Alla mattina Izuku, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato, nel suo letto, in una mente vuota. Era disteso sul dorso, rigido come un legno, e alzando un poco il capo poteva vedere il suo ventre mezzo coperto dalle lenzuola, prossime a scivolare a terra, rabbrividire al freddo. Il pigiama si era mezzo sfilato da tanto si era mosso nella notte. Una moltitudine di pensieri, sottili come fili, si agitavano sopra di lui, vicino al soffitto, e non parevano aver intenzione di scendere. Che mi è accaduto? pensò. Non era un sogno. La sua camera, una camera normale a misura di persona, soltanto un po' troppo disordinata, aveva il solito aspetto fra le quattro note pareti. Al di sopra della scrivania, su cui era impilato un gran quantitativo di fogli di ogni tipo, era appeso uno schizzo che egli stesso aveva tracciato qualche giorno prima prendendo spunto dal viaggio in autobus fino all'accademia. Quella mattina, così ricordava, la sua macchina si era rifiutata di partire. Il disegno rappresentava un signore dai tratti marcati addormentato sul sedile, la testa ondeggiante, capelli in parte bianchi. Ricordava di aver colto una certa aria sinistra provenire dalle sue mani rovinate. Doveva essere un lavoratore del settore edile, lo aveva supposto dai jeans sporchi di vernice e polvere e dalle grosse nocche piegate. Era un essere cupo, strano da vedere, che spesso va a braccetto con i pregiudizi della gente. La barba mal rasata poteva farlo passare per un senza tetto, ma le scarpe nuove e robuste, con la giacca tecnica di buona marca, suggerivano altro. In più aveva uno zaino posato a terra, custodito fra le gambe, e dalla zip mezza aperta fuoriuscivano carte, un metro pieghevole, manici di attrezzi. Nella nicchia dell'autobus, mezzo accartocciato, pareva lanciar maledizioni da sotto le palpebre, proprio dagli occhi coperti che se ne stavano incassati nelle orbite. Nel complesso sembrava esile, smagrito dall'avanzare degli anni. Nessuno avrebbe occupato la seduta al suo fianco. Nessuno si sarebbe fidato. E lui avrebbe passato il tragitto verso chissà dove nella più completa tranquillità. Izuku gli diede fra i cinquantacinque ed i sessant'anni. Se suo padre fosse stato vivo, avrebbe avuto la stessa età.
Hisashi non avrebbe avuto le dita bianche di calce, né portato abiti da lavoro tanto logori, ma qualcosa nell'aspetto tetro dell'uomo gli aveva riportato in mente la sua figura stanca posata sulla sedia dello studio, contornata da un'aria nebbiosa di malumore.
Già, quell'uomo, che lavorava nell'edilizia, appariva indisposto verso il mondo, proprio come Hisashi appariva infastidito da chiunque lo disturbasse nel suo luogo di riflessione. Izuku lo aveva trovato brutto, di una bruttezza pungente, ma autentico e per questo lo aveva ritratto nel piccolo album da disegno. Lo aveva fatto di nascosto, dietro la cartella, lanciando occhiate furtive. Lo spessore del tratto marcava gli stessi segni del tempo sul viso dell'uomo e, anzi, la carta ne dava maggior risalto. Lo aveva voluto catturare, il perché era mistero.
Non sapeva che farsene, di quel disegno.
Lo sguardo di Izuku si levò allora alla finestra e il cielo tetro - si sentivano battere le gocce di pioggia mista neve sul vetro - finì di renderlo malinconico. Se dormissi ancora un poco e dimenticassi tutte queste pazzie? pensò; ma fu assolutamente impossibile; era abituato a dormire sul lato destro, non nel modo in cui era messo ed ormai era troppo sveglio per provare a ricadere nel sonno. Il grigiume al di là della finestra non dava modo di capire che ore fossero, ma Izuku sentiva che era presto, molto presto, lo avvertiva nelle ossa che faticavano a muoversi. Ancora, un'altra notte agitata, i soliti dolori ad accompagnarlo. Dormiva male di tanto in tanto e quando accadeva pioveva, come se il cielo si divertisse a deriderlo per le ore in cui il suo corpo si era stancato a rigirarsi nel letto. Così al sabato mattina non faceva abbastanza freddo e la neve si sarebbe sciolta sotto l'acqua, ritornando, mischiandosi ad essa. Sarebbe mutata per sciogliersi ed andare a render lucide le strade di Ginevra, spargendosi in rivoli sui marciapiedi, gocciolando rumorosamente dai tetti e colando dalle grondaie. La città avrebbe perso la coperta bianca, l'inverno si sarebbe allontanato almeno per il weekend, lasciando cumoli di nevischio sporchi di smog ai lati delle vie come segno del proprio passaggio. Servivano a dire che sarebbe tornato, il quando non era importante saperlo.
Izuku voleva alzarsi, pur ascoltando il cielo ancora ombroso che gli urlava: "È presto, resta lì. Fa freddo fuori dal letto, resta lì. Sei solo, resta lì". Ma l'ultimo punto lo scosse ed il rombo di un tuono in lontananza gli fece ricordare la sera del giorno prima. Smentì le parole delle nuvole, ne confutò il significato, pensò non più al come alzarsi, ma al come uscire dalla camera. Poteva scoprirlo solo agendo perché i pensieri, quelli più pesanti e importanti, roteavano ancora presso il lampadario.
Raccolse le poche energie perse nella stanza durante la notte per sfilarsi dalle coperte e scendere a piedi nudi sul parquet. Era gelido. Si alzò barcollando, trattenendo uno sbadiglio, e passando accanto al disegno del signore dell'autobus afferrò la vestaglia appesa allo schienale della sedia. Gli occhi dell'uomo lo seguivano da sotto i tratti delle palpebre chiuse.
Un paio di maglie caddero dietro lo strascico della stoffa, restarono a fissare Izuku dal pavimento, consce che non sarebbero state raccolte. Il riccio era già davanti alla porta intento a risistemare il colletto del pigiama mentre posava le dita sulla maniglia. Lo scatto della maniglia si udì chiaramente nel breve corridoio e nello sgattaiolare fino in bagno pensò intensamente ai passi da fare fino al lavandino, al quanto girare le manopole dell'acqua per non fare troppo rumore e persino a quanto il proprio respiro fosse pesante alla mattina. Era da tanto che qualcuno non si fermava a dormire in quella casa ed era da ancora più tempo che non offriva ospitalità senza esitazione. Prima di entrare in sala prese inaspettatamente a galleggiare in una bolla di confusione.
I pensieri, quelli rimasti in camera, stavano tornando al loro corpo.
Strisciavano per terra, sui suoi piedi freddi e si arrampicavano fino alla testa. Il primo fu per il freddo della giornata, per il nevischio che già si accumulava nelle vie, per il vento che spostava le nuvole e che aveva portato fin lì il maltempo. Qualcosa di così distante le trasportava, le trasformava, le plasmava. Il vento, con la sua corsa incessante, faceva cadere la pioggia contro le finestre dell'appartamento e quel suono ne riempiva le stanze fin quasi a colmarle. Era lo stesso vento che soffiava nei pressi dell'accademia, che entrava dagli spifferi, che muoveva le ragnatele sul soffitto, che camminava perdendosi nelle aule e che spingeva gli studenti ad entrare e ad uscire. Nessuno poteva fermarlo, proprio per la sua forma sconosciuta che la natura gli aveva dato. Nessuna mano riusciva ad afferrarlo, nessuno sguardo ad inseguirlo, nessun tratto di matita a catturarlo. Solo quel che il vento toccava ne testimoniava la presenza. La pioggia, i rami sottili, gli ombrelli piegati, i sibili della città. Era un semplice spirito errante, che cancellava le proprie orme nello stesso istante in cui si dissolveva. Un fantasma, nient'altro, vestito di aria e profumi di stagione.
Quella mattina avrebbe portato odore di acqua, fruscii di abiti, ma finché Izuku fosse rimasto chiuso in casa non ne avrebbe dovuto fuggire. Questa era una certezza, anche se si rese presto conto di star ospitando un altro tipo di spettro nelle mura dell'appartamento.
Così il secondo pensiero andò al caffè della sera prima, alla Winston che gli era stata offerta e che aveva accettato, ai cassetti in cui qualcuno aveva frugato per prendere una delle sue tute.
Katsuki era ancora sul divano, con la coperta più malmessa di come si ricordasse, il cappuccio della felpa mezzo tirato su ed il naso nascosto nella stoffa, dita che avvolgevano il busto; Izuku lo guardava dall'alto con le mani infilate nelle tasche della vestaglia, ascoltava il bussare di mille domande rimbombare nella testa e la porta d'ingresso venir loro sbarrata, questo almeno fin quando non avesse fatto colazione.
Katsuki dormiva, dava l'impressione di esser caduto in un sonno talmente profondo che Izuku giudicò impossibile destare con il semplice camminare fino alla cucina ed il ticchettio dell'elettricità dei fornelli. La fiamma avvolse il fondo del bollitore, sparse il proprio basso sibilo ed il riccio fissò ansioso le spalle del biondo. Era così disordinato il suo soggiorno, solo per la sua presenza.
Perché teneva i piedi scoperti? Perché si abbracciava? Dava un senso di fredda comodità.
Spense sotto al bollitore non appena un lieve clangore metallico si fece sentire, l'acqua non era caldissima, ma giusta per esser versata, appena fumante. Si pestò da solo la cintura, ma non la rimise a posto e piuttosto allungò una mano per afferrare scatola del tè e teiera da una mensola. La ceramica, sul ripiano dell'isola, produsse un rintocco conciso. Mise un paio di cucchiai di foglie di tè verde nel filtro, riempì la teiera e si mise ad aspettare. Sarebbe stato pronto presto, l'ansia di lasciarlo troppo in infusione lo assalì. E se avesse dovuto aspettare che Katsuki si svegliasse? Forse aveva avuto troppa fretta, forse era abituato a fare tutto da solo e forse avrebbe provato a contare i minuti. Katsuki doveva essere una persona mattutina, era l'ennesima assunzione che faceva...ma perché erano così tante?
Da quando avevano parlato sulla terrazza di Veyrier non aveva smesso di spiegarsi da solo il come ed il perché dei comportamenti del biondo, di trovare a forza una corrispondenza per le proprie idee, ma davvero non sapeva quale fosse il punto di arrivo. Aveva capito grosso modo che Katsuki era cambiato, che fumava di tanto in tanto, proprio come il riccio, che gli piaceva il caffè, che trovava comodo il silenzio, che non amava parlare a lungo, che era pungente di carattere come lo ricordava, che non aveva più interesse per quel che facevano gli altri, anche se in quegli "altri" era compreso il ragazzo con cui era cresciuto. Izuku sapeva tutto questo e cercava di ricostruire l'immagine di una persona ormai sconosciuta. Era penoso, soprattutto di sabato, con lo stomaco ancora vuoto ed il maltempo a far compagnia. Katsuki era lì davanti ai suoi occhi, con le solite sembianze di fantasma, un evanescente figura fuori posto.
Magari era questo il grande punto interrogativo: dove collocarlo? Quel fine settimana era nel suo appartamento, ma il giorno dopo sarebbe potuto essere ovunque. Izuku odiava non sapere il continuo di una storia, ma aveva la sensazione che per Katsuki ci si dovesse affidare completamente al caso.
E in ogni caso qualcosa poteva ancora controllarlo.
Battè due tazze sull'isola facendole tintinnare fra di loro. Nella luce fredda della mattina le stesse spalle che stava continuando ad osservare si scossero. Il risveglio fu brusco, ma Izuku cercò di non sentirsi in colpa per questo.
Il tè andò a riempire le due ceramiche, il rumore della bevanda andò a mischiarsi a quello della pioggia. Brevi spirali bianche in superficie, sarebbe rimasto caldo a lungo, ma ad Izuku dava l'impressione di doversi raffreddare in fretta fra le sue mani. Si chiese il perché della propria. Doveva restare a letto, avrebbe potuto farlo. Le nuvole occupavano le vetrate e con i movimenti disordinati della persona sua ospite parevano voler entrare senza chiedere il permesso. Katsuki si rigirò stringendosi nel tessuto beige della tuta, tirava la coperta. Anche lui avrebbe potuto dormire ancora, se solo Izuku avesse deciso di rimanere in camera, senza pensieri.
Tuonava, nell'appartamento e all'esterno, i rumori del cielo non si fermavano di fronte alle porte chiuse. Izuku ripensò all'uomo del disegno, al come fosse improbabile rincontrarlo e a come dovesse ringraziare la casualità per cose del genere. Non avrebbe mai voluto rivederlo, non per rischiare di ricordare il padre e sprecare tempo a rincorrerne l'immagine. Era stato solo l'incontro con un demone dei mezzi pubblici e come tale quell'essere sarebbe andato a suscitare scomodi pensieri in altre persone. Era il suo compito: disturbare gli uomini e le loro menti. Non è poi così raro che gli esseri umani diventino i loro stessi persecutori.
La coperta cadde a terra. Katsuki era riuscito a liberarsene tirandosi su a sedere scompostamente. Aveva i vestiti stropicciati, il disordine del sonno addosso, strizzava gli occhi come un cucciolo disorientato. Non aveva ancora ricordato dov'era, perché aveva indosso una tuta non sua; anche i suoi pensieri dovevano ritornare al loro corpo. La mattina è un mondo difficile, non è forse così per tutti?
Izuku sollevò gli angoli della bocca nel guardarlo dall'altra parte della stanza e presto si nascose dietro il bordo della tazza. Prese un paio di sorsi, guardò il manico della ceramica e la sua vernice verde e lucente. Scottava vicino alle giunture, ma non troppo, e gli riscaldava le mani che con avidità stringevano la presa. Niente miele, niente zucchero da aggiungere. Forse Katsuki avrebbe storto il naso anche per il tè troppo amaro.
Si figurò l'espressione che il biondo aveva assunto la sera prima alla vista del caffè, puro e intenso, e si rese conto di non ricordarne i particolari. No, sapeva solamente che a lui il caffè piaceva con lo zucchero e questo era sufficiente a figurarsi un qualche ghigno disgustato, un paio di sopracciglia piegate in segno di disapprovazione, l'ombra del dissenso sulla suo viso pallido. Ma mancava l'espressione degli occhi, il tremolio delle guance per la smorfia fatta, l'arricciarsi del naso, tutto quel movimento che sempre gli sfuggiva. Non era come il signore dell'autobus, fermo, immerso in una calma agitata, capace di esprimere tutto con i semplici tratti dell'età. Katsuki era diverso, in lui, come in Izuku, gli anni dovevano ancora lasciare un segno.
Katsuki tirò un grande sospiro, ma Izuku non alzò il mento per osservarlo, era troppo preso dal tracciare linee immaginarie e ricreare innumerevoli bozze di qualcosa che non riusciva a vedere appieno. Il demone dei mezzi pubblici, Katsuki, la grande città coperta dalla pioggia sotto cui tutto quello che aveva mai provato a disegnare si trovava. Eccolo, il punto comune, ma averlo trovato non bastava a dargli la spinta per afferrare il movimento. Che poi era un controsenso, insomma, perché non lo aveva realizzato prima? Prendere fra le dita una cosa del genere ne avrebbe comportato la mutazione. La metamorfosi del movimento, per mano di Izuku, avrebbe portato ad uno stato di quiete, un semplice fermo immagine del mondo. E nel lasciarlo andare il moto avrebbe ripreso. Il cerchio sarebbe continuato a girare e lui sarebbe stato nuovamente pronto a correre lungo il bordo.
Era così difficile fermare tutto e ripartire, Izuku sapeva solo andare avanti. Negli anni era cresciuto, aveva guardato la madre invecchiare, aveva cambiato casa, aveva imparato a vivere lontano dalla sicurezza della famiglia, aveva finito il liceo, iniziato l'università, tutte cose che seguivano un progredire continuo. Non aveva fatto un solo passo indietro. Ma non sapeva se era stato lui a volerlo o l'insistenza del tempo che, come riduzione del cosmo, si allargava e si allargava, senza ammettere il più piccolo restringimento. Il perché l'universo seguisse certe regole era un mistero che percepiva come incomprensibile ai più alti livelli. Nessun essere umano, nessun essere, nessuno gli avrebbe potuto spiegare perché lui, assieme a tante altre cose nel mondo, riuscisse a percorrere solo una strada a senso unico.
Così, nel trangugiare l'ultimo sorso di tè, gli venne in mente un grande cartello rotondo con una linea rossa messa in diagonale. Sbarrava l'accesso a chi voleva partire dalla fine, apriva i cancelli a chi rispettava l'ordine. Il nascere è una condizione che ti pone inevitabilmente sulla casella di partenza, è impensabile che qualcuno possa posizionarsi diversamente. Nasci e sei nel punto zero. Questa è la legge dell'universo, basti immaginarla come una condizione base di un gioco; è la premessa che ti dà la spinta, capito? Lanci i dadi e via, verso l'ignoto o verso il conosciuto, fa lo stesso. L'importante è camminare in avanti e in ogni caso non c'è da preoccuparsi: qualcosa ha stabilito che quella è la direzione e sempre quel qualcosa ha provveduto a fare sì che resti sempre la stessa. Puoi rallentare un po' se vuoi, ma non far mai una vera e propria pausa, questa è un'altra regola, prendila come un derivato della prima. È come se il moto continuo, anche se impercettibile, contribuisse a farti restare girato nel verso giusto. Sei una piccola Terra che gira, che compie la sua rivoluzione attorno al Sole, sempre in avanti. Non c'è anima viva che desideri sperimentare cosa accadrebbe se ad un certo punto il pianeta decidesse di cambiar senso di marcia. Sarebbe una catastrofe.
Ed è per questo che dietro di te, sulla casella del punto di partenza, c'è un grande cartello rotondo. Ti fissa senza occhi e ti dice senza bocca che indietro non si torna. Che poi, che vuol dire "indietro"? Non esiste l'indietro quando nasci, no? Ora sei vivo, la tua anima è in un corpo e ora cammini. A guardarlo bene quel segnale tanto ingombrante non fa paura, è solo un muro, il muro dello zero.
È un cerchio sbarrato, proprio come il numero. In geometria simboleggia la linea del diametro, vale a dire qualsiasi segmento di linea retta che attraversa il centro di un cerchio, le cui estremità terminano sulla circonferenza. Anche quella linea segue la via dell'inizio e della fine, da qualsiasi angolo la si guardi parte e si ferma; se preferisci il diametro del cartello inizia dall'alto e scende, se non ti piace quest'opzione puoi sempre immaginare il contrario. Puoi persino cambiare idea di tanto in tanto, trovar sgradevole la salita o la discesa, dopo tutto un muro non si può offendere. La vita segue gli stessi principi di alto e di basso: li decide chi la osserva, cioè chi la vive, e non per tutti la salita è meglio della discesa. Brutto è il bello e bello è il brutto e viceversa. Non suona bene? Contorto. Interessante. Triste. Divertente. È così e così rimane. Il cerchio sbarrato, il cartello, lo zero o come preferite sta dietro di voi.
Nella via in cui era cresciuto era presente la stessa segnaletica. La sua vecchia casa stava in una strada a senso unico. Era una fortuna davvero, perché per quel motivo Inko si fidava a lasciarlo uscire, fare il giro dell'isolato e capitombolare in casa Katsuki. In qualche modo il fatto che le macchine potessero procedere solo in un verso le faceva percepire un pericolo più basso rispetto ad una strada a doppia corsia. Meno probabilità di incidenti, doveva esser questo il motivo, ma Izuku, da quando aveva preso la patente, riteneva che certi inconvenienti potessero accadere ovunque. Nonostante la sbadataggine iniziale, aveva ereditato l'apprensione per la guida e, se possibile, un livello di diffidenza per gli altri conducenti superiori a quelli della madre.
Da bambino quel cartello significava solo che poteva uscire da casa in tranquillità, sarebbe stato meraviglioso se le cose fossero restate le stesse anche negli anni a venire.
Forse anche Mitsuki si fidava di quella strada, per Izuku questo si vedeva spesso con il figlio. Bakugou Katsuki era stato fortunato quanto lui da bambino ad abitare in quel quartiere dove la via di casa era più sicura delle altre. Avrebbero perso molto se così non fosse stato. Le ginocchia perennemente graffiate, le corse sotto la pioggia estiva, qualche risata ovattata dal silenzio invernale, la nostalgia che ogni tanto il riccio provava per quel periodo felice. Se così era anche per il ragazzo ancora seduto sul divano nel suo appartamento, avrebbero dovuto entrambi ringraziare la segnaletica, lo zero sbarrato che li aveva visti andare e tornare lungo il marciapiede, mentre saltavano le crepe e contavano quanti dei loro piccoli passi occorressero per fare un metro.
Izuku aveva smesso di uscire di casa poco dopo la morte di Hisashi, aveva iniziato a frequentare la Grand Rue, a guardare la madre cucinare, lavorare, sorridere, piangere, essere più sola, e non aveva più pensato alla vita prima di allora. Se lui e Katsuki avevano smesso di vedersi i motivi erano molti e molto semplici, ma in fondo avevano preso assieme, nello stesso momento, la decisione di allontanarsi. Gli anni più difficili, accompagnati dalle beffe del biondo, erano stati la conferma della scelta fatta.
Perché separarsi a quel modo? Sarebbe stato diverso se uno di loro si fosse sforzato di mantenere un contatto?
All'epoca nessuno dei due aveva bisogno dell'altro, dar spazio a certi pensieri facilitava di gran lunga rispondere a domande del genere.
Ma la sera prima Katsuki aveva cercato qualcosa e che l'avesse trovato o meno Izuku sentiva di averlo aiutato, anche se con poco. Il caffè era amaro, il divano un po' stretto, l'aria nell'appartamento fredda, loro due distanti, tuttavia un po' meno del solito. Aveva l'impressione che la strada guadagnata fosse indelebile e che se anche fossero rimasti a quel modo non sarebbe stato così male.
Non erano fatti per esser sconosciuti, perché Izuku sapeva che il biondo si sarebbe alzato stirandosi i muscoli, che avrebbe sbadigliato in silenzio e che non lo avrebbe degnato di uno sguardo. Avrebbe piuttosto guardato la tazza ancora calda sull'isola, premuto i piedi nudi sul parquet e avrebbe mandato giù la bevanda in pochi sorsi mentre il riccio si voltava a riporre le stoviglie nel lavandino. Il rumore dell'acqua corrente avrebbe parlato a mo'di "buongiorno" per entrambi.
Izuku stava strofinando con la spugna il bordo della ceramica quando Katsuki gli allungò la propria ormai vuota.
<Te la restituisco, la tuta intendo, prima di andar via>. Il tono tradiva una certa sonnolenza, in vero era strano sentire una voce diversa dalla propria. Era sabato e al sabato era sempre solo in casa, di solito risuonava un "dovrei studiare" in cucina e per l'intera giornata non si udiva altro. A volte sembrava che i muri implorassero per una maggior compagnia.
Izuku raccolse l'oggetto fra le mani piene di schiuma e annuì. Non disse a Katsuki che avrebbe potuto anche chiedergli dei vestiti invece di frugare nel suo armadio, sentiva che sarebbe stato inutile. Lui era fatto così: entrava, prendeva quel che doveva, non dava spiegazioni.
Con il viso tirato dal sonno, avevano entrambi l'aria di non essersi svegliati nel migliore dei modi. Forse anche il biondo aveva dormito male, ma non osò chiederlo.
E quando andrai via? La domanda rimase incastrata nel coperchio della teiera che stava grattando insistentemente. Anche quello era un quesito a cui non avrebbe dato voce, forse non voleva saperne la risposta.
Magari proprio in quel momento, alle sue spalle, Katsuki si stava cambiando, stava raccogliendo le proprie cose ed in poco lo avrebbe salutato brevemente prima di aprire la porta e sparire. La cosa non lo avrebbe stupito.
Ma sciacquò l'ultima tazza e Katsuki era sempre nel suo soggiorno, sul divano. Era come se non si fosse mai alzato. Era tornato a sedersi e si era tirato la coperta sulle spalle. Era un poco più ordinato rispetto a qualche minuto prima.
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La Petite mort -Dekubaku-
FanfictionLa carta brucia velocemente, un po' come gli uomini, un po' come i loro pensieri. Non tutto può essere conservato, non si è abbastanza capienti per essere tanto ingordi ed in fondo le persone si fabbricano ad un prezzo così basso che non si può pret...