Alla versione socialmente accettabile dell’uomo che sono è sempre piaciuto il vino, con quel suo gusto deciso, corposo, imperativo. Quello fruttato poi mi suona tra le labbra come una canzone popolare, specie quando il sottobosco si scatena e tramortisce le papille gustative con le sue note selvatiche, rasentando la libidine. Ma ciò che mi manda davvero in estasi di alcune bottiglie è la sorprendente compresenza di sentori antitetici, tipo cannella e vaniglia, sfumature balsamiche e persistenze speziate, fiori dalla natura crepuscolare e frutti di bosco. Quando meno te lo aspetti ti ritrovi a stappare un micromondo di ossimori tutti lì per te, pronti a solleticarti il palato. Sono forti, gli opposti, danno carattere a ciò che compongono.
Comunque, pure se non mi piacesse, tocca all’ospite scegliere la bottiglia. Ecco perché stasera ho pensato di passare in enoteca, prima di andare da Livia. Stiamo insieme da 11 anni eppure mi sento ancora in dovere di portare qualcosa quando mi invita a cena. “Dai che ti cucino il caciucco alla livornese” Mi ha scritto oggi, prendendomi per la gola. Saranno state le 11.30. Così come capitò al cane di Pavlov, anche le mie papille gustative hanno improvvisato una ola inaspettata, stimolando da subito una intensa salivazione. Se fossi nato in Asia avrei di certo sputato lì dove mi trovavo, ma in Europa uno se la tiene e la manda giù, la saliva, assieme ai rospi. Questione di bon ton.
L’enoteca dista poco da casa mia, ma ho preso comunque l’auto. Il locale è raccolto e confina da un lato con una lavanderia a gettoni, dall’altro con una palazzina mezza fatiscente degna di un set d’azione di fine anni ’80. Prima di entrare indugio alcuni secondi sulla soglia, esplorando quella terra di mezzo alla ricerca di Jean Claude Van Damme, Jackie Chan o Steven Seagal, insomma, di qualcuno in grado di darle di santa ragione senza bisogno di incassarne troppe. Invece passano solamente un anziano con un barboncino un po’ spelacchiato e due ragazzette fumate che si scattano selfie a mitraglia senza nemmeno guardare dove mettono i piedi. Non si sa per quale miracolo, nessuna delle due inforca alcun palo della luce, perlomeno non sotto la mia distratta supervisione.
Finalmente violo la porta d’ingresso e ad accogliermi è un impero di luci e tinte inaspettato. “Buonasera.” Mi saluta il titolare, sollevando la mano come gli indiani d’America.
Rispondo con un leggero cenno della testa e proseguo dritto, ripassando le 16 diverse tipologie di pesce che insaporiscono il caciucco alla livornese. Sento la necessità impellente di chiudere gli occhi per evocarne a pieno i singoli sapori, così lo faccio. Mi paralizzo di fronte alla corsia dei rossi da tavola e serro le palpebre come un bambino in attesa di Babbo Natale, la notte della vigilia. Ci sono i crostacei, sapidi e sabbiosi, poi i molluschi, densamente popolati di retrogusti voluttuosi, le seppie, raffinate e rotonde, la coda di rospo, evanescente e delicata, lo scorfano, dai toni robusti e compatti, il palombo, tenero e soave. E poi le cicale, i polpi, gli scampi, i gamberoni (uno a testa, senza esagerare). Che sinfonia di mare. Occorre un direttore d’orchestra degno di questo nome.
Spalanco le palpebre senza che l’impressione della meraviglia che mi aspetta abbia ancora abbandonato la mia immaginazione. È pazzesco come i sensi riescano a interlacciarsi con la fantasia in maniera tanto spontanea: un connubio che rasenta la compenetrazione.
Una volta svanita l’ultima nota di quel caciucco immaginario, inizio la mia carrellata tra le numerose alternative. Potrei optare per un Nebbiolo d’Alba, gioiello rubino che sa un po’ di lampone, un po’ di cannella e un altro po’ di vaniglia. Accanto a lui si propone poi un erboso Merlot, esplosiva commistione di aghi di pino, ribes, more, origano e peperone verde. Subito di fianco scopro un altrettanto boschivo Brunello di Montalcino, mareggiata di gusto granata che suggerisce all’olfatto più sensibile sentori di spezie, caffè, cacao, tabacco, geranio, rosa e ciliegia.
“Ha bisogno d’aiuto?” Mi domanda a quel punto il titolare, sorridendo disponibile. Ha uno sguardo verde prato che mi trapassa le carni per puntare dritto al cuore, come le pistole dei vecchi film western di Sergio Leone. In un altro contesto, forse, saremmo perfino potuti diventare amici, viste le premesse. Ma questa non è una sera qualsiasi e io non sono un tizio qualsiasi, mi aspetta il caciucco alla livornese e una serie di spiegazioni che non so se sarò in grado di dare.
Ho deciso di parlare a Livia prima che venga a scoprire tutto da qualcun altro, qualcuno di infinitamente meno delicato e protettivo di me. E con tutto intendo proprio tutto tutto.
“No grazie, faccio volentieri un giretto esplorativo per conto mio.” Rispondo perciò, passando al prossimo candidato.
Sto per analizzare i pro e i contro di un intenso Pinot Nero dell’Alto Adige quando realizzo di non dover scovare alcuna risposta: è stata lei a trovarmi. Come chiamato da un canto di sirena, mi volto e scopro aver desiderato sin dal principio un Chianti dell’antica cantina Antinori.
Mi assale subito una specie di malinconia allo stato liquido, che mi paralizza a metà tra uno starnuto e una lacrima. Quando ero piccolo mio nonno ci portava in vacanza a Castelnuovo Berardenga, ogni tre mesi, con la scusa di scegliere il vino per la sua osteria. In realtà credo si fosse innamorato dei silenzi vaporosi che colano a picco sul paesaggio immobile al calar del sole, poco prima che il mondo intero si vesta di sonno e inchiostro. O forse a colpirlo era stata la figlia nubile dei viticultori, una donna di mezza età coi lunghi capelli incapricciati dal vento e gli occhi tristi di chi non conosce il mare.
Allungo la mano alla ricerca della bottiglia, sperando che afferrarla spenga improvvisamente il senso di vuoto che accompagna ancora l’assenza di mio nonno.
“Ottima scelta, un Chianti Classico.” Commenta una voce sottile dietro le mie spalle, non potrà avere più di 30 anni.
Mi volto e riconosco un ragazzetto che incrocio ogni tanto al parco quando porto a spasso JFK, il mio Jack Russell. Chissà per chi mi ha preso.
Ultimamente mi faccio chiamare Pepita, ma solo dagli amici notturni. I colleghi, gli impiegati della posta sotto casa, i parenti ficcanaso di mia madre, la mia Livia, i compagni del calcetto: loro mi chiamano Paolo, invece. Da quando sono nato.
Alla gente piace parecchio dare un nome alle cose, la fa sentire al sicuro. Conosciamo solo ciò che sappiamo identificare e dominiamo soltanto quel che conosciamo. Ecco perché il nome ha un valore capitale, per molti: è una forma embrionale di possesso. In inglese esiste persino un termine che identifica questa specie di feticismo, naming. Si usa in marketing per descrivere il processo che porta all’identificazione assoluta di un prodotto, di un servizio o di un brand, e quindi a quella manciata di sillabe che permette al consumatore di dare una dimensione concreta al proprio bisogno: “Cosa prende oggi?” “Tre etti di Grana, grazie.”
Non Parmigiano, né Asiago stagionato o tantomeno pecorino: Grana Padano, marchiato a fuoco e prodotto in una delle trentadue province del nord Italia ancora specializzate in questa storica pratica casearia.
Con il tempo, anch’io ho deciso di fare lo stesso e mi sono parzialmente rinominato. Ma non perché mi ritenga in qualche modo meritevole di un marchio di qualità o di un riconoscimento ufficiale, solo per imparare ad identificare ogni aspetto di me, anche quelli più scomodi e reconditi. Tutti.
I panni di Paolo non mi sono mai stati stretti, anzi, li ho scelti accuratamente perché mi calzassero come guanti da sartoria. Lo stesso vale per quelli di Pepita.
“Grazie, ho sempre amato il vino rosso, è una bevanda decisa.” Rispondo perciò, mantenendomi sul vago. A Pepita non piacciono gli uomini, piace solo vestirsi da donna, di tanto in tanto. Tutto qui. Eppure la prendono per una signora fin troppo spesso, ultimamente.
“Molto decisa. Sta andando a cena con il suo compagno?” Chiede il giovane, avvicinandosi scortesemente al mio viso, un’invasione di campo imprevista.
Indietreggio di un passo, posizionando tra noi sia la pochette che la bottiglia. “Esatto” Mento, senza specificare che il compagno sono io.
“Dopo questa passerete di sicuro una bella serata, garantito.” Risponde indicando il Chianti, senza schiodarsi di un millimetro da dove si trova. Odora di dopobarba dozzinale e un po’ pure di Pino Silvestre, ammesso che sia ancora in commercio. Le maniche della giacca che indossa sono lise e consumate ai bordi, indizio che mi spinge a collocarlo in un quartiere problematico non ancora riqualificato, fuori mano rispetto a dove ci troviamo. Darei un dito del piede per capire cosa vuole.
A salvarmi dall’impaccio ci pensa per fortuna il titolare del locale. “Kevin, vedi di non disturbare la signora e torna a scaricare le casse.” Tuona, imperioso. Poi si volta verso di me e, con dolcezza, indica la bottiglia “Davvero un scelta azzeccata, per una serata romantica.”
Mentre Kevin ciondola finalmente via come un pendolo da salotto mi scopro sul punto di scoppiare a ridere. Di romantico questa serata non avrà un cazzo proprio, anzi, probabilmente mi pentirò di averla organizzata. Avrei potuto starmene a casa e sfilare in corridoio con addosso gli abiti di Pepita, invece di presentare Pepita a Livia. La perderò e sarà stata colpa mia, solo mia. Anzi, sommetto pure lo stipendio che non arriveremo nemmeno ad aprirlo, questo magnifico Chianti: lei mi caccerà prima.
Passo meccanicamente la bottiglia al titolare dallo sguardo verde prato. Beato lui che studia il mondo attraverso quei due smeraldi. Chissà quanto è bello, da quella posizione di vantaggio. “Quarantanove e novanta” Dice, poi io striscio la carta sul POS ed è questione di pochi secondi: da suo, il vino si trasforma in mio. Hai capito che miracolo.
Mi dileguo prima ancora che lui finisca di augurarmi buona serata, cercando di ricordare dove ho parcheggiato. Ogni volta che guida Pepita, Paolo dimentica qualche dettaglio, neanche soffrissi di schizofrenia dissociativa. Un flash di stampo naturale mi suggerisce che accanto allo sportello del guidatore ci sia un parco, così imbocco la stradina per il giardinetto di quartiere.
Appena volto l’angolo un odore intenso di dopobarba dozzinale mi avvolge come una sciarpa, con il chiaro intento di soffocarmi. Kevin, il ragazzino che in teoria doveva finire di scaricare il vino, si para invece tra me e il breve tragitto verso la verità, verso Livia. O comunque verso la fine di un ciclo della mia assurda vita.
“Cosa c’è, non sono abbastanza uomo per interessarti?” Chiede con voce minacciosa, poggiandomi una sgradevole mano sulla spalla. Che badile, potrebbe stendere un pugile professionista con quella cosa.
“No, non oserei mai mettere in discussione la tua virilità.” Rispondo incerto, abbozzando un passo indietro. Ovviamente lui mi arpiona più forte e, per la prima volta da quando sono nato, sono felice che Pepita non esca mai senza Paolo, specie di sera.
“Lo spero bene, perché io sono stra virile. E ho l’impressione che la cosa possa piacerti.” Incalza lui, protendendo come un ramoscello verso il mio profilo, divorato dalla penombra. Il suo fiato è un mix di cipolla e sigaretta che, senza preavviso, mi proietta all’Università, durante le sere delle occupazioni in facoltà. Ricordo ancora lo scalpiccio delle Gazelle che s’incollano al pavimento lercio, mentre ci passiamo le birre da aprire con l’accendino. Provo a tornare indietro da quel trip spazio temporale ma lui sta già per baciarmi, al che gli schianto un tacco dieci giusto al centro del piede e lo faccio volare all’indietro, come in un ralenti cinematografico.
“Non sono una signora, cristo!” Strillo, proprio come Loredana nel lontano 1982. Ma avrei dovuto gridare invece “Stai attento, demente!” visto che sulla scena, proprio da dietro la curva che ho appena lasciato alle spalle, irrompe una Mazda CX-30 rosso vermiglio, diretta esattamente verso di lui. Sgancio la bottiglia di Chianti sul manto stradale lavato di fresco, appena in tempo per afferrare Kevin per un piede, ma si direbbe che l’autista del crossover sia distratto da tutt’altro perché non accenna a rallentare. In una frazione di secondo la silhouette di Kevin il molestatore si spalma disordinatamente sul cofano tirato a lucido dell’auto in corsa, che poi sbanda e si schianta infine contro un palo della luce. Tono su tono, il sangue si noterà appena, pensa Pepita, mentre Paolo si tappa le orecchie.
A nulla è valso il tentativo di scansare il ragazzo, salvo che a levargli uno stivale puzzolente. Nell’urto resta coinvolto anche il Chianti, che riporta due lesioni fatali, una all’altezza del collo e l’altra più in basso, verso il fondo. Il resto dei feriti si colloca a macchia di leopardo lungo il percorso che avrebbe dovuto accompagnare sia Pepita che Paolo alla propria auto: che disastro.
Pochi secondi e una anziana con tanto di bigodini spalanca la finestra preoccupata, portandosi una mano alla bocca in maniera filodrammatica. A quel punto anche gli altri salotti dalla parte opposta della viuzza si decidono ad accendersi, dopo un più che ragionevole tempo di reazione. Solo quando i micromondi del prossimo si spalancano sul mio tipo lucciole impazzite, mi scopro la regina della festa. Contestualmente, io, Paolo e Pepita ci ricomponiamo in un essere unico come la trinità e tiriamo tutti quanti un sospiro di sollievo. Tocca comunque a noi chiamare l’ambulanza, ma ci consola non saperci più soli di fronte a quell’orrore sparso ovunque.
Mentre iniziamo a digitare il numero d’emergenza, realizziamo il paradosso che si è appena generato: invece di raccontare a Livia dell’esistenza di una persona in più, stasera, ci toccherà comunicarle che al mondo ne è rimasta una in meno.
Povero Kevin, pensa all’unisono ogni parte di me, in un lucido coro polifonico finalmente concorde, è passato da carnefice a vittima in meno di tre secondi. Vedi, a volte, la vita.