At Peace With My Feelings

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«Ryousei! Avanti, porta il tuo culetto fuori da quella stanza, è ora di colazione!» gridò Galko attraverso la porta. «Se non alzi il culo non avrai neanche il pranzo, piccolo stronzetto!» le fece eco Lock, cinica come sempre.

E io? Io stavo steso sul lenzuolo a fissare il soffitto con assolutamente zero voglia di alzarmi. Sapevo che se fossi uscito 1. entrambe avrebbero cominciato a fare domande - fortuna ha voluto che tutt'e due abbiano assistito al piccolo scambio tra me e quel piccione crea problemi, compreso il bacio sulla fronte, e 2. sapevo di avere una faccia sconvolta, ben peggiore di altre volte, e sicuramente se ne sarebbero accorte.

Quindi, no. Non ero assolutamente intenzionato ad uscire da quella stanza, anche a costo di rimanere a digiuno un giorno intero!

Mi tamburellavo le dita sullo stomaco, che nel mentre continuava a brontolare reclamando la colazione, ma io lo ignorai. Non era la prima volta che saltavo un pasto e forse non sarebbe stata nemmeno l'ultima, malgrado Galko continuasse a rimpinzarmi di cibo come un tacchino il giorno del ringraziamento. Il senso di colpa nei suoi confronti mi costringeva a mangiare ma era qualcos'altro a farmi rimettere nel bagno, convinto che nessuno potesse accorgersene.

Mi dissi che andava bene così. Se non mangiavo non rimettevo e di conseguenza diventavo più magro. Mi tastai il petto da sopra la maglietta, potevo quasi sentire le costole quando prendevo aria.

Forse posso farci scappare anche un'accusa per malnutrizione oltre a quelle che ho già...

Scossi la testa. Inutile anche solo il pensiero. Non ero quasi mai a casa per consumare un pasto, potevano inventarsi una qualsiasi scusa per quel frangente e io ci avrei fatto la figura del bugiardo.

Scossi nuovamente la testa. Dovevo smettere per un attimo di pensarci. Le mie autoconclusive e apocalittiche fantasie non avrebbero vinto, non oggi quantomeno.

Rotolai sul materasso fino a stendermi a pancia in giù, il mento che mi sprofondava nel cuscino. Con la massima concentrazione tentai di leggere i messaggi storpiati dallo schermo rotto del mio telefono - prima o poi avrei dovuto fare qualcosa per l'ammasso di circuiti che avevo in mano. Isabella mi informava con lunghi papiri di testo, degni della sua professione di avvocato, che il mio caso era ad un punto morto. Sbuffai.

Fan-cazzo-tastico.

Abbandonai il cellulare che rimbalzò nella crepa oscura che era lo spazio tra il letto e il muro. Lo fissai apatico. Non avevo chiamate da ricevere e non avevo voglia di scheggiarmi le nocche contro il muro per riprendere quella lamiera dell'anteguerra.

Mi stesi da un lato, contemplando il muro di uno sbiadito pesca. Alcune crepe di intonaco bianco erano ben visibili. Mi misi a seguire le venature che si estendevano sulla parete senza niente di meglio da fare.

La mente mi riportò alla sera prima. Mi strinsi in un abbraccio solitario che mancava del calore e della sicurezza che Hawks era riuscito a farmi provare dopo anni. Mi tastai le spalle esili da sopra la maglietta e il piccolo, fastidioso tarlo del dubbio chiese come faceva a non sentirsi disgustato da uno scheletro ambulante come me. Un piccolo pezzo di me si disse che alcune modelle - di cui mio malgrado avevo visto l'intimo nell'armadio di quello scriteriato - erano ben più magre e scheletriche di me.

Non so se sentirmi sollevato o deprimermi ancora di più da questa informazione.

Mi rigirai più volte nel letto. Cuore e cervello si davano battaglia dentro di me. Il cuore mi suggeriva di aprirmi, di dargli una possibilità, di smettere di negare l'ovvio. Il cervello continuava a zittire tali scemenze con una semplice frase: perché mai un Hero famoso come Hawks, cui uomini e donne gli si gettano ai piedi ogni giorno, che sarebbero pronti a strapparsi vestiti e capelli se solo lui lo chiedesse, dovrebbe scegliere qualcuno come te?

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