La carta brucia velocemente, un po' come gli uomini, un po' come i loro pensieri. Non tutto può essere conservato, non si è abbastanza capienti per essere tanto ingordi ed in fondo le persone si fabbricano ad un prezzo così basso che non si può pretendere molto né dagli altri, né da se stessi. Il difficile vien nel crescere e nell'aiutare a crescere, così pensava Izuku. Il valore aumenta con il tempo, è un concetto semplice ed efficace. Ma nel guardare i suoi compagni vedeva i resti di una fanciullezza sprecata, come se in poco più di vent'anni ci si potesse sentire maturi e pronti a fronteggiare il mondo. Un paio d'estati e ogni briciola di infantile divertimento era stata spazzata via dai loro volti per far spazio all'ingenua convinzione di aver superato il livello decisivo, quello che ti permette di indossare fantasiose armature d'argento per proteggerti dai mostri della vita. Non più titubante nel farlo, Izuku si chiedeva cosa ne pensasse il ragazzo che sarebbe dovuto comparire all'entrata dell'aula accademica almeno una ventina di minuti prima del suono della campanella. Bizzarro che fosse in ritardo, che si fosse perso? Il corso del professor Toshinori non era più al primo piano, ma al terzo, zona piuttosto inesplorata dell'edificio per loro che erano solo al secondo anno.
Eppure nessuno, neanche lui, aveva trovato difficile individuare il percorso giusto. Era stato strano, si ritrovò a considerare, esser il primo a metter piede nella nuova aula e non trovare il solito ghigno ad attenderlo. Un'enorme stanza vuota, ecco dove si era inoltrato. Nessun mormorio proveniente dai posti più in alto, solo lunghe pancate in legno e scalini silenziosi, privi di qualsiasi scalpiccio. Momo non era ancora arrivata per prendere i primi posti ad Iida e Uraraka, Todoroki non era nel suo angolo a leggere qualche pesante tomo e tutti gli altri vociferanti e chiassosi ragazzi non si erano palesati con il suo stesso anticipo. Quella mattina di inizio ottobre si era svegliato esageratamente presto e, per quanto potesse rigirarsi, sonno non ne avrebbe più recuperato. Perciò si era preparato con calma e si era presentato davanti al vecchio edificio in mattoni senza farsi molte preoccupazioni riguardo a chi avrebbe incontrato per primo. Una volta entrato, quando una chioma bionda gli si accese come una lampadina in testa, cercò di scacciare ogni pensiero che la riguardasse. Aveva passato le vacanze tra campeggio e lunghe letture notturne dei suoi amati fumetti per rilassarsi e svagarsi, togliersi il tarlo che lo aveva consumato fino alla fine della sessione estiva. Non aveva certo intenzione di mandare in fumo i suoi sforzi e la grande prova era finalmente arrivata: sarebbe entrato a passo svelto e dignitoso o si sarebbe fermato davanti alla porta aspettando che per qualche fortuita coincidenza arrivasse un qualche suo compagno o persino il professore a tenergli compagnia in quel frangente d'agitazione?
Quando salì l'ultimo gradino con lo spallaccio della tracolla in pelle stretto fra le dita, con il colletto della camicia tirato in giù dal suo peso e la giacca storta, non si aspettava di aver in corpo abbastanza determinazione da raggiungere a grandi falcate la porta dell'aula numero undici e di sorpassarne l'uscio con espressione seriosa, seppur pallida. Si sentì spaesato, cosciente solo in quell'istante della fretta che lo aveva condotto fin lì, a pestare sul pavimento in piastrelle bianche e nere. Bianche e nere, proprio come la sua visione dell'alba a cui era scappato rifugiandosi all'interno dell'accademia. Una distesa bicolore di quadri, scacchiera su cui posare pedine. Lui stesso si sentiva parte del gioco di quell'aula, dell'intera scuola, e la sensazione di essere rimasto l'ultimo alfiere in piedi gli si attaccava alla pelle come vestiti bagnati. Era sempre stato così? E se gli fosse spettato più che un vagare a destra e sinistra su immaginarie diagonali?
Ma nel momento in cui fece passare lo sguardo su ogni metro cubo della stanza e udì il rimbombo solitario dei suoi passi, una sorta di delusione gli salì in gola, piano iniziò a dargli la nausea e fargli rigettare settimane di buoni propositi. Il caffè che aveva bevuto per strada dopo essersi fermato al solito bar gli parve aver lasciato un retrogusto eccessivamente amaro e deglutì prima di prender posto a metà delle file, nella quarta più precisamente, e gettare malamente la borsa sul ripiano in legno. Il computer si lamentò con un conciso "Toc!" ed Izuku sbuffò condannandosi ad un breve, ma intenso viaggio di pensieri scomodi che culminò con un'accusa che in quel momento poteva rivolgere al signor nessuno.
Codardo, non ci sei mai quando ti cerco, palesati almeno quando provo ad evitarti.
Infine li indossava bene, si disse nel tentativo di confortarsi, i panni dell'alfiere. Un ruolo simile gli conferiva una certa importanza, ma nella giusta dose, il giusto per non rivestirsi del regale egocentrismo che apparteneva sicuramente ad altri individui di sua conoscenza. Pensava a partite immaginarie, perdeva in tutte mentre fissava le alte vetrate in vetro e ghisa che portavano le medesime ragnatele che aveva visto nell'aula dell'anno precedente. Lì, a più di quattro metri d'altezza troneggiava un soffito a vela che, nei suoi quattro spicchi rivestiti di intonaco e vernice, freschi di ristrutturazione, non aveva più quell'aspetto trasandato e crepato che attirava l'occhio degli osservatori.
A questo modo Izuku era rimasto indietro, persino quando la classe si era riempita ed un signore dal rigido, ma lievemente goffo portamento si era fatto strada fino alla cattedra, si sentiva galleggiare fra le nuvole. Lo aveva seguito distrattamente camminare nel suo completo gessato color crema, aveva notato che gli stava largo sulle spalle e non appena aveva pronunciato qualche parola di saluto era crollato sul ripiano che aveva davanti con un tonfo sordo. Avrebbe iniziato a prendere compulsivamente appunti dal secondo giorno, il primo doveva essere pieno di angoscia per la fine delle vacanze, di elettrizzanti premesse e al massimo di lezioni di ripasso, nulla che lo interessasse.
<Eijiro, tu non sai niente?> la voce di Denki si sollevò alle spalle del riccio, gli si arrampicò sulla schiena facendolo rabbrividire. Quel rumoroso e ristretto gruppo che da sempre si era ritrovato in classe alla prima ora poteva parlare solo di poche cose: sonno arretrato, compiti non fatti o di voci di corridoio. Chissà come queste ultime giravano costantemente attorno ad un certo qualcuno. Una scossa. La pressione vicino alle tempie gli fece temere il peggio. D'un tratto aveva avuto la netta impressione che la testa gli sarebbe scoppiata prima della seconda ora.
<No, non ha risposto neanche a me> rispose il rosso con un certo tono sconfortato, ma non quanto quello di Mina, colei in cui confluiva qualsiasi tipo di gossip, che subito si sentì in dovere di intervenire. Involontariamente Izuku tese le orecchie incuriosito dal vago e per niente esaustivo discorso intrapreso dai suoi compagni.
<Non risponde a nessuno. Dicono che abbia avuto dei problemi di salute, sua madre ha chiamato il preside Nezu per giustificare possibili assenze a inizio anno. Assurdo, prima d'ora non ha mai saltato una sola lezione> era delusa di se stessa nel comunicare quelle poche informazioni e a questo punto era palese che si stesse parlando del loro insostituibile "capo banda". Di nuovo, l'immagine di una scompigliata massa di capelli biondi invase la mente di Izuku e per quanto provasse a contrastare la cosa, l'associazione immagine-nome fu inevitabile.
Il ragazzo dalle mille convocazioni dal preside, il biondo che disseminava fantasmi di racconti in giro per la scuola, suo persecutore, il fine, enigmatico ed insopportabile Katsuki Bakugou aveva fatto il suo plateale ingresso al di sotto della massa verde di ricci che Izuku tirava in preda al nervosismo. Fumo! Urlò internamente, ecco che tutto va in fumo!
Un paio di colpi di tosse, pochi metri più in basso, provocarono una serie di "Ne parliamo dopo" in tutta la stanza, come se tutti stessero discutendo sottovoce convinti di non essere uditi. Due occhi color del cielo schizzarono al di sopra di Izuku e con pacatezza un sorriso accompagnò il loro cammino su ognuno dei visi dei colpevoli. Impossibile sfuggirgli, ma gli sarebbe potuta andar peggio, avrebbero dovuto già essere fulminati sul posto se si fosse trattato del professor Aizawa.
<Ragazzi, se il corso di antropologia culturale non vi interessa potrete discutere di ciò che più vi aggrada in corridoio>.
Silenzio.
Quell'uomo era una delle persone più disponibili, gentili e accomodanti che si potesse trovare all'interno dell'accademia, ma quando si trattava di lezioni e, meglio specificare, delle sue ore di lezione, bisognava trattare l'argomento con le pinze. Diveniva estremamente suscettibile, ma in modo talmente affilato da incutere timore fin nelle ossa dei suoi preziosi studenti.
Non essere interessati al suo corso? Figuriamoci! Chiunque avrebbe venduto l'anima per anche solo respirare la sua stessa aria.
<Ci scusi, non si ripeterà> come al solito il sorriso di Eijiro poteva risolvere tutto. Il professor Toshinori fece un cenno con la testa e riprese a spiegare con entusiasmo e chiarezza, come se non avesse fatto gelare a nessuno il sangue nelle vene.
Izuku gongolò per qualche secondo del rispetto che riceveva da gran parte dei docenti. Non aveva mai avuto da ridire con nessuno, benché meno era stato mai ripreso per il suo comportamento. Lui che, con animo gentile, elargiva appunti a chi non riusciva a stare al passo con il programma e si sforzava oltremisura per inglobare libri interi con la bocca dell'intelletto, non poteva esser altro che l'alunno più indisturbato del secondo anno. Se da una parte questo suo aspetto gli aveva garantito la benevolenza del signor Toshinori, come di molti altri, e dei suoi amici che in poco tempo lo avevano preso a mo' di enciclopedia portatile, sempre con rispetto, per i ripassi pre-esame, dall'altro gli aveva conferito il titolo di raccomandato ed in fondo chi poteva smentire una tale voce?
Sebbene non fossero in molti a soprannominarlo così, chiunque all'accademia di belle arti sapeva che il suo ingresso era stato favorito non solo dal suo impegno personale, ma soprattutto dalle cospicue donazioni che il padre elargiva all'istituto e che aveva coronato con un esorbitante assegno nel proprio testamento. Esatto, i soldi erano ciò che gli avevano conferito notorietà, di certo non il fatto che uno dei più noti storici d'arte avesse dedicato talmente tanto la vita al suo lavoro da poter disperdere un po' della sua sete di conoscenza non solo nella città che aveva dato i natali alla sua carriera, ma in tutto il mondo. Hisashi Midoriya aveva rifiutato ogni cattedra che gli era stata offerta, aveva preferito dedicarsi all'organizzazione di mostre per i più grandi artisti contemporanei e solo dopo decine di anni di continua ricerca e assiduo impegno, collaborazioni con musei e gallerie d'arte, provato da numerosi viaggi in giro per il mondo, era riuscito a metter da parte una più che cospicua somma di denaro per la sua famiglia e per la sua amata scuola.
Perciò era naturale, ovvio che suo figlio, il benestante Izuku Midoriya, conquistasse il suo posto nel corso del professor Toshinori senza alcuno sforzo. Izuku ed il suo importante cognome, Izuku e la sua assurda eredità, Izuku e la sua immagine distorta che tutti vedevano. Lui era il figlio della fortuna, il ragazzo con la strada spianata e magari con tanto di tappeto rosso su cui posare i piedi, il ragazzo che studiava anche se, come dicevano tutti, non doveva dimostrare nulla. Lui era il finto indaffarato, il finto fragile, il finto scorbutico quando si innervosiva, il finto riservato poiché di lui si sapeva tutto. Lui era il raccomandato, la statua da portare sul palmo della mano, non c'era altro da indagare. Lui non era, agli occhi di nessuno, persino di quei suoi intimi amici che aveva avuto la fortuna di ritrovare nei suoi stessi corsi, il ragazzo che era stato sì favorito dal padre, ma che al contempo era stato abbandonato dal padre. Chiunque pensasse a Hisashi Midoriya pensava alla sua carriera e a come il figlio potesse sguazzare nei soldi che gli aveva lasciato. Chi avrebbe mai potuto vedere il viso sconfortato di Izuku dietro alla figura paterna? Forse solo chi ne aveva visto la nascita, forse la madre, Inko, che fin dall'infanzia aveva mostrato al riccio quanto potesse essere pericoloso il mondo con le infinite doppie facce delle persone che lo abitano.
"Ci saranno persone che ti vorranno bene come me, altre che proveranno ad approfittarsi di te. Ma non aver paura di mettere piede in quella scuola, sei come tuo padre e come lui saprai orientarti". Erano sempre cordiali le parole di quella donna, fin troppo di buon auspicio per un'animo realista come quello di Izuku. Sapeva bene cosa aspettarsi quando lasciò casa per inseguire gli studi che fin da piccino lo avevano affascinato.
Non per l'emblematica figura di Hisashi, per pura curiosità e vocazione aveva intrapreso una via già percorsa per trovare nuove opportunità, sbocchi che potessero farlo arrivare più in là di chiunque altro. E non si trattava di una qualche vanagloriosa corsa al podio, piuttosto era il sogno di un bambino che, accoccolato sul divano di casa, ascoltava le lunghe relazioni del padre e rideva di quando quest'ultimo saltava una riga e perdeva il filo del discorso.
Suo padre era stata una semplice ispirazione, null'altro, ed era un vero peccato che le persone, con lui, non andassero mai oltre le apparenze.
Per quanto Iida, il rigido supervisore della classe, Uraraka, la timida ragazza della porta accanto, Momo, la saccente e umile portavoce del consiglio studentesco, e persino lo schivo Todoroki e molti altri avessero imparato a vederlo in po' più per come fosse realmente, quando lo guardavano mancava sempre qualcosa nei loro occhi. Mancava la voglia di andare più a fondo, la freccia capace di aprire una breccia nella sua testa dura e di esplorare quel tanto di più che sarebbe bastato a far crepare anni di intonaco mal steso sulle sue crepe.
C'era mai stato qualcuno con quella poca buona volontà da avventurarsi in lui a quel modo? Forse sì, forse no...quella mattina d'ottobre, dopo tutto, non c'era proprio nessuno in quella classe che lo potesse leggere come avrebbe desiderato.
E nonostante il vacillante legame che ancora stringeva con la sua adolescenza sentiva di aver molto altro da mostrare e da poter condividere con chi avesse fatto un passo in più verso di lui. Non era solo il raccomandato, poteva essere il nulla inesplorato dietro il cognome che portava, un ignoto non adatto a tutti, ma privo di insidie per chi vi si fosse avventurato con buone intenzioni.
Eppure "raccomandato" non bastava a lui, quel disastroso, antico conoscente aveva deciso di dargli un secondo soprannome, più intimo. Solo per Katsuki poteva essere l'inutile mostro che tanto si dimena per esser compreso e tanto vien respinto, solo ai suoi occhi poteva diventare l'odioso Deku capace solo di pungere e venir punto. Aghi, Izuku era solo un cumulo di aghi per quello che era stato il suo amico d'infanzia.
Rose e spine, lo aveva sempre maneggiato con i guanti e con le movenze di chi non sa trattare con le piante e, specialmente, non con fiori talmente delicati e taglienti. Gli uomini sono fatti così: feriscono se feriti. E nell'arco di una misera mezz'ora Izuku, Deku, il raccomandato, ogni sua faccia si era sentita graffiata dal peso che quel nuovo anno accademico avrebbe sicuramente portato. Avrebbe graffiato a sua volta? Non lo sapeva, in verità aveva paura di conoscere la risposta.
Ecco che si nascondeva a se stesso e si rifugiava fra le proprie braccia incrociate. Il legno era duro sotto ai gomiti, scomodo oltremisura e freddo contro la sua guancia ormai arrossata. Aveva il brutto vizio di sfregarsi il viso se a disagio ed il breve dialogo che aveva ascoltato lo aveva gettato in uno stato di fastidiosa ansia che gli faceva pizzicare le mani. Perché tanta agitazione? La ragione l'aveva archiviata in uno scaffale alto, altissimo, e non voleva tentare nemmeno di avvicinarsi per provare a tirar giù la scatola in cui aveva rinchiuso tutto. Ma il mobile traballava, lo sentiva instabile da settimane e conviveva con il perenne terrore che un solo alito di vento lo potesse fare crollare.
<Izuku!> scattò sull'attenti e, se non fosse stato seduto, avrebbe fatto un salto di almeno due metri.
Avvertì un peso sulla spalla e sollevando la testa notò il sottile braccio di Uraraka allontanarsi da lui. Due colpetti ed era scattato facendo preoccupare la castana che, con due tondi color del miele, lo fissava preoccupata. Le labbra le si contraevano come a voler chiedere qualcosa ed il ragazzo, ancora con il batticuore, ricambiava il suo sguardo attonito. Infine la ragazza deglutì e con la saliva mandò giù le parole che stavano ormai sulla punta della lingua.
<Scusa, credevo dormissi. Dobbiamo cambiare aula e per strada ci fermiamo per un "caffè" alle macchinette. Ti unisci a noi?> calcare il tono sulla parola caffè era d'obbligo in quella scuola, dopo tutto si trattava di acqua sporca e due cucchiai di zucchero mischiati assieme. Definirlo caffè richiedeva una buona dose d'immaginazione.
Con il sorriso di chi è compiaciuto per una buona azione se ne stava lì ad aspettare una reazione da parte del riccio e lui si tratteneva dal risponderle bruscamente più di quanto non desse a vedere. Ma in fondo cosa ne poteva lei? Lo vedeva come un elemento instabile, una foglia da raccogliere e portar via elle grinfie del vento, era nella sua indole l'abitudine di osservare il mondo attraverso le lenti del cuore, addolcendo quel che la circondava fino alla nausea. Sospettava che sotto sotto quello non fosse altro che un meccanismo di difesa davvero insulso. Sua la vita, sue le scelte, Izuku non doveva metter becco in certe faccende. Eppure sentirsi soddisfatti per averlo invitato ad unirsi al suo gruppo era qualcosa che proprio gli dava i nervi, che lasciava trasparire un'ipocrisia di fondo che nemmeno la ragazza sapeva di avere.
Scosse piano la testa.
<No, grazie. Devo passare in segreteria e approfitto di questa pausa per andarci> riuscì persino a regalarle un sorriso che a fatica fece scomparire, da finto che era i muscoli si erano tirati ed irrigiditi a tal punto da fargli credere che sarebbe rimasto con quell'espressione da ebete a vita. Lei non disse altro se non un "Ok, allora ci vediamo in classe" e si voltò.
L'ultimo studente frettoloso, Sero, scomparì con la sua chioma nera dietro lo stipite della porta poco dopo e solo nel silenzio Izuku si alzò facendo scricchiolare la seduta su cui stava e afferrò la tracolla svogliatamente, facendola strisciare fino al bordo, da cui cadde e in un attimo andò a pesare sulla sua povera spalla, impreparata al peso improvviso.
Il professore era già uscito, chissà da quanti minuti, e quasi rimpianse di non aver alzato la testa anche solo per un cenno, per fargli capire che non era sonnolenza la sua, ma semplice riposo che poteva trovare solamente nel chiudere le palpebre e dedicarsi completamente all'ascolto delle sue lezioni. Ma d'altronde, si trovò a considerare, il professore sapeva già.
Se si fosse venuto a sapere della loro conoscenza, precedente all'iscrizione all'accademia, l'avrebbero persino accusato di favoritismo. Toshinori Yagi era stato in contatto con suo padre in una fitta correlazione, infinite erano le conversazioni che i due intrattenevano a distanza per confrontarsi, chiedere consiglio, di tanto in tanto per raccontare delle proprie vite. Non era mancata l'occasione che Isashi non si perdesse a raccontare della spiccata passione per il disegno che il figlio stava maturando e di come avrebbe voluto che studiasse all'Université de Genève.
Ginevra, la metropoli del mondo, un concentrato di sviluppo e di antico che agli occhi di un bambino era parsa come il paradiso in Terra. A partire dalla Cattedrale di San Pietro fino al Museo Patek Philippe, da la Maison Travel alla piazza Borg-de-Four, ogni angolo di quella città era un connubio di storia e profumo di torta alla cannella, uno dei suoi dolci preferiti.
Ma tornando a suo padre ed il professor Yagi, beh, si poteva dire che fossero uomini d'altri tempi e lui ne aveva certamente ereditato il carattere. Con la globalizzazione e le nuove tecnologie avrebbero potuto usare metodi molto più efficaci, ma cosa poteva sostituire l'odore della carta, la sensazione della penna fra le dita e le cancellature odorose d'inchiostro? Loro scrivevano lettere, centinaia di lettere in anni di carriera che viaggiavano da un capo all'altro del mondo, sempre con indirizzi differenti e racconti, avventure messe nero su bianco per il loro destinatario. Che melodia producevano le buste che suo padre apriva? Non se lo ricordava più, ma aveva fissa in mente l'immagine delle sue mani intente ad estrarre con cura il foglio e a distenderne le pieghe. A volte anche sua madre partecipava alla lettura, interessata a qualunque nuova bizzarria vi fosse scritta.
Il bello, però, stava nel come Isashi non riuscisse a nascondere la propria contentezza nel parlare di Izuku. Era un bambino di appena sei anni quando notò per la prima volta il come l'uomo dalla rasatura mal fatta che chiamava papà, verso tarda sera, si sedeva alla scrivania chino e pensoso. Iniziava subito a muovere la punta della penna sulla carta, inseguendo parola dopo parola e ad un certo punto, chissà a quale riga della storia, parlava del figlio. Izuku lo capiva, lo vedeva nello sguardo fugace e sorridente che gli dedicava in quei pochi secondi di pausa che si prendeva prima di tornare alla sua lunga stesura. Ne aveva di cose da raccontare, fin troppe, ed il riccio aveva maturato una nostalgia insapore per la vita che Isashi aveva consumato prima del previsto. Rammentava poche cose del padre e per lo più riguardavano tutte lettere, mostre d'arte e veloci saluti prima di una nuova partenza. Tuttavia era certo, fra le numerose incertezze che aveva riguardo alla propria infanzia, che per scrivere della sua felicità tornasse a casa, che tornasse da Inko e da lui. Quando la notizia della morte di Isashi iniziò a spargersi l'ultima sua lettera doveva ancora essere spedita e sua madre, donna premurosa, si era recata dal signor Yagi di persona per consegnarla. Lui l'aveva accompagnata, manina stretta al soprabito della madre e confusione sul piccolo volto già cosparso di lentiggini. Funerale e cerimonia c'erano già state, non erano mancati i pianti e quella era l'ultima cosa da fare per l'uomo che aveva amato. Conobbe o, per meglio dire, vide di persona per la prima volta l'amico del padre di cui tanto aveva sentito parlare e che all'epoca gli sembrò una delle persone più comprensive che potesse incontrare. Aveva un retrogusto di casa, sapeva di lettere consumate e di vecchie novità, proprio come suo padre. Da allora i suoi stanchi tratti ed i suoi scaffali straripanti di libri erano divenuti il suo legame con il passato. Toshinori gli raccontava del padre, lui ascoltava e sorseggiava tisane nel suo salotto mentre attendeva che la madre lo venisse a prendere dopo il lavoro.
Mentre camminava giù per la terza rampa di scale un moto di tristezza lo attraversò tutto, fino alla punta dei capelli. Pensare a certe cose solitamente, dopo un'iniziale malinconia, lo metteva di buon umore, ma quel giorno era iniziato talmente male da render vano qualunque tentativo di rallegrare il suo viso. Le odiava, le giornate prive di gusto, le odiava e non poteva fare a meno di esternare il suo disappunto. Non era successo niente e niente sarebbe stata la parola chiave per le restanti ore che avrebbe trascorso in quell'edificio, ne era convinto.
Cosa mai si aspettava dal rientro dalle vacanze? Un caloroso bentornato era il più roseo dei miraggi e a dirla tutta a malapena sperava di riuscire a prendere posto il più lontano possibile dal gruppo che, ovviamente, si era ritrovato alle spalle.
Arrivare in anticipo era stato un fuori programma che per poco gli aveva dato il coraggio di fiondarsi in aula per scoprire di aver affrettato i propri passi senza motivo. Credeva di poter trovare qualcuno che, dopo tutto, non aveva ragione alcuna per starlo ad attendere.
Quei setosi ciuffi dorati non lo avrebbero mai aspettato, non dopo il penoso addio che gli avevano rivolto alla fine di luglio.
Un sospiro, non si concesse di più mentre procedeva spedito verso il fondo del corridoio dell'ala est, al piano terra.
Dalle finestre penetrava la luce fredda dell'autunno ed i colori della natura secca si intravedevano fra un vetro e l'altro. I giardini antecedenti l'ingresso dell'accademia erano sempre ordinati, ma alla caduta delle prime foglie assumevano quell'aria lievemente caotica che al riccio piaceva da matti. Era come la rottura della stagione estiva, quando smetteva di bere latte freddo a colazione e riprendeva a gustare il suo amato tè nero, con quella punta di miele a cui non sapeva rinunciare. Nuovo mese, nuovo inizio, che bel pensiero, ma insufficiente per migliorargli la mattinata.
Già, il professore sapeva che avrebbe voluto salutarlo, ma non era dell'umore per farlo.
Fece la sua comparsa davanti al bancone della segreteria con un cipiglio indecifrabile e lì ad attenderlo c'era Nemuri con il suo fare ammiccante ed una spiccata vivacità nel verdersi avvicinare il primo studente della giornata.
<Midoriya, dimmi tutto>.
<Professoressa, oggi niente lezione?>
<Sostituisco Taishiro solo per la pausa pranzo che, detto fra noi - incominciò a bisbigliare sporgendosi verso il riccio- a me pare fin troppo anticipata> ecco, questo gli rubò un sorriso, uno solo.
<Devo ritirare la richiesta per l'iscrizione al corso di arti figurative del secondo anno> e con un "dammi un secondo" la testa corvina e gli occhiali rossi di Nemuri sparirono dietro l'angolo lasciandolo in attesa per chissà quanti minuti. Quella donna con il naso all'insù non aveva per niente l'aria di una che si sa orientare fra le pile di documenti presenti negli archivi, né fra gli scaffali fra cui sicuramente stava ravanando alla ricerca dei fogli che le aveva chiesto.
Sarebbe arrivato in ritardo alla lezione, ma la cosa non gli dispiaceva, dopo tutto era solo il primo giorno, poteva permetterselo.
Ci vollero una decina di minuti e svariate occhiate in giro per l'ambiente prima che riuscisse a togliersi il vizio di dondolare sui piedi e si appoggiasse stancamente contro la parete. La pila di cartelle sulla scrivania della segreteria, davanti al computer, lo attiravano come un magnete. Guardava oltre le vetrate, scorreva sul pavimento, ma alla fine tornava sempre su quell'angolo di mobile e la montagna traballante di carta che vi era posata sopra. Sulla cima di riusciva appena a leggere la scritta "Iscrizioni, II anno" e non si trattenne dall'alzare gli occhi al cielo per la disattenzione della professoressa. Insegnava scultura, in maniera sublime oltretutto, ma era una persona estremamente distratta e nel suo laboratorio erano gli studenti a dover riordinare il casino che riusciva a fare in poche ore di lezione. Perdeva continuamente utensili che venivano ritrovati in giro per la scuola; in un certo senso frequentare il suo corso era come partecipare ad una caccia al tesoro visto che era solita portare alle classi che recuperavano gli oggetti smarriti qualche manicaretto di sua produzione, questo una volta al mese.
Il pensiero di Izuku tornò alla catasta di schede e, lampante, un quesito emerse dal mare di pensieri che si portava appresso: ci sarà anche la sua?
Subito gli parve di poter vedere le proprie orecchie disperdere il proprio fastidio in vapore grigiastro, fastidio per essersi concesso di tornare con la mente alla sua nemesi.
Ne fu comunque certo, nonostante la riluttanza nel dovervi riflettere qualche secondo di troppo: Katsuki sarebbe stato nel suo stesso corso. Non avrebbe rinunciato alla sua innata bravura per fargli il piacere di lasciarlo in pace, questa era una sicurezza per il riccio.
<Oh, eccola qua!> Nemuri le aveva trovate, poteva sentirsi sollevato.
Prese il foglio che gli stava porgendo e ringraziò prima di voltarsi.
Per quanto l'allegra esclamazione della professoressa l'avesse riportato con i piedi per terra, non poté evitare, nel tragitto fino all'aula di inglese, di esser trascinato indietro nel tempo, nello stesso corridoio che stava percorrendo.
Pochi mesi erano trascorsi e le immagini che credeva sbiadite erano più nitide che mai, portavano ancora il profumo del primo temporale estivo dell'ultimo giorno d'esami. Il clima era stato aspro per l'intera settimana e al sopraggiungere del venerdì era ormai chiaro che entro sera l'aria umida e calda sarebbe diventata fredda e come minimo vi sarebbe stata una buona mezz'ora di tempesta a far da contorno all'accademia.
Fuori pioveva e all'interno pure, nessuno lo avrebbe notato, ma per Izuku quell'austero corridoio stava per esser riempito fino all'orlo da una pioggia che solo lui avrebbe potuto vedere.
Camminava, esattamente come stava facendo in quel momento, e con un'apprensione pressoché palpabile respirava e sopportava il groviglio che si portava nello stomaco. Davanti a lui il tempo si era ormai fermato.
Fissava delle spalle rigide muoversi nel rumore di sedie che echeggiava assieme al soffuso vociferare delle persone nell'intera scuola e di punto in bianco le gambe che reggevano loro e il sottilmente delineato busto su cui erano posizionate, fasciato da una camicia mezza sbottonata, si erano bloccate.
Izuku ricordava bene il come si fosse pietrificato all'istante e avesse percorso ogni centimetro della persona che gli stava portando via il fiato dai polmoni. Non gli era mai parsa tanto terrorizzante come allora. Le sue scarpe Oxford color cuoio si erano ancorate alla scacchiera su cui procedevano speditamente fino a pochi secondi prima, i pantaloni a sigaretta salivano lungo la figura conferendo al grumo di incertezze che aveva davanti un aspetto a dir poco serioso. Katsuki Bakugou, il ragazzo di cui tutti parlavano, ma non sapevano, quel venerdì aveva deciso di prestare ascolto ad una voce che più volte aveva disprezzato negli anni di crescita che avevano condiviso.
Izuku si era sentito rincuorato, non sorpreso, sapeva che il momento per parlare sarebbe arrivato e la conclusione del primo anno universitario sembrava essere l'occasione perfetta. Qualsiasi cosa fosse successa l'estate avrebbe spazzato via la maggior parte dei rimpianti, sperava in questo. Si strofinò i palmi sui fianchi in un abbraccio di incoraggiamento e percorse un paio di metri per sentirsi più vicino, ma distante abbastanza per poter fuggire.
Buffo, si disse guardando le nuvole muoversi in cielo come un enorme massa scura, alla soglia dei vent'anni lui ed il biondo erano diventati davvero simili, più di quanto lo fossero stati, brevemente, da piccoli. Entrambi portavano la camicia bianca con le maniche arrotolate, entrambi lasciavano sfilati i primi bottoni, entrambi avevano un atteggiamento schivo e premuroso con pochi, ma ovviamente questo onore non era riservato a nessuno dei due. La gentilezza non era cosa da loro, loro non ne avevano mai avuta nei confronti l'uno dall'altro. Solo tacito disprezzo e amari sentimenti, il loro legame si era ormai ridotto a questo ed Izuku si era interrogato per troppo tempo sul come ed il perché sembrasse solo lui ad esserne dispiaciuto. Talmente simili e talmente distanti. Erano diventati due sconosciuti ed Izuku continuava ad inseguire l'ombra di Katsuki in giro per le strade di Ginevra. Quando lo vedeva all'accademia riusciva quasi a sfiorarla, ma al contempo sentiva che a separarli stava uno sconfinato precipizio. Com'erano finiti in quella situazione? Certe amicizie spariscono inghiottite dalla crescita prima che le persone se ne possano render conto e per loro non era stata fatta eccezione.
<Mi devi dire qualcosa. Su, fallo> era sempre stato perspicace verso gli altri, ma mai con se stesso, almeno sapeva ancora questo di lui. Perciò ad Izuku restava il dubbio a cui aggrapparsi. Potrebbe non capire, potrebbe fraintendere, potrebbe capire e fraintendere i propri pensieri. La voce di Katsuki non era liscia, era raschiata e si era ormai acquietata in un tono a metà fra il profondo e quella solita tonalità che molti dei loro compagni presentavano. Nel corridoio correva come un sussurro fino ad Izuku.
<Mi hai sentito, Deku?> si era voltato per chiamarlo. Non lo faceva da settimane, ma il riccio non si era disabituato agli anni di derisione a cui lo aveva condannato ed in quel momento ogni possibile risentimento stava scomparendo, arretrando di fronte ai battiti che facevano tremare ogni sua cellula.
"Toc!", il secondo della mattina, Izuku inciampò sia nei propri ricordi che nel presente. Le stringhe erano troppo lunghe, sapeva che avrebbe fatto un passo falso prima o poi. Un paio di saltelli e si rimise in equilibrio. Il corridoio era deserto, eppure li vedeva, quei rubini incastonati fra pelle esangue e luminosa, sovrastati da spighe di grano appartenenti ad un campo incolto. Non era andato avanti, si disse sconfortato, il suo cuore era rimasto al venerdì di fine sessione dell'anno precedente e da lì non si era più mosso. Quell'unica frase, pronunciata sopra lo scrosciare dell'acqua nelle grondaie, gli si era depositata sulle labbra in un gelido tocco.
<Credo di amarti>.
Come affermava Goethe, i colori non sono altro che il prodotto dell'incontro fra luce ed oscurità e nel prato d'erba che la sua dichiarazione aveva mostrato, sentiva allungarsi l'ombra di un tramonto a lungo ritardato. Katsuki stava per portare la notte nel suo verde incontaminato. Le sue iridi si muovevano come frenetiche pennellate su di una tela, ma il suo animo sedeva quieto in attesa di una risposta. Colori come somma di chiaro e di scuro, che curiosa formulazione di pensiero. Abbatteva ogni confine, così che l'occhio potesse cogliere in uno sguardo un colore ed il suo opposto, un colore ed il suo complementare. Verde e rosso, un abisso nel mezzo.Allo stesso modo aveva fatto Turner, così ricordava, nelle sue opere. Il colore definiva il sentimento delle sue creazioni, così come tonalità calde e fredde di scontravano ricercando l'una nell'altra le proprie mancanze.
Joseph Mallord William Turner, Der Genfer See von Montreux aus gesehen
(Lake of Geneva from Montreux), 1810. Olio su tela.-Spazio autrice-
Buonsalve a chiunque stia leggendo, sia ai lettori ritrovati che a quelli nuovi! Sono felice di presentarvi questa nuova FF, spero che abbiate la pazienza di attendere gli aggiornamenti e, soprattutto, che la storia sia di vostro gradimento.
Come preannunciato nella descrizione e come vi sarà sicuramente capitato di notare, quest'avventura avrà luogo in un posto totalmente diverso dalla UA, da Tokyo e dal mondo che abbiamo conosciuto tramite l'anime o il manga di BNHA. Che ne pensate?
E riguardo ad Izuku? Credete che sia conforme quanto basta al broccolo che tutti noi conosciamo? In fondo quel timido sorriso ha un lato nascosto ed intrigante, non lo pensate anche voi?Con queste domande vi lascio, al prossimo capitolo 🖤
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La Petite mort -Dekubaku-
FanficLa carta brucia velocemente, un po' come gli uomini, un po' come i loro pensieri. Non tutto può essere conservato, non si è abbastanza capienti per essere tanto ingordi ed in fondo le persone si fabbricano ad un prezzo così basso che non si può pret...