Prologo - Decostruirsi

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La brezza di fine estate sfiorava le foglie degli alberi, mentre le ultime luci del giorno, calde e flebili, accarezzavano ogni cosa, colorando quel posto di una leggera tinta salmone. Qui e lì piccoli fiorellini secchi, reduci della calura d'agosto, si lasciavano trascinare fino al suolo, e nessuno si sarebbe mai proiettato in loro se avesse potuto. Nessuno, forse, a parte Simone. Era seduto su una panchina, con la testa china, mentre tra un sospiro e l'altro tracciava i contorni degli alberi sul taccuino che aveva sulle gambe. Era da un'ora che stava cercando di buttare giù qualcosa per scaricare la tensione, ma tutto ciò che la matita partoriva appariva in quale maniera distorto, deforme, instancabilmente manchevole d'equilibrio. Quando il collo iniziò a dolergli, capì che era ora di tornare a casa, poiché non avrebbe sicuramente realizzato nulla e le luci avevano iniziato a salutarlo e a lasciare quel parco da ormai alcuni minuti. Un senso di inquietudine lo colpì improvvisamente. Qualcosa di simile ad un terremoto ma dall'interno, con il corpo che gli tremava e la terra che subiva. Il ragazzo ebbe un tremito, sudò, credette di stare per piangere.
Papà.
Il pensiero di tornare a casa non lo allietava, al contrario lo sconfortava. Tornare a casa per lui significava aprire il portone, accendere le luci, posare le chiavi e sentire il loro tintinnio metallico produrre un'eco nell'appartamento vuoto. Tornare a casa significava ignorare la borsa piena di indumenti del padre, lasciata a fianco al divano e mai svuotata. Significava dover ignorare il libro di filosofia fermo a pagina trentacinque sul tavolino in soggiorno. Significava avere la forza, prima o poi, di disfarla quella borsa. E di riporre quel libro nell'enorme biblioteca del soggiorno. E poi passare davanti a quella stanza vuota che già iniziava a perdere il suo odore.
Dante Balestra aveva cinquantuno anni quando un'emorragia cerebrale mise un punto alla sua esistenza: ai suoi pensieri, alla sua simpatia, ai suoi tormenti.
Dante era un professore di filosofia. E la filosofia non la insegnava solo tra i banchi di scuola, lui la rendeva pelle intorno al suo corpo, la cuciva tra uno strato e l'altro e le persone potevano imparare anche solo guardandolo. Amava conoscere, amava parlare con le persone, sapere cosa pensassero. Quando i suoi bambini erano piccoli, li invogliava a dire sempre ciò che pensavano, a non tirarsi mai indietro dinanzi alle ingiustizie o al dolore. Poi però uno dei due, il più ribelle, era appassito  all'improvviso, da un giorno all'altro, e nell'inaspettatezza del caso il vento se l'era portato via, sotto gli occhi tristi del suo papà e di suo fratello Simone.
Per uno strano rituale al quale nessuno era riuscito ad affibbiare un significato, Dante indossava ogni giorno lo stesso maglione. Simone lo redarguiva, gli diceva di cambiarlo, o almeno di spazzolare via i peli dei gatti che teneva attorno ovunque andasse, ma nulla era capace di convincerlo. I gatti lo circondavano di continuo. Li faceva entrare in casa, si appollaiavano sulle pile di vestiti lasciate a crescere in camera di Simone, si arrampicavano sulla tanto amata libreria senza ricevere alcun rimprovero, camminavano sulla scrivania mentre correggeva i compiti ai suoi alunni. Quanti fogli pieni di macchie di caffè causate da code incaute aveva dovuto riconsegnare ai suoi ragazzi, i quali mai gliene avrebbero fatto una colpa. I suoi studenti lo adoravano, e lui adorava loro. Quando morì, se ne andò via anche un pezzo dei ragazzi.
Accadde una mattina di inizio estate.
Era in aula, faceva un caldo asfissiante, l'ossigeno entrava come fuoco dalle narici e di lì a poco sarebbero giunte le tanto agognate vacanze estive. I ragazzi si trovavano in palestra e lui era intento a correggere i famosi compiti, quando un rumore sordo piombò nella stanza e subito dopo il silenzio. Di Dante Balestra non c'era già più nulla, il respiro l'aveva abbandonato insieme alla vita. Simone fu il primo a trovarlo. Come era sereno suo padre, mentre con la testa appoggiata sul libro sembrava quasi riposare.
Ricordava tutto, il corpo pesante, il tentativo di farlo svegliare, i pianti degli amici che lo afferravano mentre quasi sveniva.
Da quel giorno, tre mesi si erano susseguiti uno di fila all'altro, taciturni e con la testa bassa, pieni di vergogna per ciò che erano stati incapaci di fare. Si dice che il tempo curi ogni ferita, eppure quella di Simone sanguinava come il primo giorno. Ogni notte i sogni si riempievano di ricordi di suo padre, lasciandolo sudato tra le lenzuola. Quel padre che per anni aveva odiato, che dopo la morte di suo fratello l'aveva lasciato solo senza spiegargli nulla. Ora quel padre gli mancava tanto. C'erano tante cose non dette, tante carezze non fatte. Avevano lasciato in sospeso un mucchio di cose da fare, di libri da leggere insieme, di gite al mare da fare in motocicletta come da bambino. I chiarimenti, poi, erano rimasti in un cassetto, insieme con le scuse che non erano mai sopraggiunte, ma che entrambi stavano appena imparando ad accettare.
Intento a mangiare gli avanzi del giorno prima, ragionava su queste cose. Ora lui aveva diciotto anni, era solo e avrebbe dovuto sopravvivere con le sue forze. L'indomani avrebbe iniziato l'Accademia di belle arti, finalmente. Doveva lavorare il doppio degli altri studenti, senz'altro, ma il lavoro era necessario in quel momento, doveva pur sopravvivere di qualcosa. E non poteva lasciare il posto al Fulmine, il pub dove lavorava come barista. Sapeva di poter contare sull'appoggio della nonna, un'anziana donna di mondo che viveva a Parigi, ma che non poteva più spostarsi a causa della sua salute precaria. Nei suoi anni migliori era stata una famosa attrice di teatro e aveva qualcosa in banca, ma non poteva basarsi solo sui suoi risparmi. Così, nonostante la nonna gli avesse mandato una piccola somma, l'aveva immediatamente depositata in banca per le cose importanti, presentandosi una sera calda e densa in questo pub quasi sempre buio, ma pieno zeppo di gente. Il posto non era male, gli piaceva, e aveva conosciuto anche alcune persone interessanti. A lui piaceva osservare gli altri, studiarli. E lavorare in un posto caotico, con migliaia di persone al bancone pronte a ubriacarsi e a rivelare i drammi delle loro esistenze, era un modo non male per guadagnarsi i soldi. Per non parlare di tutti i volti che avrebbe avuto occasione di vedere per poi disegnare a casa, di notte, stanco dal lavoro ma desideroso di rovesciare sulle pagine le immagini incastrate nei suoi pensieri. La musica era sempre di suo gradimento e ogni tanto finiva il turno incontrando qualche ragazzo con cui passare la notte insieme, per poi dimenticare il suo volto al risveglio, con il braccio ad accarezzare il posto vuoto e ancora caldo dove qualche ora prima era stato uno sconosciuto. Uno sconosciuto con cui condividere almeno un frammento di vita, ora che si trovava completamente solo. Con nessun amico e familiare, nessun ragazzo di cui innamorarsi. Ma con tanti, troppi gatti lasciati in eredità da quel suo strambo padre, che tra una fusa e l'altra gli facevano sentire la sua presenza. E quando scendeva la notte, e i peli intorno ai suoi abiti lo vestivano di un altro strato chiaro e morbido, quando i gatti lo guardavano negli occhi con quella strana luce di mistero, quasi sembrava di sentire la sua risata dalla stanza accanto.
Per Simone era tempo di decostruzioni, questo era ben chiaro. La dinamite era pronta, lo stabile stava per esplodere a comando. Sperava, però, di non finire cancellato sotto il peso dei detriti.

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