Family Is Just A Name

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Io odio le riunioni di famiglia.

Soprattutto di questa famiglia.

Odio vedere persone false e pompose, che competono per chi c'è l'ha più lungo. Quei coglioni fanno a gara anche a chi ha il bagno più grande.

E la loro progenie demoniaca non è da meno.

Tutti a vantarsi del Rolex tempestato di diamanti appena uscito dalla gioielleria, o al telefono ultimo modello con la cover placcata in platino che mammina e papino gli hanno regalato al compleanno.

Tutti con il naso all'insù e il sorriso di plastica incastrato tra i denti.

Non ci provano neanche ad essere un minimo gentili.

L'unica cosa positiva è che almeno lasciano i bambini fuori dalle loro assurde competizioni.

Dalla balconata in legno di quella villa tradizionale potevo vederli correre e schiamazzare, comportarsi da bambini, mentre giocavano a nascondino. Vidi Chisato, con il suo vestitino elegante nuovo di pacca, nascondersi dietro un cespuglio, incurante se le sue scarpette si macchiassero di fango. Appena il suo sguardo incrociò il mio mi salutò con la mano, gesto al quale risposi alla stessa maniera, poi si portò l'indice alle labbra in un gesto di silenzio.

Starnutì forte, spaventando qualche uccello notturno appollaiato sugli alberi intorno.

Sicuramente mi beccherò un bel raffreddore.

Tra tutti i posti in cui quel vecchio si poteva far costruire una casa proprio in montagna! Dove ci sono sì e no cinque gradi di notte!

«Gran bel modo di passare il Natale…» dissi ironico, senza che qualcuno potesse sentirmi.
«Forse l'unica cosa degna di nota è il panorama» constatai, tirando su con il naso, perdendomi a delineare il confine tra il cielo e le vette rocciose sullo sfondo.

Un rumore alle mie spalle mi destò dal mio stato di pace.

La porta scorrevole dietro di me si aprì ed un ragazzo della mia stessa età ne uscì, sistemandosi la cravatta del suo abito elegante, quando il suo sguardo incontrò il mio una smorfia di rabbia e disgusto gli deformò il giovane volto.

Mi passò accanto schioccando la lingua sul palato, infastidito.

Non posso dire di capirlo, in fondo se l'è cercata, quel bastardo.

Un'austera voce dall'interno della stanza mi chiamò, ordinandomi di entrare.

Sul pregiato tatami erano sistemati un piccolo tavolo, dei cuscini color vinaccia da ambedue i lati, un servizio da the la cui teiera fumava ancora ed un mazzo di carte hanafuda diligentemente impilato in un angolo.

Sistemato compostamente sul cuscino stava il capofamiglia.

Un'anziano uomo dai capelli ormai argentei, una lunga barba che occasionalmente si lisciava pensieroso, una ruga d'espressione in mezzo alle sopracciglia che contribuiva a dargli un'aria perennemente irritata ed un kimono tradizionale sempre perfettamente stirato.

La sua sola presenza riusciva a provocare incubi anche a quella famiglia di degenerati che mi ritrovavo. Onestamente metteva anche a me qualche brivido.

Il suo tagliente sguardo si alzò dalla sua tazza di thè per puntarlo su di me, «Entra, ti stavo aspettando» disse severo. Feci per accomodarmi sul cuscino opposto al suo, incrociando le gambe, ma lui fu svelto a correggermi «Siediti composto.»

Feci quanto detto, anche se quella posizione mi atrofizzava le gambe dopo solo un minuto, sedendomi composto di fronte al capofamiglia, che sembrava irritato come il primo giorno che lo conobbi.

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