10 - 29 Aprile.

67 24 0
                                    






E vorrei dirti che mi dispiace
Ma non ti chiederò di restare qui adesso...
-Male, NASKA.



-Male, NASKA

Oops! Questa immagine non segue le nostre linee guida sui contenuti. Per continuare la pubblicazione, provare a rimuoverlo o caricare un altro.





🌑



Che cosa avevo fatto?
Avevo permesso che vedesse quella parte di me. Non la mostravo mai a nessuno, neanche a Shawn, che era stato l'unico ad avvicinarsi.
Lo aveva notato, quindi?
Io non avevo chiesto, ma lui aveva capito che ne avevo bisogno? Perché era tutto così dannatamente complicato? E come potevo fare, a uscirne? Come si trovava la luce in fondo al tunnel, che si era trasformato in un labirinto di cui io ero vittima, intrappolata senza via di scampo?
Non dovevo dipendere da nessuno, era un giuramento fatto a me stessa, dopo aver fatto a pezzi il mio corpo.













Era stato, forse, il giorno peggiore di sempre.
I lividi si erano spinti a galla e l'impatto dei pugni mi aveva traumatizzata. Avevi solo quindici anni, Beth, eri una bambina.
Ricordavo, come se fosse successo ieri, che avevo messo un piede davanti all'altro con il solo sostegno di me stessa.
Non c'era nessuno in casa.
Nessuno che poteva vedere quello che mi aveva fatto.
Odiai più Elizabeth, quel giorno, che lui.
L'artefice di tutto che la passava sempre liscia solo perché mi ostinavo a negare e a nascondere tutto. Quindi la ritenevo anche colpa mia.
Avevo preso la prima cosa affilata che mi ero trovata per le mani, e un segno dopo l'altro avevo reso le mie cosce e i miei polsi una colata di sangue scuro e devastante come lo erano i miei pensieri.
Mi sentivo totalmente diversa.
Ero stanca e ogni singolo respiro emesso pesava tremendamente tanto, ma neanche una volta avevo pensato di farla finita. Così avevo lasciato la presa sul coltello, e il rumore della caduta mi si era impresso in testa come nient'altro al mondo.
Era il giorno in cui ero morta, e nessuno era più riuscito a riportarmi in vita.
    Il rumore aveva colto l'attenzione di Shawn, che stava andando in camera sua dopo aver rincasato dall'accademia, ma si era fermato.
Si era preoccupato, e aveva aperto la porta.
Le lacrime sulle sue guance erano un altro dei dettagli che non se ne andavano mai dal ricordo di quel giorno.

























Non lo avevo mai chiesto, ma anche dopo anni, volevo sapere cosa avevo provocato in lui. Cosa aveva pensato in quell'istante, mentre ero seduta sul pavimento e il sangue macchiava la mia maglietta larga, il pavimento e le nostre menti?
Frammenti di mio fratello che si avvicinava, sovrapposti al mio corpo ricoperto di sangue. Mi aveva presa con tutta la delicatezza che poteva, dato lo shock, e mi aveva portata dentro la vasca. Il getto d'acqua fredda mi scivolava ancora addosso, lento e piacevole.
Mentre mi stava ripulendo, aveva preso il telefono, aveva chiamato sia mamma che papà. Avevano la stessa paura sulla faccia e non avevo mai visto papà piangere prima di allora.
   «Perché lo hai fatto, piccola?» aveva domandato la mamma, che se ne stava inginocchiata dietro la vasca, alle mie spalle.
Ma io non ero riuscita a rispondere, gli occhi aperti a stento e il sudore freddo sulla fronte.
Volevo solo cadere nella peggiore delle torture, in quel momento. Soffrire di più, lasciarmi graffiare dall'interno e trovare nient'altro che la mia anima a brandelli. Avevo percepito, lentamente e profondamente, ogni piccola parte di me abbandonarmi.
Non sentivo più le mani,
la testa,
le gambe.
Non sentivo più il cuore.
   Il respiro faticava e si bloccava in gola, tesa perché tenevano la mia testa all'indietro. Ogni parte del corpo bruciava ed era indolenzita nello stesso momento. Non sentivo le dita così come non sentivo più la vita scorrermi dentro.

















Mi svegliai di soprassalto, con i capelli appiccicati alle tempie, e sul collo. Avevo sognato il 29 aprile, avevo vissuto di nuovo quell'incubo in un momento vulnerabile.
Non riuscivo a regolarizzare il respiro.
Mi riempii d'acqua e raggiunsi il bagno per lavarmi la faccia. Guardai il mio riflesso allo specchio: gli occhi erano già rossi e gonfi per il pianto.
Non era il 29 aprile. Eravamo ad ottobre, Ottobre.
Così tanti anni dopo eppure nella stessa vita.
Mi costrinsi a tornare a letto e chiudere gli occhi. Sapevo che non avrei più sognato nulla, e non avrei neanche ripreso sonno, e sperai con tutta me stessa che non tornasse. Non lo avrei retto e l'autolesionismo avrebbe preso il sopravvento sul mio corpo senza ascoltare le mie inutili proteste.
Sapevo benissimo che tutto tornava.
Il karma era reale, ma tornava sempre dalla parte sbagliata.

Avevo bisogno della luce in fondo al tunnel.
Il fondo al labirinto.
La bramavo, dovevo trovarla.
Non sarei sopravvissuta ancora per molto in quelle condizioni, non con quei ricordi.
E pensieri. Soprattutto con quei pensieri.

Grunge, karma, angel. (In revisione)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora