10 ottobre 2011, Lunedì

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Giorno 23


Quando aprii gli occhi, quella mattina, non ero certo di buon umore, eppure non avevo ancora idea del mare di merda che mi sarebbe piovuto addosso da lì a poche ore.

Mi risvegliai pensando all'abbraccio che due giorni prima non ero riuscita a dare a mia madre, a come avevo lasciato che le sue dita afferrassero l'aria, a come avevo stroncato nel suo petto quel respiro primordiale. Negare a una madre qualcosa del genere era come negare di essere mai nata da lei, come a sancire una rottura più profonda di quella del cordone ombelicale, come ad urlare "non sono più tua, sono solo mia." E forse ad un certo punto della vita era anche giusto, ma il fatto di essere giusto non lo rendeva meno brutale.

Non incontrai mia madre e mio padre quella mattina. Quando scesi per la colazione erano già tutti usciti di casa; perciò, mi preparai del caffè da sorseggiare con calma, nel totale silenzio e desolazione di quella casa.

Ovviamente non avevo sentito Cris. Il giorno prima mi aveva scaricata davanti casa mia come fossi un pacco scomodo, e me ne ero andata sconfitta, con le mani di Debby e Manu che mi salutavano da dietro i vetri del Suv.

"Le passerà", mi aveva detto Debby al telefono poi quella stessa sera, "dalle solo del tempo". E avevo veramente intenzione di farlo. Non l'avrei cercata

Quando presi l'autobus, pochi minuti più tardi, continuavo ad avere una sensazione orrenda, che andava al di là di quello che stava succedendo con Cris. Non riuscivo a togliermela di dosso, nonostante avessi slacciato il primo bottone della camicia, proprio sotto al collo.

Guardavo fuori dal finestrino senza riuscire a smettere di pensare allo sguardo che mi aveva indirizzato Daniel il giorno prima. Mi aveva spaventato perché non riuscivo a dargli un senso. Deglutii, scuotendo la testa. Era tutto finito. Non mi avrebbe più perseguitata.

Fu non appena misi un piede fuori dall'autobus che il mio cellulare squillò ripetutamente, come impazzito. Forse normalmente non avrei risposto ad una chiamata fatta alle otto di mattina mentre stavo per entrare a scuola, visto il rapporto di odio che avevo con il mio cellulare. Solo il sentire la suoneria mi faceva venire dei brividi di disgusto ed ansia su tutto il corpo.

Eppure, quelli non erano giorni normali. Erano giorni in cui tutti stavamo sempre allerta.

Era Debs. - Samantha. - disse. Nella sua voce c'erano un'urgenza e un panico che non mi piacquero per niente. Inoltre, aveva usato il mio nome completo e questo non indicava mai niente di buono.

- Non entrare a scuola. - disse. Aveva l'affanno, come se stesse correndo da una parte all'altra e riuscivo chiaramente a sentire la presenza di Manuel accanto a lei, altrettanto agitato.

- Perché non dovrei entrare? - chiesi.

- Ti prego. Per una volta, potresti solo fare come ti dico? -

- Senti, in questi giorni è successo di tutto. Non c'è niente che non possa sopportare in questo momento. -

- Sam, ti prego, tu non... - misi giù il cellulare, senza darle la possibilità di dire altro. Ero stufa che mi si nascondessero le cose, di essere all'oscuro di tutto. Non dovevano proteggermi come se fossi una bambina. Non ero fatta di cristallo, non sarei andata in mille pezzi. Mentre me lo ripetevo in testa, sembrava quasi vero.

Entrai dal portone principale facendo le scale a due a due, guardandomi intorno. Subito capii che era successo qualcosa di grave, perché ogni singola persona mi guardava, mi fissava avidamente. La sensazione di disagio che sentivo sotto al collo, all'altezza del petto, si acuì e io iniziai a sudare freddo.

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