QUARANTASEI

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Ne abbiamo trovato un altro.

Abel non rispose al messaggio appena ricevuto. Oscurò lo schermo del cellulare, mentre le mani tradivano la sua tensione con un leggero tremore.

Un altro.

Ciò significava che erano già arrivati a due.
Due in tre mesi.
Sembravano tanti, ma il tempo stava scorrendo troppo velocemente.
Era quasi certo che quella storia gli avrebbe portato via un'altra buona parte della propria vita.

Scosse la testa e si passò una mano tra i capelli, traendo un profondo respiro. Espirò con estrema lentezza, tentando di calmarsi e ripose il cellulare tra i propri effetti personali.

Un altro.

Un altro assassino.

Uno in meno.

Quanti ne restavano?

Quanti uomini e donne erano stati coinvolti da Krause in quella storia?

Davvero esistevano al mondo persone così orribili, marce e ripugnanti, in grado di uccidere qualcuno soltanto per colpire indirettamente qualcun altro?

Si morse un labbro e percepì gli occhi riempirsi di lacrime.
Un telecomando, un dannato telecomando che gli concedesse la possibilità di andare avanti nel tempo, alla fine di tutto quello. Doveva aver visto un film, una volta, dove il protagonista possedeva qualcosa di simile. Se la memoria non lo stava ingannando, ricordava vagamente anche un finale orribile, strappalacrime.

Mai una gioia.

Scrollò le spalle e si passò una mano dietro il collo. Sollevò lo sguardo sullo specchio di fronte a sé. Diede una controllata veloce al trucco e decise che non poteva più rimandare la propria uscita in scena.

Il MoonClan era stato riaperto al pubblico – anzi. Era diventato una piccola celebrità e la sua clientela si era ampliata tanto che Abel non era più l'unico umano a varcarne l'ingresso ogni sera. Rimaneva la stella indiscussa del locale, questo sì. Anche se il suo sorriso si era fatto un po' appannato e le sue battute meno ironiche e sempre più taglienti.

Approdò sul palco e le luci che gli puntarono addosso finirono per ferirgli gli occhi e per far vacillare il suo precario sorriso. Si schiarì la gola, la musica prese vita, si esibì nel suo solito, sensuale ballo, giocando con movimenti che ormai sentiva vuoti, monotoni, mentre i pensieri viaggiavano alla velocità della luce su tutt'altra storia.
La musica terminò e, ancheggiando, scese dal palco, camminando tra i tavolini, coinvolgendo i clienti in siparietti più o meno cominci. Il numero terminò e Abel si apprestò a tornare nel suo camerino.

Arrivò vicino al bancone del bar, dove, subito accanto, si apriva l'uscita della sala.

Il suo cuore perse un battito e si fermò un attimo prima di lasciare la stanza. Deglutì a vuoto un paio di volte, mentre i suoi occhi parevano incollarsi a quelli di un uomo seduto su uno degli sgabelli.

Hauke.

Da quando era stato rilasciato e Saul era sparito dalla circolazione, Hauke aveva mollato pure il locale, per concentrarsi sugli affari del Clan, aiutando Gesche nella sua gestione. Non lo vedeva da diverse settimane, nonostante il Clan fosse tornato in città. Era stato più un tacito accordo tra di loro, qualcosa che entrambi avevano deciso in simultanea, per cui non avevano sentito la necessità di informare l'altro, certi che l'altro avrebbe comunque capito.
E non si erano più visti.

Abel aveva fatto visita a sua madre e a Rudi diverse volte, ma Hauke non era mai stato presente. Ogni volta che Gesche aveva mandato qualcuno dei suoi per parlare con lui, per tentare di farlo ragionare e convincerlo a tornare nel Clan, mai aveva fatto ricadere la propria scelta su Hauke.
Tutti erano passati da casa di Abel, da Gesche in prima persona, a Rudi, a Telsa, a cugini e cugine, zii e zie, tutto il branco era stato messo nel mezzo, perfino persone che a stento avevano tollerato l'esistenza di un non-licantropo tra di loro – tutti.
Così tutti avevano scoperto nel giro di un paio di giorni il suo nuovo indirizzo, visitato il suo nuovo appartamento, squallido e triste, che aveva preso in affitto e in cui si era trasferito in fretta e furia nella speranza di scappare dal controllo del Clan.
Non aveva funzionato.

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