22. Simone

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Perché non gliel'ho detto?

Mi ero ripromesso di dirglielo ad ogni costo, invece quando mi ha messo la mano in faccia non ho capito più niente e mi ha mandato in pappa il cervello. Ho potuto vedere il dolore nei suoi occhi, so che era preoccupata per me, ma non posso lasciarmi andare, non prima di averla tirata fuori da quella storia insulsa con Ferrara. Non prima di aver deciso cosa fare di ciò che ho appreso oggi. Così ho fatto quello che so fare meglio: sono fuggito.

A casa ho recuperato Filippo e mi sono dovuto sorbire venti minuti di ramanzina da Rita, la nostra vicina, quando ha visto la mia guancia gonfia. Io non sono "quello che fa le risse", non faccio a botte, quindi tutti si prodigano per cercare di capire cosa mi sia passato per la testa. Se solo sapessero la verità!

Il mio fratellino mi guarda incuriosito dal basso.

«Hai fatto un combattimento clandestino?»

Sbotto in una risata fragorosa che mi sconquassa il petto. «E tu che ne sai dei combattimenti clandestini?»

«Ne so abbastanza!» Incrocia le braccia al petto, quasi offeso.

«Chi te ne avrebbe parlato?» Lo guardo con aria di sfida.

«Papà.»

Strabuzzo gli occhi, poi scuoto la testa e non aspetto oltre. Giro la chiave nella serratura ed entriamo in casa, se così si può chiamare. Topaia sarebbe più corretto.

Spalanco le finestre per far cambiare l'aria, visto che c'è un odore stantio di alcol e di chissà cos'altro. Il tempo di lavarci le mani e di cominciare ad apparecchiare, che nostro padre si trascina verso di noi come uno zombie.

«E così hai raccontato al tuo figlio di dieci anni che esistono i combattimenti clandestini?» Esordisco io, con tono calmo, tirando fuori dal frigorifero un incarto di prosciutto cotto e un pezzo di formaggio.

«È grande abbastanza per capire che il mondo è pieno di pericoli.»

Scuoto la testa più volte e afferro un filone di pane dalla credenza.

«Simone ha fatto un combattimento clandestino oggi!» Esordisce mio fratello con voce squillante. Nello stesso momento mi giro verso il tavolo per poggiare l'incarto del pane e noto gli occhi di mio padre spalancarsi.

«Che cazzo hai combinato?»

Scrollo le spalle. «Niente.»

«Quindi metterti a fare a botte è "niente"?» Inarca un sopracciglio e mi fissa.

«Che c'è? Non te n'è mai importato niente di me, non è che una guancia gonfia cambi qualcosa!»

«Fa' come ti pare!»

Afferra la giacca e, senza neanche salutare, esce sbattendo rumorosamente la porta.

Filippo mi guarda con aria dispiaciuta. «Scusa, non dovevo dirglielo...»

«Non è colpa tua, pulce. Lascia stare.» Con un gesto veloce della mano gli arruffo i capelli e distendo le labbra in un sorriso. Sono calmo e tranquillo perché ormai ho fatto l'abitudine agli scatti di mio padre e i suoi giudizi non mi fanno né caldo né freddo.

Mangiamo un panino al volo e aiuto Filippo con metà dei suoi compiti, poi crolla addormentato sul suo letto e lo lascio stare per un po', concentrandomi sul mio studio. Apro il libro di Storia dell'Arte e mi soffermo sulla statua di Apollo e Dafne. È semplicemente incredibile che il Bernini abbia iniziato questa scultura quando era poco più grande di me. Certo, in alcune parti si è fatto aiutare da uno scultore della sua scuola, in particolare per quanto riguarda i rami e le foglie. Ma rappresenta, secondo me, una delle sue opere più belle. Il dinamismo che racchiude in due sole figure è incredibile. Le espressioni così naturali e realistiche, lo slancio di Dafne che cerca di sfuggire dalle grinfie del dio, la sua invocazione al padre e la rinuncia al suo corpo, per preservarlo da Apollo e trasformarlo in qualcosa di eterno: l'alloro che per il dio sarà sempre sacro, simbolo di gloria, vittoria e onore.

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