18 Settembre 2011, Domenica

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Giorno 1


A volte mi capitava di fare brutti pensieri.

Bugia, mi capitava spesso.

Non ero in grado di fermare il modo spasmodico in cui la mia mente li produceva.

Si moltiplicavano uno sull'altro, uno incatenato all'altro, fino a diventare tossici.

Non sapevo cosa significasse lasciar perdere, lasciare andare.

Non sopportavo le questioni irrisolte.

E allora mi bloccavo su qualsiasi cosa mi capitasse, analizzandola morbosamente. Solo se riuscivo a districarla, a possederla, alla fine la lasciavo andare.

Tutto questo mi avvelenava e di sicuro non mi faceva bene, anche se la maggior parte delle volte mi aiutava a mantenere il controllo.

Altre volte invece finivo ad arrovellarmi su diversi modi per scacciare quei ragionamenti, per cambiare il mio modo di pensare, per modificare i settaggi della mia mente.

Sempre che esistesse un modo per farlo...

Ero consapevole che dipendesse interamente da me. La cosa peggiore era che, nella stragrande maggioranza dei casi, quei pensieri erano rivolti alle persone intorno a me. Ero insofferente nei confronti di una grande porzione di genere umano, e questa esasperazione nei confronti dei miei simili non risparmiava quasi nessuno. Le uniche persone che a stento tolleravo sulla faccia della terra erano i miei genitori (con alcune eccezioni) e la mia migliore amica Debby (anche qui, Deborah aveva i suoi alti e bassi).

Nonostante questo, non so davvero perché mi sforzassi di condurre una vita normale, il che includeva purtroppo il cercare di integrarmi nella società e persino provare a uscire con dei ragazzi. Mi impegnavo così tanto che probabilmente dall'esterno potevo sembrare una persona socievole, a volte. Ma poi, inesorabilmente, fallivo. Ero talmente fuori posto in qualsiasi cosa da darmi sui nervi da sola. Cosa c'era di così difficile nel recitare la grande commedia della vita? In fondo il resto del mondo ci riusciva.

Pensavo a questo, quel pomeriggio sul lungomare.

Scrollai la testa, inspirai a fondo l'odore della salsedine, stringendomi nel cappotto leggero. Era uno degli ultimi tramonti di settembre e si stava ancora bene in spiaggia, nonostante fossero quasi le sette di sera.

Sul litorale romano i ragazzi facevano aperitivo nei chioschi tra i chiacchiericci, le risate sguaiate, il rumore dei bicchieri che sbattevano sui tavoli e lo stridio dei gabbiani in lontananza.

Io non ero lì per qualcosa di così piacevole quel giorno, ma non c'entrava niente con i miei ragionamenti indistricabili, quelli potevano capitare sempre, anche nei momenti migliori.

Mi sistemai meglio il mio zaino rosso Eastpack sulle spalle, guardandomi ancora intorno.

Un ragazzo non molto lontano da lì fissava il mare, abbandonato con i gomiti sul muretto.

I capelli nerissimi gli sfioravano il collo sferzati dal vento. Ce n'era tanto, quel giorno. Io odiavo il vento, ma la mia opinione non contava perché in effetti odiavo un sacco di cose. Il ragazzo fumava, coperto solo da una camicia bianca che non doveva essere sufficiente a scaldarlo ora che il sole stava per scomparire dietro l'orizzonte. Ma non sembrava sentire freddo.

Portò la sigaretta alle labbra lentamente, con un gesto ipnotico. Poi buttò fuori il fumo, gli occhi fissi sul mare. Dio, doveva essere così triste.

- Ehi. -

Gesù, che paura. Improvvisamente ricordai il motivo per cui ero lì.

- Ciao Kev. –

Avrei davvero evitato quell'incontro se avessi potuto. Ero più una da taglio netto, senza strascichi, pianti o tragedie.

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