della cena, quel suono era assordante nel silenzio della biblioteca. Si fermò per risistemarsi lo spallaccio ignorando il frastuono di una seconda pagina che veniva malamente fatta flettere. Il rumore, più vicino, era pari ad un tuono. Era alla sua sinistra.
Al terzo foglio che lamentoso pronunciava la propria presenza lo zaino di Izuku scivolò molle lungo il suo braccio ed un paio di frasi sconnesse si formularono nella sua testa senza trovare forma precisa e poche sillabe trovarono la via per giungere alle labbra.
<Katsuki>.
Un saluto? Forse sì, forse no, forse sia sì che no.
<Izuku> il tono era piatto, insapore.
"Tlack", il libro si chiuse fra le mani del biondo, in un breve rimbombo le povere pagine furono schiacciate nella rigida copertina e lo zaino del riccio toccò terra.
Ciuffi chiari si mossero, l'ombra che investiva quell'angolo della biblioteca lo fece dubitare, solo per un millesimo di secondo, di esser davvero davanti a Katsuki. Ma in fondo ne riconosceva i tratti, quella postura china era inconfondibile. Se ne stava con i piedi sulla panca, seduto sul tavolo, nessuna considerazione per le evidenti chiazze umide di neve che stava lasciando ovunque tranne che sul pavimento. Acqua, freddo, trasparente, sangue di fantasma, nuova forma per il ricordo che aveva di un rosso sempre più sbiadito. Fra l'attimo in cui lo notò e quello in cui i loro nomi si rincorsero a mo' di "ti ho notato" il tempo si distorse.
Aveva la stessa giacca della festa, la stessa aria nebbiosa attorno, quella che comunicava in ogni direzione che il mondo lo avrebbe dovuto lasciare in pace, lo stesso libro che teneva in mano dava l'impressione di voler fuggire e cadere a terra. Se così fosse accaduto, se quell'oggetto avesse avuto volontà propria -Izuku inspirò profondamente nel chiederselo- che rumore avrebbe fatto? Un colpo secco, come di un mattone? O si sarebbe sfatto in mille fogli per aver più delicatezza nel precipitare? E se anche questo avesse potuto accadere, che suono avrebbero prodotto le pagine liberate? Fruscii e battiti, raschi, gli stessi che un corpo può fare, i medesimi che non tanto la giacca di pelle di Katsuki, ma Katsuki stesso poteva produrre. Quel libro scomposto si sarebbe comportato come lui, su una superficie piana, sospirando per il sollievo di non sentire alcuna necessità di esser raccolto.
La zip della giacca ciondolò tintinnando mentre il biondo raddrizzava la schiena.
Il respiro di Izuku fu ingoiato.
Non parlare, silenzio.
La pelle si piegava attorno alle spalle, i segni delle pieghe lungo i gomiti facevano intendere un'usura non troppo pronunciata che faceva il paio con gli anfibi che toccarono terra con un colpo secco. Il passo di Katsuki strisciò di un metro in avanti e si fermò davanti al riccio.
<È per l'esame di storia dell'arte?> era una domanda incompleta, a cui Izuku aggiunse uno sprezzante "Sei sempre qui a studiare", ma non seppe come...il tono di quell'immaginario commento gli parve stonato. Katsuki avrebbe potuto dire cose simili, forse anche peggiori, tuttavia non se la sentiva di metter in bocca alle persone parole che solo lui cercava di sentire.
<Sì> rispose a disagio, lo spallaccio dello zaino stretto fra le dita, i piedi pronti a riprendere il cammino verso l'uscita.
Dopo quel ventoso lunedì non si erano più visti, sia in senso letterale che non. Nessun incontro lungo i corridoi, niente vociare dal fondo della classe e conseguentemente niente rigide occhiate di disapprovazione lanciate dal riccio verso le ultime file. E neanche il tempo era più stato lo stesso: niente più cieli spaccati.
Le temperature si erano abbassate, nell'arco di un paio di settimane aveva fatto in tempo a ghiacciare per poi giungere a quel venerdì con nuvole sopra alla testa e fiocchi nell'aria. Quella sera, così si era prospettato, le strade sarebbero state scivolose per il ghiaccio.
Il clima aveva seguito il proprio corso, eppure si aveva la sensazione che la neve non fosse giusta in quel momento, che l'inverno dovesse finire in fretta per lasciar posto ai primi giorni di sole. Le ore di luce finivano ancora presto, lo studio si accumulava, non usciva molto con gli amici e l'appartamento era diventato un rifugio che lo inghiottiva fra pile di libri, fogli da disegno sparsi qui e là e tazze di caffè bevute solo a metà. Aveva piacere solo nel fine settimana, quando si seppelliva fra le coperte con un libro in mano che, ormai lo sapeva, non avrebbe iniziato. Bastava tenerlo in mano, promettersi di leggerlo prima o poi e ad un certo punto si sarebbe accorto di averlo finito; non voleva mai sapere quando avrebbe letto le prime righe, né quando sarebbe giunto all'epilogo: questo era il senso. Perché Izuku amava l'inverno, ma solo quando se lo poteva permettere, proprio come le sigarette che improvvisamente si ricordò di avere in tasca. Strinse il pacchetto, trovò anche l'accendino e si rimproverò da solo per certi pensieri. I vizi, dalla lettura ripresa a singhiozzi fino al fumo, erano un segno della stagione fredda.
<E tu?> lo chiese prima di pensare.
Non parlare, silenzio.

La Petite mort -Dekubaku-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora