Capitolo 13

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3 dicembre di 6 anni fa

Giro la stanza mordendomi insistentemente un'unghia, fino a farla sanguinare. Riprendo il cellulare che ho abbandonato meno di un minuto fa sulla mia scrivania, pigiando di nuovo sullo schermo per vedere se mi è arrivata una notifica.

Niente. L'unica cosa che vedo è la foto del mio blocco schermo scattata due mesi fa, che ritrae Conrad e me sorridenti, lui ha le sue braccia attorno a me, la testa appoggiata sulla mia.

Vorrei provare rabbia, pura e rossa rabbia, ma al momento sento solo il panico attravversarmi le vene.

"Hai bisogno di qualcosa, Bee?" Avery si affaccia alla porta della mia stanza, dietro di lei riesco a vedere Daniel in pigiama, seduto sul divano.

"No, Ave, grazie." Le rispondo riniziando a torturarmi un'altra unghia.

"Ancora non ti ha richiamato?" Riprova lei, facendo un passo insicuro nella mia camera.

"No, e mi sta mandando nel panico! Se non mi risponde entro un'ora inizio a chiamare tutti gli ospedali di New York." Recupero subito il cellulare per segnarmi una lista degli ospedali della Grande Mela, dove Conrad potrebbe essere ricoverato se gli fosse successo qualcosa.

"Bee, hai pensato all'idea che ti abbia dato buca?" Mi serve del tempo per ricompormi prima di poter alzare lo sguardo sul volto di Avery.

Ovvio che ci abbia pensato, perché purtroppo non sarebbe la prima volta. Già a febbraio non ci eravamo potuti vedere perché il suo coach gli aveva revocato il permesso. Ci ero rimasta male, sarebbe stato strano il contrario, ma non gliene avevo fatto una colpa, non era dipeso da lui.

Poi era arrivata l'estate, dove, mentre io avevo avuto mesi interi di pausa dallo studio e dalle responsabilità, lui aveva dovuto continuare gli allenamenti in Ohio. Aveva avuto solo una settimana di vacanza in tutta l'estate, che avevamo trascorso insieme a Medford, nei momenti che non passavamo con i nostri genitori e le vecchie conoscenze.

Sapevo che sarebbe stata difficile, era stato chiaro fin dall'inizio del primo semestre lo scorso anno, ma a questo punto non ero così più sicura di riuscire a sopportarlo senza soffrire troppo. Mi era già capitato di addormentarmi qualche sera piangendo davanti a una nostra foto, l'unico desiderio nella mia mente quello di poter passare del tempo insieme, che non fossero dei giorni rubati in qua e là, come due amanti clandestini.

Questa situazione mi stava stretta già da qualche mese, non perché il mio amore per lui si fosse affievolito, ma perché volevo viverlo di più, come due fidanzati normali, come vedevo fare a tutti i miei amici. Non ce la facevo più a dovergli scrivere un messaggio per sapere quando ci saremmo potuti telefonare, dover aspettare settimane intere per risentire il suo tocco, non poter condividere di persona i momenti importanti che stavamo vivendo sotto un punto di vista professionale.

Chiunque mi abbia mai conosciuta sa che non mi sono mai interessate le partite di football, ma da quando sto con Conrad non voglio perdermi neanche una sua partita. Quando corre sul campo, preparando schemi su schemi di gioco per i suoi compagni, sono completamente rapita da lui e sento il bisogno e il desiderio di essergli vicina in attimi che so essere per lui importanti.

Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato lo scorso mese, quando Conrad si è dimenticato il nostro appuntamento a New York. Doveva essere uno dei nostri soliti incontri, lui doveva arrivare qui il venerdì sera, passare il weekend, dato che non aveva partite quel fine settimana, e poi ripartire la domenica pomeriggio.

Mentre io non ero riuscita a pensare ad altro per tutto il mese, tanto da arrivare a comprare quelle che sapevo essere la sua marca di caffè e biscotti preferiti al mattino, lui mi aveva scritto un messaggio la mattina del venerdì per scusarsi. Non si era neanche degnato di chiamarmi.

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