Capitolo 10.

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Che emozione potevo usare per descrivere quello che stavo provando, a patto che un'emozione che descrivesse tutto alla perfezione esistesse?
Perché era quella la domanda che mi tormentava.
Esisteva un'emozione capace di adattarsi a quello che provavo?
Era peggio di andare sulle montagne russe, sentivo il vuoto che mi riempiva lo stomaco e il mio cuore che vibrava.
L'unica cosa che sapevo era che così, con Alessio tra le braccia e le sue labbra sulle mie, mi sentivo felice.
Forse era quella l'emozione giusta? Pura felicità?
Speravo di avere tempo di capirlo.
Dopo un po' le nostre labbra si staccarono, ma i nostri corpi no: rimanemmo abbracciati su quella panchina finché il sole non sparì del tutto.
Gli unici rumori presenti erano le voci dei passanti, i cinguettii dei pappagalli e il suo respiro regolare.
Dopo un po' si alzò e tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette.
«Vuoi?»
Annuii e ne presi una.
Mentre fumavo mi misi a guardare il cielo, e notai con la coda dell'occhio che Alessio mi guardava.
«Che c'è?» chiesi.
«Mh?»
«Mi stai fissando»
«Sei molto bella» disse quasi in un sussurro, risvegliando le farfalle nel mio stomaco.
Arrossii immediatamente.
«Dovresti mettere gli occhiali» lo presi in giro.
«Dovresti metterli tu, se non sei d'accordo con me»
«Smettila»
Ridacchiò, poi tirò fuori dalla tasca il telefono e iniziò a scrivere velocemente.
Provai a farmi i fatti miei, ma la mia curiosità ebbe la meglio.
«Cosa scrivi?»
«Una strofa» disse sorridendo.
«Mi farai mai leggere quello che scrivi?»
«Forse, un giorno, potrai anche ascoltarlo»
Non riuscii a trattenere un sorriso.
«Quindi ti sei convinto?» dissi contenta.
«Forse sì, forse no. E non per te, quindi non montarti la testa» disse serio, ma la sua espressione divertita comunicò tutt'altro.
«Stronzo»
Sbuffai e guardai il cielo. La Luna era già perfettamente visibile, mentre le prime stelle iniziavano a comparire.
Improvvisamente iniziò ad assalirmi il panico.
Le emozioni che provavo quando ero vicino a lui mi spaventavano. Avrei voluto scappare senza guardarmi indietro.
Non perché non mi interessasse conoscerlo o non mi interessasse stare con lui- al momento era l'unica cosa che mi interessava- ma avevo paura.
Paura di affezionarmi e di essere abbandonata.
Era sempre la stessa storia, ero sempre l'unica ad affezionarmi, l'unica a tenerci.
Avrei tanto voluto lasciarmi andare alle emozioni, ma non potevo. Non potevo soffrire ancora. Non volevo.
Lui non sembrava come gli altri, ma chi lo sembrava? Tutti sembravano diversi all'inizio.
Era questa la domanda che mi tormentava: avrei dovuto fidarmi oppure no?
Mi guardò, e in quegli occhi marroni trovai la sicurezza che non avevo mai trovato da nessun'altra parte.
«A cosa pensi?» mi chiese, probabilmente vedendomi rabbuiata.
Feci un sospiro.
«Non lo so nemmeno io, a cosa penso»
Lui sembro riflettere su qualcosa di confortante da dire, ma probabilmente la mia espressione imbronciata gli fece capire che il discorso era chiuso.
«È tardi, non vuoi andare a casa?»
«Voglio fare tutto, meno che andare a casa. E tu?»
«Voglio fare tutto meno che andare a casa» ripetè, imitandomi.
«Vieni» mi disse scendendo di corsa dalla panchina.
Io mi misi a ridere e lo seguii verso il suo motorino.

Appena Alessio parcheggiò mi si mozzò il fiato, come ogni volta che andavo lì: il nostro Colosseo era illuminato dalle luci, il cielo aveva le ultime sfumature rosa del tramonto ed erano già visibili le stelle. Era tutto bellissimo, ma la cosa più bella era che c'era Alessio accanto a me.
Pensavo di star iniziando a provare davvero qualcosa per lui, e la cosa mi spaventava. Per di più lui non accennava a parlarne, perciò non ne parlai nemmeno io. Pensai solo a godermi il momento.
«È bellissimo» dissi osservando il Colosseo.
«Come te»
Non mi erano mai piaciute queste frasi sdolcinate, mi sembravano frasi fatte e senza significato, ma con Alessio fu tutt'altra cosa.
Era una sensazione strana, che non avevo mai provato, e che mi spaventava provare.
Lo guardai e lui si avvicinò.
Ci fissammo negli occhi mentre mi accarezzava la guancia.
Un soffio di vento mi mandò una ciocca di capelli davanti agli occhi, e lui me la riavviò dietro l'orecchio.
Era una mia abitudine e mi chiesi se lui l'avesse fatto perché lo sapeva, un po' come avevo fatto io quel pomeriggio con i suoi capelli.
Ci sedemmo sul muretto del Colosseo.
«Alessio»
«Sì?»
«Non so come... è una sensazione strana, è come se ti conoscessi da molto più tempo, come se avessi passato interi mesi insieme a te. Non mi era mai successo con nessuno» gli confessai.
Mi sembrò che le parole uscissero da sole perché dopo aver finito di parlare, mi tappai immediatamente la bocca con le mani. Avevo paura di aver detto la cosa sbagliata al momento sbagliato, oppure la cosa sbagliata e basta. Oppure di averlo messo a disagio.
«Scusa, non so perché l'ho detto... è ridicolo» mi scusai, staccandomi da lui.
«Non è affatto ridicolo, è una cosa molto bella da... sentirsi dire» disse, in tono gentile.
Mi prese la mano e iniziò a giocherellare con un bracciale che avevo al polso.
Inizialmente lo lasciai fare, ma poi mi spostai immediatamente, nel panico.
Avevo paura che potesse notare quelle linee bianche che avevo sulla pelle, che ogni ora di ogni giorno mi ricordavano cosa avevo passato. Odiavo quelle cicatrici, erano un prezzo da pagare per quello che avevo fatto a me stessa.
«Ho fatto qualcosa di sbagliato?» chiese.
Tu no, avrei voluto rispondergli.
«No, no. Solo che, ehm... mi è venuta fame» mentii.
«Sicura? Tutto bene?»
Tutto bene? Mica potevo rispondergli di no.
Non mi uscivano le parole, perciò mi limitai ad annuire.
«Okay. Comunque ho fame anch'io. Dove vuoi mangiare?»
«Non so, è uguale»
«Mc?»
«Non mi piace» dissi con una smorfia.
«Non ti piace?! Ma com'è possibile? Piace a tutti»
«Non a me. Non sono come gli altri, dovresti saperlo ormai, Aresu»
Si mise a ridere.
«Lo so bene» sussurrò, e mi sfiorò di nuovo la guancia, facendo tornare le farfalle per l'ennesima volta.
«Andiamo, c'è un mio amico che fa la pizza buonissima»
Sorrisi e lo seguii.

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