15 ottobre 2011, Sabato

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Giorno 28

Una ragazza immagina quel giorno per tutta la sua vita, o almeno per buona parte di essa. Personalmente l'avevo visto per una grande porzione dell'adolescenza come un punto di svolta, senza sapere bene perché.

Era come se nella mia testa pensassi che tutto sarebbe cambiato nel giro di una manciata di ore e che sarei improvvisamente diventata una donna, sentendo chissà quale nuova sensazione dentro di me.

Avrei potuto prendere la patente, andare dove volevo, scappare per qualche ora da casa e perdermi nella città e nella vita senza dover rendere conto a nessuno. Sarei stata libera.

Ma quella mattina, quando mi svegliai da diciottenne nel letto della mia stanza, desideravo solo di non essere nata. Di non dover sentire quel dolore. Di riavvolgere il nastro a quasi un mese prima e capire come ero arrivata lì.

Del giorno precedente avevo dei ricordi confusi nei loro dettagli ma incredibilmente pungenti. Il dolore di Cristina mi faceva male quasi quanto mi faceva male il mio.

Io non ero mai stata brava a gestire un dolore solo, mi ero sempre chiusa in me stessa, tenendo fuori il mondo, stretta in un angolo nel tentativo di respingere gli attacchi che mi sferrava. E ora invece cercavo di gestirne due.

Forse crescere significava proprio quello, a prescindere da quella cazzata dei diciotto anni.

Guardai il cellulare, scorrendo i messaggi di auguri. C'erano quelli di Debby, di Manu, di vari compagni della classe, di qualche cugino sparso per il mondo, persino quelli di mamma e papà che ora sicuramente stavano preparando la mia colazione preferita al piano di sotto.

Il suo non c'era. Non che mi aspettassi di trovarlo. Ero stata io a spingerla ad andare da lei. Doveva incontrarla, sentire cosa provasse. Io stessa avevo bisogno che lo facesse. Se fosse tornata da quello, sarebbe stata completamente mia.

La verità era che entrambe sapevamo che non sarebbe tornata. Lo sentivamo nelle ossa, come avevamo sentito sin dal primo giorno di essere legate da qualcosa di più forte di noi, a prescindere dall'età, dagli interessi, dall'estrazione sociale, dal sesso.

Lei non sarebbe tornata perché quella storia doveva andare così. La sua storia, non la nostra. Il percorso della sua vita la portava lontana da me, nonostante tutto.

Doveva chiudere quel cerchio, quel capitolo della sua vita. Aveva passato quattro anni sommersa dal suo dolore e a prescindere da quel mese di paradiso che avevamo passato insieme lei doveva vedere se da quel dolore poteva riemergere.

Doveva dargli un senso, per rispetto a se stessa.

Non c'eravamo dette niente di tutto quello, ma entrambe lo sapevamo.

Avevo raccontato tutto quello a una Debby incredula, che mi aveva ritrovato il giorno prima a vagare a piedi per le strade del quartiere.

Cris si era offerta di riaccompagnarmi a casa in macchina, ma io non potevo stare in sua presenza per cinque minuti di più. Il nostro dolore tutto insieme era troppo da sopportare, e finché non avesse visto lei non avremmo avuto comunque più niente da dirci.

Non potevo di certo rimanere lì a consolarla o a dirle che andava tutto bene. Non potevo più. Così ero fuggita a gambe levate, dopo averle baciato la fronte dolcemente, come si fa con i bambini che non si possono consolare.

Avevo camminato, stordita dal pianto, dalle orecchie che mi fischiavano, camminato nel freddo finalmente potendomi sfogare in solitudine. Poi avevo chiamato Debby.

Nonostante la mia migliore amica avesse cercato di rassicurarmi, io ero stata inconsolabile: quando qualcosa finisce davvero in quel modo lo senti in ogni parte di te. Nelle ginocchia, in fondo alla gola, dietro agli occhi che ti pizzicano come spilli.

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