⁷⁵. 𝘙𝘪𝘴𝘤𝘩𝘪𝘰

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Il piccolo appartamento di Karàn aveva un odore simile a quello di una gabbia per criceti, in parte mascherato dal profumo della pizza che l'uomo aveva messo a stampare in cucina.

Saryu non entrava lì dai tempi del liceo, quando sua madre le aveva imposto di smettere di frequentare quel "figlio dei vicini" che aveva scelto di annegare in "cattive acque". Effettivamente, che lei sapesse Karàn era già stato in carcere diverse volte. Probabilmente aveva evitato una Conclusione forzata solo perché la Chiesa del Giudizio, occasionalmente, si serviva delle sue ottime abilità di chimico per sintetizzare farmaci non ortodossi.

Se ne stava appoggiata allo stipite della porta, col cappotto ancora addosso e uno sguardo corrucciato lanciato fuori dalla finestra. L'alloggio di Karàn era al nono piano, e da lì riusciva a scorgere ogni anfratto putrescente del quartiere in cui era cresciuta. La metro sospesa serpeggiava tra gli alti grattacieli, sferragliando a ogni frenata. Le case più vicine alle stazioni avevano un costo notevolmente più basso rispetto alle altre, e alcuni palazzi erano addirittura stati costruiti in modo da permettere ai treni di transitarvi attraverso. Ovviamente, nonostante fossero sospesi su un campo magnetico, il loro passaggio risultava tutt'altro che piacevole. Saryu rammentò lo sfarfallare delle luci nel loro monolocale, e i brividi di gelo dovuti alla corsa sfrenata delle carrozze zeppe di colletti bianchi.

Con quei ricordi a offuscarle la mente, fissò lo sguardo sull'uomo al centro della stanza, impegnato a frugare in una credenza straripante di boccette e fiale di ogni tipo. Saryu ebbe l'impressione che si stesse appigliando sin troppo a quei fragili scaffali, e per un momento si figurò un assordante fracasso di vetri infranti.

– Flutamide, hai detto.

Lei si rianimò, strizzando gli occhi. – Sì. E anche leuprorelina.

Karàn interruppe la propria ricerca, dubbioso. I suoi ricci bianchi oscillarono sulle sue spalle ossute, incastonate su una corporatura che svelava una lunga dipendenza da stupefacenti che, con tutta probabilità, l'uomo si produceva da sé.

– Assurdo che non vogliano vendertele – disse, voltandosi. Un dente gli traballò nell'arcata superiore. – Quei bastardi sanno essere molto bravi a spingere la gente all'illegalità.

– Già – gli disse, non sapendo cos'altro aggiungere.

L'uomo le rivolse un ultimo sguardo, rimettendosi a spulciare tra le boccette. Si piegò sui grossi scatoloni che costellavano il pavimento, affondandoci le mani e poi il viso.

– Comunque, non sapevo fossi sposata – continuò lui, con la voce attutita dal cartone.

Neanch'io, pensò lei. – Solo da qualche anno –, disse invece.

– Dev'essere stato un brutto colpo scoprire che era malato. Una vera fregatura, eh? – sghignazzò.

Lei lo guardò aggrottando la fronte. – Sin dove riuscirò, cercherò di curarlo. Dovessi spendere una fortuna – rispose, fintamente accorata.

L'uomo tirò su col naso, sorridendole di sghembo. – Brava ragazza. Sei una perla rara.

Lei ricambiò il suo flebile sorriso, rimanendo in silenzio. In cucina, il "bip" dello stampatore annunciò la fine della produzione dei tranci di pizza 3D. Nonostante il sapore non fosse il massimo, perlomeno l'odore si salvava.

Karàn si sollevò dalla sua posizione inginocchiata, e lei sentì le sue ossa schioccare. – Spengo lo stampo e torno.

– Va bene.

Saryu sperò che dalla propria postura non fosse visibile l'ansia che le stava stringendo le viscere, e che aumentava proporzionalmente a ogni minuto in più passato lontano dal Laboratorio e da Eddie. Eppure, era proprio per lui che si era invischiata in quella situazione, nascondendosi dietro l'ennesima menzogna.

Nell'ombra di AntaresDove le storie prendono vita. Scoprilo ora