Capitolo 3

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La sveglia risuona rumorosa tra le quattro pareti della mia stanza.

Con un grugnito allungo il braccio verso il comodino e clicco sull'icona di spegnimento. Porto l'altro braccio sopra gli occhi e sbuffo sonoramente; mi si prospetta davanti una nuova settimana impegnativa di lavoro.

Lo studio legale presso il quale lavoro è lo stesso dove ho eseguito i miei anni di tirocinio durante il college. Anche se mi sono trovata sempre bene, tranne la parentesi del signor Scott, gli orari di lavoro non sono mai quelli concordati a inizio mese.

Tutti sappiamo che la giornata inizia alle 8.30 spaccate, ma nessuno davvero sa quando lascerà il proprio ufficio o smetterà di gironzolare per la città su taxi andando ad incontrare clienti vari.

Non raramente mi è capitato di abbandonare la mia comoda sedia in pelle in ufficio a notte inoltrata, spesso con il naso perso dentro centinaia di documenti archiviati, che avevo passato un pomeriggio intero a ripescare.

Dopo un breve massaggio agli occhi finalmente mi alzo dal mio comodo letto, accendo l'umidificatore d'aria e poi rimetto a posto il morbido piumone bianco che ricopre il materasso.

La mia stanza non è molto cambiata dal giorno in cui mi sono trasferita qua sette anni fa. Il proprietario ci ha sempre severamente vietato di riverniciare le pareti, quindi ogni singola stanza dell'appartamento è di un triste bianco che ricorda i cataloghi di mobilia.
La mia piccola camera è quasi interamente occupata dal grande letto matrimoniale che ne occupa il centro, davanti ad esso è posizionata una piccola scrivania con una sedia girevole e delle scartoffie a decorarla.

Sopra alla scrivania si apre una bella finestra che mi rende la vista gioiosa di Washington Square Park, col suo arco bianco, l'immensa fontana centrale e le centinaia di persone che già alle sette del mattino la percorrono indaffarate.

Alla sinistra del letto, a ridosso della parete, si trova un lungo armadio bianco, detentore fedele delle mie divise da ufficio. Lo apro tirando fuori un tailleur con gonna bianco, i delicati bottoni perla e oro lo rendono elegante e sofisticato.

Poi corro in bagno, talmente piccolo da contenere solo l'essenziale e una mini doccia, dove finisco di prepararmi per questo nuovo lunedì di lavoro. Dopo essermi assicurata bene i capelli in uno chignon basso, con l'aiuto di un po' di gel, mi passo un velo di trucco, giusto per sembrare più in vita di quanto non sia in realtà.

Dopodiché torno in camera per recuperare la mia fedelissima valigetta in pelle marrone e un paio di tacchi comodi. Lancio un veloce sguardo alle quattro familiari mura e tiro un sospiro; non è davvero cambiato niente in questa stanza negli ultimi sette anni.

Forse dovrei rinnovarla, comprare un nuovo armadio e un nuovo letto, magari per non sentire l'impossibilità fisica di invitare qualcuno a casa mia per passare una serata insieme.

Ci ho provato, davvero, ho tentato di portare dei ragazzi qua negli ultimi anni, ma ogni volta che stavo per dare l'indirizzo al tassista mi tornavano in mente le immagini di Conrad, leggermente sudato, con la maglietta bianca attaccata alla schiena, ricurvo per terra a montare insieme la struttura del letto.

Per non parlare di tutte le notti che abbiamo passato qui, avvinghiati l'uno all'altra, beandoci del calore dei nostri corpi nelle notti invernali dopo le sue partite di trasferta a New York. Chiudo gli occhi strizzandoli ed esalo un profondo respiro.

No, basta, non devo più pensarci. Aver risentito il suo nome ieri sera in televisione mi ha fatta ricadere in una spirale dalla quale pensavo di essere fuggita. Conrad Anderson non è più nella mia vita da cinque anni, e come lui è andato avanti rifacendosi una vita, così dovrei fare anch'io.

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