Bergshamra

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Christian aveva sempre odiato sentirsi osservato, era una delle sue fobie più grandi, che lo aveva sempre spinto a non dare nell'occhio. Ma, soprattutto, non sopportava essere sulla bocca di tutti, venire giudicato senza essere conosciuto, venire tacciato di fatti che non lo riguardavano.

E lì, in quella città in cui le persone neanche lo guardavano in faccia, in cui chi lo conosceva neanche lo salutava, si era sempre sentito al sicuro, al sicuro perché le persone non lo guardavano mai, mai.
Avrebbe potuto tranquillamente uscire di casa in costume con meno dieci gradi e nessuno gli avrebbe rivolto mezza occhiata.

Si ricordava anche di quella volta in cui aveva incontrato un'attrice famosa alla stazione centrale e nessuno le aveva prestato attenzione, non perché non la conoscessero, ma perché la cultura era così, vivi e lascia vivere.
Probabilmente non avrebbero fermato neanche un componente della famiglia reale.

Perciò, quel mattino, sulla strada ripida che conduceva al suo ufficio, subito dopo aver salutato Mattia con un bacio veloce e distante, la serata a casa di Carola ancora  portava i suoi strascichi, si sentì gelare il sangue nelle vene: tutti lo fissavano e sussurravano. Tutti.

E Christian non capiva che cosa fosse successo.
Prese il telefono dalla tasca e controllò con la telecamera interna di non avere nulla sul viso.
Dopo di che passò le mani sulla giacca pesante, sui pantaloni e sulla borsa per verificare di non avere nessuna macchia o altro.
Quando si fu accertato di avere tutto al proprio posto, continuò a camminare.
Un centinaio di metri lo separavano dalla porta del suo ufficio in centro.
Ma non ci riuscì ad arrivare.

Le persone continuavano a guardarlo e a bisbigliare, coprendosi la bocca con la mano per evitare che lui capisse di che cosa stessero parlando.

Una leggera nebbiolina bianca iniziò a farsi largo agli angoli degli occhi, oscurandogli la vista e riportando alla memoria un ricordo ancora troppo fresco, troppo doloroso, che era stata la causa principale per cui era scappato via dall'Italia, dal suo piccolo paesino in cui c'era tutto ciò che amava.

È così difficile respirare, così dannatamente difficile.
Diamo per scontato che sia una cosa perfettamente naturale e che deve accadere sempre solo perché il nostro corpo è abituato a farlo, ma non è per niente certo che il nostro respiro successivo arriverà e non potremo mai esserne sicuri.
Siamo stupidi a credere il contrario.

Ed io avevo sempre creduto che il respiro successivo sarebbe sempre arrivato, in qualsiasi circostanza ed in qualsiasi situazione.

E quando la prima volta quel respirò non arrivò, mi sentii quasi morire, anzi mi sentii morire.
Avevo portato le mani alla gola, cercando con le unghie di allargare la trachea, di dilatare il tubo che permette all'aria di entrare nei polmoni, ma non ci ero riuscito, mi ero solo graffiato il collo, da cui il sangue aveva iniziato a colare lentamente.
Avevo premuto i palmi sullo sterno e sulle costole, sperando di raggiungere i polmoni per tirargli un pugno e per farli ripartire, un po' come si fa con i vecchi apparecchi elettronici, ma avevo solo provocato lividi.
Poi avevo provato a aprire la bocca, a spalancarla il più possibile, ma niente, nulla.

Fino a quel giorno avevo creduto di essere invincibile, di poter affrontare tutto, invece, quello che poi avrei riconosciuto come un attacco di panico, mi aveva fatto ritornare con i piedi per terra, consapevole di quanto fossi soggetto a tutte le regole del mondo e della natura, di quanto mi importasse del giudizio altrui, della loro opinione, dei loro sussurri, nonostante avessi fatto finta di fregarmene.

Diego era stato il mio primo amore.
Era colui che mi aveva fatto credere di essere perfetto, il ragazzo più bello della terra, di Italia, di Bergamo.
Mi aveva regalato fiori, cioccolatini, cuscini con le nostre foto.
E lui era più grande di sette anni, quindi mi faceva sentire ancora più speciale, perché io ero ancora un misero ragazzino diciottenne, con un corpo magrino e senza curve, con zero esperienza, ad eccezione di qualche bacio nei bagni delle discoteche, e con zero idea di come relazionarsi in una relazione.

E lui mi aveva insegnato tutto con pazienza, con dolcezza, nascondendo bene il suo fine, mimetizzando le sue manie, dietro a sorrisi lucidi e sguardi sognanti.

Con gentilezza mi preparava la cena e, per quel suo gesto amorevole, si aspettava che mi mettessi in ginocchio davanti a lui e prenderlo in bocca.
Con gentilezza mi portava fuori città per il weekend e, in cambio, una volta tornati a casa sua, dovevo coricarmi su di lui e penetrarlo fino a farlo venire.
Con gentilezza mi faceva regali costosi ed io per ripagarlo dovevo farmi tagliuzzare il braccio, perché solo così potevo dimostragli di essere fedele, di essere riconoscente.
Con gentilezza mi portava a scuola, mi veniva a prendere, mi portava a danza, mi accompagnava dappertutto, e io dovevo farmi bendare e trascorrere interi pomeriggi sul letto in attesa, in attesa che lui entrasse in camera e mi prendesse senza prepararmi, perché solo così lui poteva essere certo che lo amassi.
E in tutto ciò c'era sempre una telecamera a filmarci, perché lui voleva creare un video ricordo di noi, della nostra storia d'amore.

Quando poi, un ragazzo della mia città si rivolse alla polizia facendo il suo nome, il nome di Diego, e lo denunciò per averlo costretto a fare cose che non voleva, avevo capito che non l'amavo, che lui era uno psicopatico ed io ero una vittima.

Avevo pianto per giorni, l'avevo bloccato da tutte le parti e mi ero chiuso in camera, cercando un modo per affrontare quella situazione.

Ma il peggio non era ancora arrivato.

Diego era un ragazzo malato, che si eccitava a vedere altri ragazzi alla sua mercé, soggetti al suo volere.
E aveva abusato di più di un ragazzo.
Aveva iniziato quel gioco dopo essere stato deriso da alcuni suoi compagni di scuola, a quindici anni, che lo avevano accusato di non saper scopare perché era solo un "gay di merda".
Perciò aveva iniziano a studiare trucchi per assoggettare la gente al suo volere è ci era riuscito.

Il 7 novembre, circa tre settimane dopo le prime accuse rivolte dal ragazzo anonimo di Bergamo, Diego pubblicò tutti i video che aveva girato e poi si era tolto la vita.
I ragazzi coinvolti erano ventuno ed erano tutti della zona di Bergamo e dintorni.

Christian era morto quello stesso giorno, quando il primo attacco di panico era comparso.
Il suo animo invincibile e infallibile era stato ucciso da quei video pubblicati su Facebook.

Si era allontanato da tutti ed aveva lasciato l'Italia senza salutare, senza dire niente ai suoi due migliori amici, mollando la scuola e la danza.
I suoi genitori l'avevano accompagnato all'aeroporto, stretto in un forte abbraccio e, con le lacrime agli occhi, l'avevano spinto via da loro, alla ricerca di un qualcosa di migliore.

Christian aveva affrontato la depressione da solo, chiuso in camera per i primi due mesi, poi aveva chiesto aiuto a sua mamma, che lo aveva messo in contatto con una psicologa.

Il percorso era stato lungo e difficile e ancora non era finito, ma Christian almeno riusciva a stare in mezzo alla gente ora.

Il moro cercò di sbattere gli occhi e allontanare quella storia da sé, ma era difficile, troppo difficile.
Si appoggiò ad un albero con la corteccia ruvida e gelida e respirò profondamente, sentendo i polmoni fare resistenza, ma con la voglia di vincere su di loro, dopotutto era lui che li comandava, era lui ed il suo cervello che controllavano tutto.

«Christian! Christian!» lo chiamò una voce famigliare.

Christian, con il petto ancora dolorante, alzò lo sguardo e si trovò davanti Carola con i vestiti da ballo, sicuramente stava gelando.

«C-che ci fai qui?» chiese con voce rauca il moro.

«Non c'è tempo per spiegare, devi tornare a casa e...» ma proprio mentre pronunciava quelle parole, una schiera di persone tirarono fuori i cellulari per iniziare a filmare.

«Cristo, io lo ammazzo, lo ammazzo quello stronzo di Mattia. Seguimi.»

E Christian venne trascinato via da quella ragazza minuta vestita in calzamaglia e tutù nell'aria gelida di febbraio, mentre la gente continuava a riprendere e a sussurrare.

E Christian era ormai ghiaccio, ghiaccio gelido, troppo distaccato dalla realtà per capire dove fosse, che cosa stesse succedendo.
Voleva Mattia, voleva capire perché Carola lo voleva uccidere.
Che fosse anche lui uno psicopatico?

Mattia, Matti, spiegami tutto, io ti amo, non farmi male, ti prego.

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