Chiuse in una stanza

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Nei giorni successivi al giorno di Natale, la zia Susan obbligò Misha a non uscire di casa.
Non poteva neanche uscire dalla camera senza permesso.
Se azzardava a farlo, la zia, prontamente, l'afferrava per un braccio, provocandole dei lividi, e la trascinava in camera.
< Non devi muoverti > urlava prima di chiudere la porta.
Infine la zia decise di chiuderla a chiave nella stanza non avendolo ancora fatto.

L'unica consolazione che aveva era il cellulare con la compagnia della fidanzata.
Ma qualcun altro l'aiutava portandole da mangiare; Julian.
Forse era vero che gli dispiaceva, ma aveva comunque il pensiero che la stesse prendendo il giro. Ma per quale motivo?

Columbia❤: Principessina tutto bene?
Misha: Si si
Disse semplicemente, era letteralmente più facile mentire per telefono, Columbia non vedeva la sua espressione triste e le poche lacrime che le scorrevano lungo il viso.
Aveva ancora lacrime, strano, pensava si fossero consumate per quanto piangeva e per quanto aveva pianto in passato.

Columbia❤: Ci vediamo oggi? È da un che non ti bacio.
Un altro messaggio da Columbia, altre lacrime che le impedivano di focalizzare bene quelle parole.
Gli occhi erano appannati, e per quanto, li stregasse e asciugasse erano costantemente pieni di lacrime e offuscati.
Quasi non vedeva al di là del suo naso.
Misha: No, oggi non posso
Rispose semplicemente sapendo di non poter portare avanti quella bugia, stava diventando troppo grande per lei.
Era stanca di mentire e far credere che quella famiglia con cui abitava l'amasse, perché in realtà lei si sentiva una perfetta estranea.
Un ospite.
Columbia❤: Tutto bene?
Chiese ad un tratto la fidanzata.
Anche se non poteva vedere l'espressione del suo viso, sapeva che non stava bene, era una strana sensazione; un sesto senso.
Misha non le rispose, non ce la faceva, sapeva che se avesse risposto molto probabilmente le avrebbe rivelato tutto.
Tutto il male che quella famiglia le procurava.

< Perché non te ne vai da questa casa? > domandò il suo subconscio che da alcuni minuti era comparso in quella stanza e che camminava avanti ed indietro sovrappensiero.
< Non posso > rispose poco convinta la più piccola.
Il suo subconscio, quella sconosciuta che assomigliava alla fidanzata, era diversa dalle altre volte, i capelli erano sempre tirati all'indietro, ma era vestita in modo molto più semplice.
Indossava una semplice maglietta a mezze maniche con topolino raffigurato davanti, e un jeans lungo nero.
La cosa più strana che pensava era il motivo della maglietta leggera in pieno inverno, non la sua pazzia che cresceva.
< Tu non vuoi, è diverso > replicò incrociando le braccia.
< Non è vero, sono bloccata, spiegami come faccio ad uscire di qui. > rispose arrabbiata Misha, ma l'altra, non ribatté, si girò solamente verso la finestra e sorrise.
Ma alla più piccola non le piaceva l'idea, non si sarebbe mai arrampicata sull'albero per poi scendere da quell'altezza.
< No > disse immediatamente scuotendo la testa.
< Si > ribatté l'altra.
< No. No > affermò più convinta.
< Sei impossibile > disse infine la sconosciuta prima di sedersi sulla poltrona.

Qualcuno, passando nel corridoio avanti alla porta della sua stanza, sentì Misha parlare, ma con chi?
Prese di corsa le chiavi ed aprì di scatto quella porta, trovando la ragazza sola seduta sul letto.
< Julian > disse guardando il ragazzo sorpreso.
< Ti... ti sentivo parlare, pensavo ci fosse qualcuno > rispose guardandosi in giro.
< No, sono sola con la mia malattia > disse acidamente la ragazza pensando alla definizione che la zia dà alla sua omosessualità.
< Non è una malattia la tua > rispose il cugino sedendosi accanto a lei.
< E allora perché sono rinchiusa qui da quattro giorni? > Misha era arrabbiata, forse addirittura furiosa ma nel contempo triste perché non le piaceva essere trattata come un animale da circo, chiusa in gabbia.
< È come se mia madre avesse paura di qualcosa > rispose pensieroso.
< Che possa contaggiarla? > ribatté, ma questa volta Julian non rispose, abbassò il capo semplicemente.
Dopo un paio di minuti in silenzio
< Mi aiuteresti ad andarmene di qui? > chiese Misha speranzosa.
Preferiva riuscire ad andarsene da quella casa dalla porta non arrampicandosi giù per l'albero.
< E dove vorresti andare? > domandò incuriosito.
< Da... da Columbia. Columbia Harbot. > rispose un pó intimorita.
Ma il cugino non disse nulla, si alzò dal letto e si avvicinò alla porta della sua stanza.
< A mezzanotte. > disse voltandosi, ma Misha non capì.
< Apriró la porta a mezzanotte, meglio che tu sia pronta, non so se avrai molto tempo > continuò uscendo e chiudendo la porta a chiave.
< Grazie > provò a dire ma era già troppo tardi.
Non perse tempo, scattò letteralmente dal letto e iniziò a prepararsi.
Prese un borsone grande, lo stesso che usò la prima volta quando si trasferì dagli zii, e ci mise le sue cose dentro.
Non aveva molti vestiti, soprattutto perché quando gli zii l'andarono a prendere a New York, non le fecero portare nulla, solo un paio di maglie, alcuni vestiti e delle scarpe.
Le lasciarono tutto, dal computer al cellulare e soprattutto le foto che aveva con i suoi genitori.
Quindi poté portarsi solo quelle poche cose che rappresentavano l'essenziale, poi aspettò.

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