Come si è stanziato il dolore?

604 42 11
                                    

Cheryl's pov
È possibile sentirsi intrappolati nella propria vita? Pensandoci è un argomento interessante, sul quale io stessa rifletterei scrivendo un paio di righe su quel quaderno che ormai è andato perso; ma è un argomento che avrebbe dovuto esistere nella mente di una bambina di undici anni?
Decisamente no. A quell'età dovresti voler talmente bene alla vita da abbracciarla non appena ne hai la occasione, eppure ho sempre visto la vita come una cosa concretizzata solo per far capire alle persone che ogni cosa che fanno non è un gioco ma la vita, un concetto così astratto da poter perdere la testa cercando di spiegarlo. Quel giorno, nella mia stanza, che è da sempre stata il mio rifugio, mi è stato tolto tutto. L'innocenza, i sogni e forse anche una piccola parte della vita. Da quel momento quella camera si è trasformata in una gabbia, i sogni in fiori appassiti e il vivere è passato da piacere a obbligo. Mentre sentivo la porta richiudersi, distesa supina sul letto, con addosso un odore che non apparteneva a me, sapevo che una volta alzata, non sarei più stata la stessa. Così ho deciso che la mia unica salvezza sarebbe stata ignorare.
Ignorare la macchia di sangue che macchiava le lenzuola del letto, ignorare il dolore atroce in mezzo alle gambe e la faccia di mia madre il giorno dopo, che sapeva ma restava comunque indifferente, come se non fossi veramente sua figlia ma uno spirito intrappolato in quella casa infestata da odio e crudeltà. Dopo quel giorno la presenza di mia madre e del mio patrigno iniziò a venire sempre meno. A volte non tornavano a casa per una settimana, altre volte per mesi ed io mi ritrovavo a dover in qualche modo portare avanti la mia esistenza, e c'è una differenza colossale tra il vivere e l'esistere. Non volevo chiedere aiuto a qualcuno perché ero sicura che se mia madre lo avesse scoperto, sarebbe stato decisamente peggio di doversi cucinare i pasti da sola, poi ho capito che in realtà mi stavano tenendo d'occhio nonostante tutto, forse perché anche loro avevano paura della polizia; lo capivo dai pacchi di cibo che arrivavano a intervalli regolari, ogni lunedì alle undici, pieni di cibo ma solo di quello necessario, niente dolci, niente che potesse far tornare un sorriso a quella bambina solitaria. Il fattorino, sempre lo stesso, non chiedeva mai nulla, metteva il pacco davanti la porta d'ingresso e si affrettava a sparire, consapevole di quello che stesse facendo, ma troppo codardo per disobbedire agli ordini e porre fine a quella situazione. Ho imparato a cucinare e a furia di bruciarmi ho iniziato a usare quei guanti che prima pensavo stessero in cucina per bellezza, perché chi mai li userebbe per fare qualcosa, ingombranti come sono? Con la cucina ho imparato anche che internet fosse un amico fedele per capire come funzioni la lavatrice e tutti gli elettrodomestici. Potrei dire che in quei sei anni (perché un anno prima del mio diciottesimo mia madre è tornata a New York a causa del divorzio con il suo amato marito), sono diventata l'ultima persona che avrei mai desiderato di essere. Rispondevo con sarcasmo o non rispondevo proprio, mai un briciolo di fiducia verso gli altri e con i sentimenti chiusi a chiave in un cassetto remoto della mia testa che ormai non avevo più voglia di aprire. Era come vivere dietro a un vetro, il mondo lo vedi comunque, però tutto perde vitalità e assume una tonalità completamente irrilevante. Quando poi mi sono finalmente trasferita lasciandomi quella casa alle spalle, il vetro si è fatto finalmente più fragile. Ci ho fatto una crepa dalla quale è iniziato ad entrare il sole, e quando il sole riesce a illuminare la tua strada ti senti più felice. Ed è in quel momento che avrei voluto aprire il vetro, però con il sole sarebbe entrato tutto il resto, perché esso non può esserci sempre e se al suo posto fosse entrato il vento, mentre era tutto spalancato, avrei potuto raffreddarmi e tutto sarebbe ricominciato da capo. Avrei voluto farci almeno una finestra per far entrare l'aria, però avrebbe filtrato le paure, quindi ci ho rinunciato. Ed è così che quel vetro è diventato la mia casa, quella vera, e non so quanti ci volessero entrare, o in quanti l'avessero amata o odiata, al di là delle apparenze. Si ha un mondo intero dentro di sé, eppure quanto di esso rimane inesplorato. Durante alcune interviste i giornalisti mi chiesero cosa direi alla me di dieci anni fa. Intendevano dal punto sportivo, questo è ovvio, ma a me veniva da pensare tutt'altro. Cosa direi alla me di dieci anni fa? Direi che avrei voluto trovare le forze per superare le umiliazioni subite da bambina e che oggi ci sono riuscita, nonostante il dolore continui a controllarmi in diverse circostanze. Mi direi che se non faccio un passo, quel passo, non riuscirò mai ad esplorare quella grandissima parte del mio mondo interiore ancora immersa nell'oscurità. Direi che vorrei davvero provare a fidarmi ma non ci riesco, neanche con i migliori propositi. Ed infine mi direi che il dolore non durerà per sempre e che non vale davvero la pena lasciare che si prenda il meglio di me, perché io sono ciò che manca nel mondo interiore in cui vivo e quello del quale non saprò mai la collocazione se non nei miei sogni; io sono quell'oggetto misterioso che mi serve per cercare la felicità e solo io sono l'arma che mi serve per sconfiggere il dolore, una volta per tutte.

How she destroyed meDove le storie prendono vita. Scoprilo ora