QUARANTOTTO

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Era tornata la ragione, la lucidità mentale. La follia della realtà – o come la si voleva chiamare.

Abel teneva ancora gli occhi chiusi, Hauke restava ancora attaccato a lui, ma la sua mente era già stata liberata dalla piacevole confusione della passione.

E sapeva di aver commesso l'ennesimo errore.

Dannazione.

Aprì gli occhi e rimase per un tempo indefinito a fissare il soffitto. Un soffitto bianco, anonimo. Un lampadario moderno, a tre bracci che terminavano in tre lampadine dalla forma a goccia. Non gli apparteneva, l'aveva trovato in casa quando vi si era trasferito circa un mese prima.
Non c'era un solo mobile, nell'appartamento, che gli apparteneva.
Neppure il letto.
Nulla che conservasse dentro le sue forme ricordi della sua infanzia. Assolutamente nulla.

Paradossalmente, l'unica cosa che faceva parte della sua vita da sempre, in quel momento, in quella casa, era Hauke.

Hauke che vi metteva piede per la prima volta proprio quel giorno.
Hauke che aveva sempre amato.
Hauke con cui aveva appena fatto sesso, realizzando il suo sogno di ragazzino.
E aveva fatto una cazzata, lo sapeva.
Sospirò e si scostò da lui.

-Tutto bene? Ti ho fatto male?- chiese l'uomo e lui gli diede le spalle, percependo le sue dita sulla pelle. Rabbrividì.

-Sono abituato- disse, tentando di essere il meno stronzo possibile, ma sapeva comunque che per Hauke, le sue parole, erano già suonate abbastanza da stronzo.

Immaginò la sua espressione farsi cupa e rabbiosa. Lo conosceva bene. Lo conosceva così bene da sentirlo parte di sé alla stregua di un proprio braccio, di una propria gamba.
Da sempre insieme.
Sempre.

-Sei proprio uno stronzo-

Sì, lo so.

Percepì i suoi movimenti attraverso quelli del materasso, mentre Hauke si sedeva lontano da lui, forse si alzava pure, per prendere le distanze. Sospirò ed ebbe la conferma che si era alzato quando udì i suoi passi contro il pavimento, le piante dei piedi che battevano sul parquet con fin troppa enfasi. Era incazzato e voleva che lo sentisse, anche se non lo stava vedendo.

Abel sospirò di nuovo e decise che era arrivato il momento di smetterla di crogiolarsi nella vigliaccheria. Si tirò a sedere e si girò verso di lui, sorprendendolo mentre si guardava attorno, forse in cerca dei propri abiti.
-Le tue mutande stanno in cucina- disse.

Hauke gli rivolse un'occhiataccia. Corse fuori dalla stanza e Abel, malvolentieri, lo seguì.

Arrivò che l'altro già stava indossando i propri jeans. Chiuse la patta dei pantaloni e si girò a guardarlo – in cagnesco. E faceva un po' ridere sapendo che dentro il suo corpo da umano si annidiava un lupo pronto a ringhiargli contro.

Recuperò da terra slip e leggins, la T-shirt, e anche lui si rivestì, mentre Hauke continuava a fissarlo come se fosse sul punto di balzargli addosso e sbranarlo.

L'aria era carica di una tensione palpabile e ad Abel si mozzò il respiro in gola quando, una volta rivestitosi, tornò a sollevare lo sguardo su di lui.

-Ti rendi conto di quello che mi hai detto, sì?- sibilò Hauke. Lui scrollò le spalle e tacque. -Lo so che non sono il tuo primo amante, ma c'era bisogno di rinfacciarmelo subito dopo che abbiamo fatto l'amore?-

-Abbiamo fatto sesso- lo interruppe e l'espressione dell'altro si fece ancora più truce.

-Per me non è stato solo sesso- mormorò.

Abel percepì la pelle ricoprirsi di brividi, i muscoli del viso tirare dolorosamente. -Hauke- disse e si fermò subito, non sapendo bene come continuare quella conversazione.

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