Capitolo 4

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Capitolo 4

Dopo essere stati feriti dal mondo così tanto,
hanno inziato a vedere i demoni all'interno degli umani.
Quindi, senza nasconderlo attraverso l'inganno,
hanno lavorato per esprimerlo.
-lo squalificato




Il vento soffia forte, fuori piove, e deserto.
Gli alberi si smuovono attorno la villa.
I fulmini sono l'unica cosa a dare un minimo di luce a quella notte buia e oscura. I tuoni rompono il silenzio che regna in quella villa in mezzo al nulla. Gli occhi di un bambino curioso che osserva ogni minimo dettaglio di quella che sarebbe stata la notte più lunga della sua vita.
Si allontanò dall'enorme finestra della sua camera e si voltò solo quando sentì qualcuno entrare dalla porta, che cigolò in maniera lenta e inquietante, come in un film horror.
Non si sorprese nel vedere chi fosse.
Non si sorprese nel vedere quel sorriso malizioso.
Non si sorprese nel vedere le mani di quell'uomo che slacciò la cintura dei suoi pantaloni, avanzando verso il bambino, pronto a compiere un'altro suo sfogo; uno dei tanti.
Pronto a sfogare ogni suo problema con spinte forti e violenti contro un bambino di soli sei anni.
Pronto a compiere uno dei tanti delitti.
Pronto a marchiare con le sue impronte il corpo minuto di un bambino che una volta poteva definirsi puro, vergine.
Pronto a violentare il suo stesso sangue, il suo stesso dna.
Avvolti nella penombra di quella notte.
E il bambino urla, piange.
Urla talmente forte da sovrastare i tuoni, urla così tanto che con il passare del tempo smette di sentire dolore, smette di lamentarsi, di opporsi, di dimenarsi. Si lascia andare ad un destino che ormai era la sua vita.
Una vita sporca, marchiata di sangue sulle lenzuola, di sangue sulle persone; sulle sue mani.
Una vita che divenne la sua più grande disgrazia, il suo più grande peccato.
Ed il vento che soffia prende le urla di quel bambino, facendole sue, urlando al suo posto quando quest'ultimo non fece più uscire nemmeno un lamento. Nemmeno una lacrima.
Ecco chi gridò aiuto al posto suo.
Ecco chi è lui: la tempesta.
E a lui piacevano le tempeste.

Dazai spalancò gli occhi e si alzò di scatto come se stesse bruciando, con il respiro accelerato di chi aveva appena avuto un incubo, uno dei suoi tanti incubi.
Prese controllo del suo respiro e sospirò una volta che riuscì a realizzare dove si trovasse; Chuuya l'aveva obbligato a restare a casa sua.
Sospirò per la seconda volta è guardò l'orario che segnava le tre e venti di mattina. Si alzò, ormai abituato a quelle notti perseguitate dal suo passato.
Ormai viveva quegli incubi come una seconda volta.
Eppure, nonostante sapesse che si trattassero di pezzi del suo passato, non riusciva proprio a ricordarlo perfettamente.
Ma Dazai sapeva, conosceva il suo passato, anche se aveva pochi ricordi sfocati, lui sapeva cosa aveva subito in passato, non ricordava perfettamente a casua dei traumi e lui ne aveva così tanti da potersi quasi vantare mostrando la sua infinita collezione.
Non era mai andato da uno psicologo, ma non ci voleva la scienza a capire che aveva subito dei traumi pesanti, lui li ricordava attraverso gli incubi; li riviveva in prima persona.

Prese un bicchiere d'acqua dalla cucina è ritornò nella sua camera degli ospiti, e nella penombra e nel silenzio di quella casa, di quella stanza, lui si punì. Si punì per essersi agitato così tanto solo per un incubo.
Si punì, per non essere riuscito a prendere subito il controllo del suo corpo, della sua tensione e del suo timore.
Si punì, perché lui non poteva sentirsi debole, non per colpa di quei incubi, non per qualcuno di così banale.
Si punì, non poteva reagire così per qualcosa che ormai era un abitudine.
Si punì: prese la lama che teneva nascosta in un taschino dei suoi pantaloni e si alzò subito la manica del pigiama, tolse le bende che avvolgevano le sue braccia ricoperte di cicatrici vecchie e nuove da poco, poggiò la lama sopra il suo polso e subito iniziò a tagliare la sua pelle.
Iniziò ad affettare la sua pelle come fosse carne da macello.
Lo sguardo apatico è assente, come se fosse in un limbo tra la realtà è il mondo dei sogni, mentre tracciava tagli profondi e il sangue sgorgava veloce dalla sua pelle, macchiando di quel liquido le sue mani e la lama; la sua debolezza.
Perché lui era questo: un insulso essere spregevole è debole.
Schifoso, vergognoso, la tua esistenza e una disgrazia a cui devi mettere fine. Ecco cosa la sua mente gli ripeteva in quel momento, come sempre, come se la sua mente non facesse parte di lui è non fosse anch'ella una disgrazia.
La sua pelle si tingeva di quel liquido scuro e densò, quel colore che Dazai amava così tanto, lo amava vedere sulla sua pelle.
Si fermò solo quando il suo braccio fu irriconoscibile, il sangue e i tagli coprivano letteralmente il colore della sua carnagione chiara.
Fissò con assenza il suo braccio, come se fosse un corpo senza anima; lo era, lo era da anni, sin dalla nascita.
Passarono minuti interi, forse ore, prima che la debole sensazione delle poche energie dovuto all'eccessivo sangue perso gli facesse girare la testa, obbligandolo ad andare in bagno, togliere l'eccesso di sangue e fasciare il suo braccio, stringendolo il più possibile.
Gli sarebbe piaciuto lasciarsi prosciugare è morire, ma non lo avrebbe mai fatto a casa di Chuuya, in una delle sue stanze.
Lui odiava il dolore, lo odiava così tanto che sperava quasi di provarlo, di sentire la sensazione del bruciore, di sapere cosa si provasse a sentire dolore fisico; perché lui non ne provava mai, nemmeno quando si apriva letteralmente le braccia. E nonostante lui odiasse il dolore, avrebbe fatto di tutto per provarlo, per sentirsi umano; gli esseri umani li invidiava nonostante gli facessero paura e ribrezzo.
Perché lui doveva avere meno di loro? Perché si sentiva così inferiori a loro?
Anzi, il suo ego era talmente alto da sapere di essere migliore a quegli esseri, ma la sua autostima era così bassa da fargli desiderare di essere come loro.
Era un controsenso, Dazai era un controsenso continuo.

Veleno e antidoto -soukokuDove le storie prendono vita. Scoprilo ora