VI - La macchina del tempo -

73 2 0
                                    

Il sonoro "clack!" della portiera fece sussultare la vettura ed Izuku oscillò brevemente al posto del conducente, ma non disse nulla a chi aveva occupato la seduta al suo fianco. Due corpi stavano sprofondando nella pelle degli interni, avevano entrambi un modo di fare stanco. Doveva forse preoccuparsi di riprendere Katsuki quando era il primo a non prestare attenzione a certe cose?
La sua era una 911 modello G degli anni '70 color nero carbone, era appartenuta ad Inko e portava ancora un paio di ammacchi dovuti alla sua guida spericolata da giovane. Lo aveva detto più volte a Midoriya: "Se la fai mettere a posto falli sparire, è un peccato veder quei segni sotto alla vernice nuova" e le aveva ubbidito, ma lei restava convinta del contrario visto che due belle infossature se ne stavano vicino alla ruota posteriore, quasi nell'esatto punto dei loro predecessori. Chi mai avrebbe avuto il coraggio per dirle che il figlio aveva avuto la sua stessa smodatezza alla guida?
Katsuki grattò fra loro le suole degli anfibi, si sistemò e, con stupore del riccio, tirò la cintura e la allacciò.
<Che c'è?> Oh, lo stava forse fissando? Izuku distolse subito lo sguardo, il biondo fece scattare la chiusura.
<Sì, la cintura la metto. È tanto scioccante?>.
No. Sì. Che devo dirti? È proprio da te.
Ma Izuku si limitò solamente ad alzare e abbassare le spalle, come a scrollarsi di dosso ogni rimasuglio di frustrazione che Katsuki gli lasciava quando parlava.
Era dannatamente tagliente, faceva cadere frasi, commenti, domande come schegge di vetro e nessuno si riparava, nessuno faceva mai in tempo. Non si scusava mai, né nascondeva le offese, non era nella sua natura ed in parte Izuku apprezzava questa sua qualità. Almeno lui era come lo ricordava e se avesse dovuto parlare di crescita e non di infanzia, avrebbe potuto dire che almeno lui fosse diventato come si sarebbe aspettato. Non ne aveva avuti molti, di punti fermi, non sapeva se Katsuki si potesse definire tale, ma averlo a fianco sulla stessa macchina gli faceva pensare di poterlo considerare qualcosa che più si avvicinava ad un tratto di penna e non di matita, inchiostro e non grafite, capace di permanere e non di svanire in resti di cancellature. Katsuki aveva viaggiato lontano da lui, a grande velocità, lo sentiva. E a tratti lo vedeva deviare per strade diverse, farsi spazio in un mondo che le parole di un bambino avevano definito nostro, poi mio, tuo, ed infine di nessuno. La cruda verità, quella di aver preso sentieri diversi, iniziò a divorarlo a partire dalle dita. Stringeva le chiavi mentre indugiava nel girarle, qualcosa gli diceva di trovarsi nella situazione sbagliata ancora una volta.
Aveva accanto qualcuno che si alternava nell'essere un distante amico d'infanzia ed uno sconosciuto, il fatto che riaschiasse di essere entrambe le cose quasi gli dava il mal di testa. Dalla giacca in pelle consumata agli anfibi mal allacciati dava uno sguardo al Katsuki che riconosceva e al contempo non comprendeva il perché della sua presenza. Chi vedeva era un involucro di sembianze famigliari, il ragazzo che vi stava dentro poteva essere chiunque. Scosse la testa in un movimento impercettibile, i ricci tremarono attorno al suo viso arrossato dal freddo, accese il motore e mandò giù i propri pensieri come se fossero aria. A volte era semplice metterli da parte. Continuava a farsi domande inutili, pensò, per una sera inutile.
Izuku agiva, pensava, era lì a far manovra lungo la via e respirava l'odore che la festa, quel cumulo di gente, gli aveva lasciato addosso assieme a ciò che si era procurato da solo: una felpa mezza impregnata di fumo, non maleodorante abbastanza per esser lavata. Una volta presa la direzione giusta premette sull'acceleratore con l'unica preoccupazione di dover fare prendere aria ai propri vestiti quando sarebbe rientrato a casa fra non poche ore. Gli venne spontaneo sospirare, ma si trattenne per lasciare che solo il fruscio di Katsuki che armeggiava con la giacca riempisse l'ambiente.
Gli rivolse un'occhiata più attenta e lo vide sfilarsi la manica sinistra prima di posare l'indumento sulle gambe e stringersi nelle spalle. Il biondo mise un gomito sul piano della maniglia, si accomodò sugli interni scuri e lasciò cadere la guancia destra sulla mano.
Izuku inspirò ed una punta di qualche ferrosa sostanza gli invase le narici. Nello svoltare e dare la precedenza si rese nuovamente conto del fatto che Katsuki avesse la maglia sporca di sangue.
Se ne meravigliò nuovamente, ma con meno sorpresa di prima, poiché di quel bordeaux mezzo sbiadito aveva già visto le sfumature nella persona che le portava. Una luce rossa scrutava al di là del finestrino risaltando con il medesimo contrasto: erano gli occhi di Katsuki, due vetri affilati che studiavano il nero asfalto su cui stavano viaggiando. Izuku riusciva quasi a sentire la loro lama strisciare e sibilarvi sopra. Se ne stavano incastonati nel mezzo di un viso teso e dai tratti duri di chi è abituato a squadrare il mondo in ogni più piccolo angolo; in inverno, pensò riportando a tratti lo sguardo sulla strada, sembrava più pallido del solito, mancava poco che vi fosse continuità fra la t-shirt bianca ed il braccio che se ne stava posato sulle sue gambe.
Sembra un fantasma. Nella sua testa fu un'affermazione chiara e precisa, che non diede spazio ad altre idee se non a quella che, effettivamente, stava accanto ad un essere non molto dissimile da uno spettro. Katsuki aveva la consistenza del vento e si muoveva contro gli ostacoli, passava fra i corridoi dell'accademia passando dall'ingresso secondario, come aria dagli spifferi delle finestre e forse anche lui veniva distratto dalle ragnatele sui soffitti e si trascinava i piedi a fine giornata. Alle persone non importava, come a lui non importava delle persone, aveva sempre avuto poca considerazione degli altri ed Izuku un tempo non capiva il motivo di tanto menefreghismo. Ma negli anni aveva inquadrato il giusto punto di vista e si era inasprito come ogni giovane uomo. C'è chi cambia pelle prima, chi dopo, a lui era toccato il secondo turno e non se ne rallegrava poiché in lui albergava ancora l'idea infantile che le persone siano come piccoli mattoni atti a costruire la casa dell'anina. Ne dovrebbero circondare il tepore della nascita, non proteggerlo, ma nemmeno ferirlo e accompagnarlo nelle strade della crescita. Eppure molti cocci erano caduti dalle mura di Izuku, molti dalle mura di chi aveva conosciuto ed in poco aveva riconosciuto il destino comune delle illusioni. Esse cadono e vengono inghiottite da qualche dimenticanza come un granello di sabbia si perde nel mare. Vi è troppo per cui ratrristarsi, da perdere o da desiderare, i sentieri di Izuku e di Katsuki li avevano portati, per vie diverse, all'ignorare tale difetto. Non si accontentavano di nulla, né cercavano di aver più di quel che veniva offerto. Che fosse fortuna o disgrazia era cosa che preferivano tener segreta.
Sotto al groviglio di ricci che si muoveva nel seguire le indicazioni stradali Izuku era diviso in due: una parte vuota, incurante delle sue azioni e delle idee che l'altra metà faceva spuntare come bocche di leoni nelle fessure di pietre antiche e possenti, le stesse che lo tenevano separato dal mondo e dai suoi fastidiosi particolari, dalle offese che si erano arrecati a vicenda e per cui Izuku rideva scordandosi lividi e ferite. Perché vi sono cose più importanti e non era più il sognante ragazzino che rincorreva gli apprezzamenti delle persone. Al contrario, si sforzava molto per non ricevere complimenti e, di conseguenza, per non ricevere giudizi ed infine era diventato lui stesso l'occhio che scrutava ed elargiva sentenze in silenzio. Bastava prendere ad esempio Uraraka ed i suoi gesti di eccessiva gentilezza, capire come li disprezzasse e come al contempo la invidiasse per tali sprechi di energia e quando il ragionamento riuscì a toccare il passeggero che era con lui tutto si polverizzò in una nube fitta e pesante, proprio come il banco di nebbia in cui si era tuffata la macchina. L'umidità del fiume si attaccava ai vetri, un paio di buche fecero sussultare la vettura, ma all'interno nulla si mosse ed il silenzio del viaggio sovvenne come i rintocchi di un orologio. Al loro scadere Izuku avrebbe iniziato a picchiettare con le unghie sul volante, storto il collo e rilassato le spalle, giusto per riempire l'ambiente di piccoli movimenti innocui sufficienti a scacciar via la sensazione di dover dire qualcosa.
Passavano vicino ai marciapiedi, sotto all'intercalare delle luci dei lampioni e guardavano combriccole di liceali ammassarsi all'ingresso di un locale con un'insegna luminosa vecchia e priva di una lettera. Un alone giallo, da sopra le teste dei ragazzi, circondava quel breve tratto di strada, pareva voler riscaldare i loro corpi ed invitarli ad entrare per ripararsi dalla rigidità di gennaio.
Fra questi, al limitare del gruppo, due ragazze di stringevano nei loro cappotti e sorridevano a qualcuno, felici di star respirando aria gelata in compagnia. Erano solo indistinte figure sconosciute, incontri casuali che si fanno lungo le strade della città, la tremenda città che affascina e respinge, quella in cui aveva sempre vissuto e da cui voleva e non voleva fuggire. Quel luogo era stretto, eppure perfetto, eppure imperfetto, lo faceva sentire costantemente fuori posto.
Una delle ragazze tirò fuori il cellulare dalla tasca, Izuku stava ormai passando il locale, fece un cenno all'amica che avrebbe risposto ad una chiamata, allora roteò sul posto ed un ammasso di fili corvini la seguì fluttuando nella penombra. Ad Izuku venne l'istinto di frenare, ma il piede vibrò solamente e non schiacciò il pedale, l'insegna gialla passò e così fece lui prima di inspirare e fissare stranito il semaforo verso cui stava andando e che di sicuro sarebbe diventato rosso di lì a poco. Rallentò prima delle strisce pedonali, si scosse e trattenne uno sbadiglio; quante cose si potevano fare e pensare da seduti.
Liceali e uscite a tarda notte, ragazze e telefonate notturne, capelli neri e lontani ricordi. Izuku credette di impazzire nel figurarsi decine di mesi addietro, in una stanza non sua, a far scivolare fra le dita una chioma liscia e scura prima di addormentarsi, conscio di non poter aver altro dalla persona con cui aveva speso una manciata di ore e che si sarebbe svegliata senza qualcuno accanto. Certe cose vanno così. Non per tutti, non per alcuni, ma per lui e chissà quante altre persone notti del genere passano e vanno con leggerezza, prive di significato. A malapena rammentava la sensazione di stanchezza, la voglia di voler correre a casa e quella di dire ai suoi amici che anche lui aveva pagato il pedaggio della crescita. Ma in fondo sapeva che avrebbe tenuto il racconto per sé e che avrebbe semplicemente sorriso e annuito alle loro allusioni. Era passato tanto tempo dalla sua prima volta, quasi impazziva per il come un'immagine lo avesse rimandato a quell'estate.
Ma era tardi per voltarsi a guardare indietro, tardi per chiedersi se fosse una buona idea farlo e tardi per molte altre cose.
<Non sai dove abito> l'affermazione aveva il punto interrogativo fra una sillaba e l'altra, la raschiata voce del biondo lasciava trasparire più di quanto volesse dire. Izuku non gli aveva chiesto nulla, ma non stava girando alla cieca.
<Oh, sì, lo so. Sei nella mia stessa via, verso l'inizio, sulla sinistra> rispose con fare distratto e la voglia di schiacciare il piede sul freno che scemava in una miriade di ragionamenti sconclusionati. Si dava dello stupido, si pentiva e rimangiava le parole, seguiva la via della mente e quella del corpo oscurando a tratti l'una e l'altra. Quando sentì di essere nuovamente alla guida dell'auto e non in sperdute camere sature di respiri scoprì di aver risposto a Katsuki come se il tutto fosse ovvio. Ed il viso del ragazzo, pallido come la nebbia, presentava i tratti tirati di chi non aveva nulla da aggiungere se non un "Ah" mezzo bofonchiato.
Era così strano? Izuku sapeva molto riguardo a Katsuki, considerava la cosa come una logica conseguenza della loro vecchia amicizia che, seppur appassita, non aveva cancellato nessuna traccia del proprio passaggio. Forse la loro flessibilità, quella primitiva ed infantile caratteristica che li aveva avvicinati, era mutata in rigidezza ed erano diventati troppo orgogliosi per ammettere che fosse inevitabile il seguirsi con lo sguardo di tanto intanto lungo la via del ritorno una volta conclusa l'ultima ora di lezione. Improvvisamente il "Ah" di Katsuki sembrò ridicolo, come un commento superfluo o un riempitivo volto a sviare un discorso nemmeno iniziato. Sapevano entrambi di abitare nelle medesima via, ma era ormai abitudine sorvolare su certi particolari, soprattutto se a nessuna delle due persone poteva risultare utile una tale informazione. E veniva meno l'importanza di ogni particolare, dalle corse vicino agli argini alle impronte infangate che i loro piccoli piedi lasciavano quando si rifugiavano in casa dalla pioggia, dal come la loro immagine fosse cambiata negli anni al quanto si fossero scostati da ciò che avevano fantasticato di diventare. Per un attimo fece male il pensiero di non poter più contare sul passato, come un pizzicore sulla schiena e punte di spilli che premevano sulle tempie, sentire di aver dimenticato molti particolari che un tempo erano di vitale importanza fece capire ad Izuku di aver deluso il ragazzino che si riparava negli abbracci della madre quando le giornate erano pesanti o inciampava nelle stringhe che non sapeva allacciare. Infine, udire il frastuono della città, il sibilo delle macchine nelle strade e l'eco di un clacson lontano, lo portò avanti, sul balcone del suo appartamento, in uno specchio di quel che era accaduto nei mesi che avevano preceduto la malinconia di una notte solitaria spesa fra acido sapore di gin e folli ripensamenti sulle proprie azioni. Il retrogusto dell'alcol fra le gengive e gli occhi verdi di un prato scuro di sera, la voglia di voltarsi proprio come allora, verso la ragazza dai fili di carbone che come sabbia di carbone si sfalda nella memoria. L'umidità di Ginevra ne avrebbe raccolto i grumi, chissà dove li avrebbe portati. Izuku sperava che la loro meta fosse lontana, più lontana dell'ultimo palazzo della via, non il suo, né di qualcuno che come lui se ne stava a congelare fuori, sotto le nuvole che giocavano a nascondere le stelle. Le luci del sesto piano erano sempre spente, si poteva pensare che vi dimorasse qualche schiva creatura dell'ombra, un piccolo demone per una piccola città. Ma chi mai avrebbe pensato ad una cosa simile? La gente non sapeva nulla di quell'antro odoroso di fumo e di carta che ad Izuku sembrava il miraggio di un sogno mutato in incubo e di un incubo mutato in sogno. A guardarlo dalla distanza di casa sua si convinceva sempre più che l'abitante di quella terra vicina, ma non troppo, fosse scomparso o che se ne fosse andato per non tornar più.
Di tanto in tanto vedeva macchine passare nella via, ma nessuna si fermava e da mesi non vedeva più passare la familiare vernice nera della Pontiac di Mitsuki, senza i suoi lucidi riflessi il panorama, dalla sua prospettiva, si era spento. Si sporgeva dal balcone nei lunghi pomeriggi dedicati allo studio, in estate lo aveva fatto più volte sottraendo tempo alla propria concentrazione, e constatava quanto si fosse fatta monotona la vita dopo l'esplosione della bomba che gli era sfuggita dalle mani. Credo di amarti. La sua confessione era un ritornello che nelle ore spese a rimuginarvi sopra assumeva il ritmo di una qualche simpatica canzone troppo allegra per farlo rattristare. Se ne andava con il vagabondare vicino al fiume, tra una chiacchera con Iida e le espressioni rilassate di Ochako e Shouto, in un silenzio capace di nascondere ancora una volta l'amaro che gli era rimasto in bocca. Credere non è un'affermazione abbastanza potente, ma la colpa non era stata sua, né di Katsuki, erano soli di fronte al mondo ed il mondo non è indulgente con chi spreca le occasioni date. Ci sono persone che non le riconoscono, altre che le sprecano, Izuku si era ritrovato nel mezzo e nella confusione voleva solo agire e non pensare. Per non sbagliare, per non fare le cose nel modo giusto, per improvvisare ed essere spontaneo. Alla fine aveva solamente dato l'impressione di essere uno stupido. Basta poco per rovinare un disegno, una sbavatura o una cancellatura di troppo, qualche goccia di acquerello sparsa e con la sua sbadataggine il riccio aveva versato l'intero bicchiere colmo di acqua sporca e viscida di colori. Aveva annacquato una tela e sprecato la fatica impiegata nel lavorarla, solo per ritrovarsi con un piede affondato nei ricordi di un qualunque viaggio a tarda notte che di illusioni ancora parlava.
Vedeva la sua 911 fermarsi accostarsi al marciapiede, le labbra premersi e far fuoriuscire un timido "Come va con i tuoi?" e sentiva la serratura della portiera scattare, il tintinnio di un mazzo di chiavi allontanarsi.
<Katsuki!> lo aveva chiamato dal finestrino mezzo abbassato, un alito di aria calda disperso fuori dalla macchina ed un evidente sopracciglio alzato da parte del biondo rimasto con la mano ad un palmo dalla serratura dell'ingresso.
<Mh?>.
<Credo che mia madre sarebbe felice di rivedere Mitsuki, le fa piacere avere ospiti e, se avete bisogno di qualcosa, sarebbe disposta ad aiutare in qualunque modo> e aveva lasciato sottointeso il fatto che Katsuki avrebbe potuto riferire la cosa. Poi, come a ripiegare sui passi appena fatti per spingersi un poco più avanti, sospirò nel vedere come l'atmosfera silenziosa lo facesse rabbrividire ad ogni minimo rumore che riecheggiava nella via. Fruscii di rami nella brezza e la calma terrorizzante dell'inverno conferivano a Katsuki un contorno preciso, l'aspetto di qualcuno indisposto verso chi si prolunga troppo nel discorso e che, nonostante il carattere rigido e la compostezza di una statua di ghiaccio, risentiva delle basse temperature. Di fatto, il biondo si era stretto nella giacca e aveva puntato i pugni nelle tasche mostrandosi infastidito dal richiamo del riccio come se lo avesse trattenuto con la forza per ascoltarlo. Katsuki, in un modo o nell'altro, sembrava sempre costretto a fare qualsiasi cosa. Forse dovrei andare, anche se non ho nulla da fare se non aspettare. Allora ci salutiamo così, adesso, e non ci parleremo di nuovo per chissà quanti giorni.
<Prima non avrei dovuto chiedere, ma volevo sapere se andava tutto bene> se ne era uscito con un tono che di preoccupato non aveva nulla, ma rivelava, piuttosto, una curiosità ribelle, che aveva fatto capolino oltre le parole che Izuku si era preparato a pronunciare. Aveva abbassato lo sguardo, indagato sul sedile che era stato occupato dal biondo e contato un paio di secondi prima di sentire i suoi anfibi grattare sul marciapiede e sollevare il mento per incontrare due iridi immobili. Il rosso del suo sguardo era congelato, scuro sotto alla luce del lampione distante qualche metro e la linea retta delle sopracciglia avrebbe messo in soggezione chiunque. Izuku deglutì, ma non avvertì altro se non una delusione crescente, la stessa che lo aveva colto dopo il dialogo della vigilia, quando si era reso conto che quella singolarità non aveva avuto alcun valore, come molti altri avvenimenti.
<Tsk>.
Nessuna risposta, nessun ringraziamento, né un saluto, lui era fatto così. Pochi fronzoli e pura praticità, fare stizzito e atteggiamento di superiorità, faceva sembrare ogni favore ed ogni interesse una colpa ed ogni colpa una terribile offesa. Izuku non si era pentito di averlo accompagnato a casa, ma per qualche ragione, dopo lunghi mesi in cui non aveva fatto altro che aggrapparsi all'idea di poter tornare indietro e compiere scelte diverse, si sentì in obbligo di spendere un po' di fiato per prendersi in giro e per alleggerire il peso che portava e che dalla festa di gennaio non aveva fatto altro che aumentare.
Diede un colpo col bicchiere sulla ringhiera, guardò di nuovo il palazzo dall'altra parte della strada sotto cui aveva parcheggiato quella volta e tese la bocca con fare scontento. Da quella che era iniziata come un'avventura inattesa non aveva avuto niente, aveva solo perso.

<Scusami, Kacchan>

<Scusami, Kacchan>

Oops! Questa immagine non segue le nostre linee guida sui contenuti. Per continuare la pubblicazione, provare a rimuoverlo o caricare un altro.

Sono di nuovo a casa, ho un momento di pausa e ho deciso di riordinare alcune idee riguardo alla storia

Oops! Questa immagine non segue le nostre linee guida sui contenuti. Per continuare la pubblicazione, provare a rimuoverlo o caricare un altro.

Sono di nuovo a casa, ho un momento di pausa e ho deciso di riordinare alcune idee riguardo alla storia. Direi che dal prossimo si prenderà il ritmo giusto, così spero.
Lunedì tornerò all'appartamento ed inizierà una nuova settimana di lunghe lezioni di letteratura e di giapponese. Giuro che desidero ardentemente premere un qualche tasto per mettere tutto in pausa, ma suppongo che dovrò rassegnarmi all'idea di essere già a Novembre e di non esser riuscita ad andare al Lucca comics ಥ_ಥ.
Vi auguro un buon weekend ed un buon Halloween 🖤

La Petite mort -Dekubaku-Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora