²⁴. 𝘚𝘪𝘭𝘦𝘯𝘻𝘪𝘰 𝘳𝘢𝘥𝘪𝘰

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– Allora? – chiese Eddie, facendo ciondolare i piedi nel vuoto.

– Niente, falso allarme. Sarà stato un topo come l'altra volta – rispose Rein, con la voce rotta dal fiatone.

– Lo immaginavo... Pazienza. –

Eddie si sdraiò nuovamente sul ramo, facendo aderire il proprio corpo al legno per evitare di rotolare giù. Cercò di nascondere velocemente dietro la schiena la mano con la quale teneva i fogli, sperando che l'amico non si accorgesse del movimento. Per sua sfortuna, non fu così.

– Stavi di nuovo ficcanasando – gli sentì dire.

Eddie sospirò, svelando il maltolto e rimettendolo al proprio posto, nella cavità all'interno del tronco.

– I tuoi disegni mi piacciono molto. Non capisco perché tu li tenga nascosti qui. –

– Ti avevo chiesto di lasciarli stare. Sei esasperante. –

Rein gli rivolse uno sguardo sconfitto e accasciò la bicicletta sul lato del muro di pietra, parcheggiandola malamente. Si avvicinò anche lui all'albero, prendendo a scalarlo con moltissima fatica. Probabilmente i muscoli gli facevano male per la pedalata, un'andata e ritorno fulminea fino al luogo dove avevano piazzato il rilevatore di movimento.

– Piano con quella, lo sai che non è mia – gli disse Eddie, rimproverandolo per la scarsa delicatezza nei confronti della bici di Florian.

– E tu smettila di curiosare in giro. –

Rein si issò con un ultimo sforzo, trascinando le gambe su un ramo appena sotto a quello su cui si era appollaiato lui. Prese a massaggiarsi i polpacci per sciogliere un po' i muscoli, continuando a guardarlo in cagnesco.

– Mi annoio, qui non c'è molto da fare. E poi ci hai messo mezz'ora, nonostante il "punto di incontro" sia a un chilometro. Dovresti migliorare la resistenza – cercò di giustificarsi Eddie, evitando il suo sguardo.

– Primo: è a un chilometro e mezzo. Secondo: non tutti sono dei carri armati come te. – Il ragazzo lo stava di nuovo trafiggendo con gli occhi, ed Eddie non ebbe nulla da ribattere.

Senza preavviso, Rein puntò le gambe per arrivare con le braccia sino alla cavità dove nascondeva i suoi disegni. Prese qualche foglio, la tavoletta di legno e la matita, tornando a sedersi dov'era.

Si mise a scorrerli velocemente, sporcandoli di polvere con le mani. Alcuni erano vecchissimi e mangiucchiati dai tarli, e stette attento a non sbriciolarli ulteriormente. Rappresentavano paesaggi urbani e interni di luoghi abbandonati, e quasi tutti erano incompleti.

Rein alzò di nuovo lo sguardo su di lui. – Davvero ti piacciono? – gli chiese.

Eddie sorrise arricciando il naso. – Certo, perché no? Sono belli. Potresti anche provare a disegnare qualche volto umano. –

Rein scosse la testa, agitando le sue creazioni. – So solo riprodurre ciò che esiste già. Questi sono tutti posti di questo quartiere. Non saprei disegnare un paesaggio o un viso che non esiste. –

– Potresti disegnare me –, gli disse.

Rein lo guardò incredulo, incontrando la sua espressione sincera. Si passò una mano sulla faccia, scompigliandosi i capelli. – Non se ne parla. –

– Voglio solo vedere come viene. –

– No. –

– Non ne sei capace? –

– Non è per quello – disse Rein a denti stretti.

– E allora provaci. –

Rein strinse gli occhi e sbuffò, posando un foglio bianco sulla tavoletta di legno e impugnando la matita. Bingo, pensò Eddie. Sapeva che l'orgoglio era un punto debole di tutti i LaBo. Sorrise soddisfatto, stirando le braccia verso l'alto. Sentì le ossa delle spalle emettere un suono secco, e si sgranchì le articolazioni.

Nell'ombra di AntaresDove le storie prendono vita. Scoprilo ora