Capitolo sedici

122 14 0
                                    


Mi spedirono al nord Italia, non ero abituato a quel freddo o per lo meno, dove vivo il freddo non era così secco, non ti entrava nelle ossa; per la prima volta vidi il fumo uscire dalla mia bocca quando parlavo, e per assurdo, pensai che ero fuori di me quando, a volte lo facevo di proposito perché mi veniva in mente quando lui fumava.
L'estate ormai era andata via da un pezzo, eravamo arrivati al mese di dicembre nel 75, e anche quell'anno stava per terminare. Io e Tae ci sentivamo ma lo pregai di non essere esplicito nelle lettere perché scoprì che venivano lette dai generali prima di essere consegnate: lì, si scatenò in me la paura di essere scoperto, che qualcuno capisse che ero gay e allora ci scrivevamo in coreano la parola ti amo, o altre parole che lui mi scriveva con la traduzione in inglese di fianco: nonostante tutto, qualcuno si accorse che io mandavo lettere con una lingua straniera dalla loro e si lamentarono ma io continuavo a farlo, beccandomi punizioni su punizioni; l'amore di Tae era il mio appiglio a quel periodo, nulla mi faceva stare bene quando vedere quelle buste firmate solo con la sua iniziale, la "T". Ogni volta tiravo un sospiro di sollievo perché capivo che nessuno dei due si era dimenticato dell'altro. Assieme alle sue arrivavano quelle di mio padre e mia madre, anche di Rosy che si rammaricava quando scoprì che al suo ritorno non ci sarei stato.
A loro raccontavo che stavo bene, che era un'esperienza che mi stava formando che finalmente avevo capito cosa significasse essere uomo e ogni volta che la penna incideva sul foglio quella parola mi sentivo male e incominciai ad odiarla: in realtà io mi sentivo spogliato dal mio essere, mi avevano rasato i capelli, indossavo divise che detestavo, dovevo assimilare atteggiamenti virili nascondendo il mio lato riservato: ogni volta che sentivo ridacchiare gli altri ragazzi su battute maschiliste ritorcevo il naso e qualcuno lo notò, qualcuno di loro si rese conto del mio isolarsi e collegò, fu immediato. Il mio soprannome lì dentro era tutt'altro che un nomignolo affettivo, anzi, era dispregiativo, pronto per ferirmi, per farmi sentire sbagliato, con l'intento di farmi sentire a disagio.
Dagli insulti passarono ai "scherzi" o per lo meno così loro li definivano, ma solo loro. Mi spintonavano, mimavano gesti sessuali riferito al mio orientamento, e gli insulti non mancavano mai.
Ma io non mi sentivo mai sbagliato, ma dentro di me morivo; ed era questo che raccontavo a Tae, gli raccontavo tutto quello che passavo e sentivo dentro di me. E ringraziai un Dio, di averlo incontrato nella mia vita perché le sue parole, che quando leggevo sentivo la sua voce pronunciarle, mi spingevano ad andare avanti.

Telegramma da Trento (ITA)- 20 dicembre 1975

"Mio caro Tae, oggi è la solita giornata in cui mi sento uno straccio. Vorrei che fossi qui con me. Promettimi che al termine del congedo ci vedremo."

Telegramma da Chicago- 30 dicembre 1975

"Jungkookie, qui a Chicago nevica ed io sono qui, mentre butto giù qualche idea per una nuova canzone che vorrei a te, alla costiera e a quello che è successo. Spero che questo ti faccia sorridere nell'attesa che per quanto sia lunga, ne varrà la pena.

너는 강해져야한다, 나는 너를 기다리고있다. - Devi essere forte, io ti aspetto"


















Ciao a tutt*! Mi scuso in anticipo se la frase scritta in coreano non è giusta! Fatemi sapere se vi sta piacendo questa storia!

The Novecento Hotel| TaekookDove le storie prendono vita. Scoprilo ora