26 settembre 2011, Lunedì

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Giorno 9


Potevo fingere una febbre. Magari una bella influenza o un mal di testa. Potevo inscenare una crisi isterica, una crisi di pianto o semplicemente il ciclo.

Il lunedì mattina avevo questi pensieri, sdraiata nel letto prima del suono della sveglia. Non sarei riuscita ad affrontare il rientro a scuola. O forse semplicemente non volevo perché ero troppo codarda.

In quel momento suonò la sveglia e la disattivai immediatamente. Potevo già sentire i rumori provenienti dal piano di sotto e le voci di mamma e papà. Non avevo bisogno di sentirli per sapere che stavano parlando di me.

Gesù, avevo preso una sbronza. Che scandalo, eh?

Mi trascinai fuori dal letto che il giorno prima non avevo lasciato neanche per mangiare e scoprii di avere una fame da lupo. Dopo una doccia rigenerante e dopo aver indossato dei jeans e un maglioncino casual blu me ne scesi di sotto, ancora riluttante.

- Buongiorno. – mi sorrise papà e io risposi con una smorfia. – Caffè? –

Oddio sì, avrei voluto quel caffè e quei pancake caldi, ma ancora di più volevo restare a casa.

- No, grazie... in realtà mi sento un po' scombussolata. –

- Non ci pensare proprio. – mia madre, già vestita di tutto punto e con il foulard legato con esperienza si girò verso di me come un'aquila arrabbiata, ed ebbi un piccolo sprazzo della quantità di rancore che ancora nutriva nei miei confronti. – Non ti inventare niente Sam, oggi tu vai a scuola. –

Neanche risposi, tirava una bruttissima aria e più di tutto lo capivo dal disagio di papà, che continuava ad alzare il volume del tg della mattina fino a far tremare le pareti. Mi misi a sedere docilmente, gustandomi il caffè e i pancake, ormai rassegnata all'idea di andare a scuola.

Un basso profilo. Ecco di cosa avevo bisogno per andare avanti a scuola. Lo capii un attimo dopo aver percorso le scale e aver imboccato la porta del corridoio d'entrata, quando tutti gli sguardi erano puntati su di me. Ma certo. Perché io ero la pazza che aveva dato uno schiaffo a Kevin Angelucci, capitano della squadra di basket. E non me l'avrebbero perdonata mai, se non con il tempo e solo se fossi sparita, se mi fossi mimetizzata nella folla e non avessi dato ancora di matto.

Questo è quello che la società voleva da noi. Fate i bravi. Non create problemi. Siate normali. Ma io non ero più sicura di cosa significasse normale.

Dopotutto mancava meno di un anno alla fine della mia carriera scolastica in quel liceo e anche se avessi dovuto sopportare i loro sguardi per tutto quel tempo sarebbe esistita una luce infondo a quel tunnel adolescenziale. Doveva esistere.

- No, ti prego no! – mi girai di scatto, delle urla mi avevano trascinato fuori dai miei piani di distruzione dell'umanità. – Non mi picchiare Sam! –

Risate sguaiate. Insensate. Daniel De Santis, quel genio incompreso, insieme al gruppetto di basket, se la spassavano proprio lì davanti a me. Kevin, dietro di loro, mi guardava in silenzio.

Io e lui sapevamo cos'era successo veramente. E di sicuro entrambi sapevamo il significato di un no. Ma Kevin non avrebbe parlato, avrebbe continuato a tenere stretta la sua nuova moretta, raccontandole balle. Le avrebbe detto che esisteva solo lei, che io ero una bugiarda e una pazza e lei ci avrebbe creduto perché, ehi, come si fa a non credere a Kevin, l'angioletto, il capitano della squadra di basket?

- Andiamo via, Sam. –

Mi lasciai portare via da una mano grande e fredda, senza replicare. Basso profilo. Manuel mi accompagnò all'armadietto, vestito di nuovo da skater e senza più traccia di cravatta e smoking. Sospirai, aprendo lo sportello.

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