1. New House New Memories?

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Due anni dopo

L'uomo è straordinariamente, appassionatamente innamorato della sofferenza.
La sofferenza e il dolore sono sempre doverosi per una coscienza vasta e un cuore profondo.

Rimasi lì a fissare quella frase sottolineata a matita, un frammento di un libro vecchio e polveroso che solo pochi istanti prima giaceva abbandonato, buttato come se fosse uno straccio vecchio, dentro uno scatolone posto sopra la sua scrivania, coperta anch'essa da uno strato di polvere molto spesso, quasi a voler custodire gelosamente i segreti che vi si nascondevano.

Mi guardai attorno, nulla in quella stanza mi era familiare, e la cosa non mi faceva il minimo effetto, era come se fossi avvolta in un'apatia ovattata, che attutiva qualsiasi emozione.

Quella stanza io non la conoscevo, ero stata catapultata in nuova città, in cui avevo passato tutta la mia infanzia, in un appartamento che non avevo mai visto prima, dove avevo passato quindici anni della mia vita, e che adesso visitavo per la prima volta.

Avevo lasciato la mia casa a New york per trasferirmi in un appartamento nel centro di Liverpool, e adesso mi ritrovavo in un trilocale lasciatomi in eredità da mia madre che, in conseguenza alla sua morte, apparteneva a me.

Ero stata al suo funerale senza sapere neanche il suo nome, avevo consolato una bambina che piangeva sua madre, senza sapere neanche che fosse sua figlia.
A dire la verità non conoscevo neanche il mio di nome, all'epoca, non sapevo chi fossi, o cosa diavolo fosse successo, ma sapevo solo che tutto quello era colpa mia, che io avevo causato tutto quello sconforto e quel dolore, solo che non sapevo perché.

«Tesoro.»

Una voce maschile, stanca e affannata, forse dovuto dall'aver scaricato tutti quegli scatoloni al terzo piano di un palazzo che non aveva neanche un ascensore, mi chiamò.
Non mi voltai, rimasi con gli occhi incollati su quel libro, accarezzando, con la punta delle dita, la sua copertina.
Potevo, però, sentire i suo passi avvicinarsi a me, il pavimento scricchiolava sotto il suo peso, mentre strascinava i piedi nel legno del pavimento in parquet.

«Delitto e castigo di Dostoevskij, era il suo preferito.»

Un'amara malinconia si poteva leggere nel tono della sua voce, una malinconia, che per qualche motivo, mi lacerava il cuore.
Quegli occhi erano lo specchio della sofferenza e io non potevo fare altro se non stare lì a guardare, impotente.

Alzai gli occhi per guardare meglio l'uomo accanto a me;
Aveva una folta barba bianca e gli occhi stanchi, desiderosi di chiudersi per una pausa, stanchezza causata da un viaggio che durò la bellezza di quattro ore.

«E' un bel libro, sembra molto profondo.»

Commentai, poggiandolo all'interno dello scatolone che avevo trovato in quella stanza, insieme a tanti altri libri, abbandonati.

Tutto lì dentro era stato lasciato a prendere polvere per ben quattro anni, senza nessuno che venisse a dare una spolverata.

«Lo hai letto durante il viaggio?»

Mi domandò l'uomo incuriosito.
Scossi la testa, non ero un appassionata della lettura, ma quel libro era stato come una calamita per me, come se mi stesse pregando, silenziosamente, di aprire una pagina e leggerne una riga.

«No, stavo solo dando una sbirciata e mi sono imbattuta in alcuni scatoloni che erano già qui.».

«Ho letto poche righe ma mi ha dato una strana sensazione, non l'avevo mai provata prima, come se avessi... Nostalgia di qualcosa, ma non so cosa.»

L'uomo, per qualche motivo, sorrise.
Rimasi lì, a fissare le labbra piegate all'insù e le increspature che si erano formate all'angolo dei suoi occhi verdi.

«Grazie per l'aiuto... Michael»

L'ultima frase la dissi un po' incerta, nonostante fossero passati anni da quel giorno, non riuscivo ad accettare il nostro grado di parentela, perché per me lui era ancora uno sconosciuto.
Il primo ricordo che avevo di lui era al funerale, mentre piangeva a dirotto per la morte di Heléna.

«Non devi ringraziarmi, tesoro, per qualsiasi cosa ci sono, anche se un po' più lontano.»

«Tua madre sarebbe felice di vederti qui, magari passato un di tempo nella casa in cui sei cresciuta, potrebbe aggiustarsi qualcosa.»

Quelle parole non mi rincuorarono, perché lo avevo accettato prima io di lui.
Lui aveva ancora un briciolo di speranza dentro di sé, solo per il semplice motivo che non riusciva ad accettare, forse per volere suo o, forse, per il semplice motivo che non era ancora pronto a farlo.

Non ero entusiasta di ricordare, perché se avessi iniziato a farlo, allora, avrei accumulato solo dolorosi ricordi.

Mi avvicinai a un altro scatolone corroso dal tempo, e presi in mano una foto, raffigurata c'era una donna, mi somigliava così tanto che quasi credetti di tenere in mano uno specchio;
Aveva folti capelli biondi e due occhi, blu come il mare.
Era stupenda, la donna più bella che avessi mai visto.

«Mi somiglia.»

Dissi, sussurrando, più a me stessa che all'uomo.
Lo sentii sospirare, un sospiro spezzato, come se stesse trattenendo delle lacrime.

Una morsa al petto mi colpì, leggera ma dolorosa come una coltellata in pieno petto.

Poggiai la foto sulla scrivania, in bella vista.
Accarezzai il suo viso attraverso quello strato sottile di vetro, l'unica cosa a dividere la punta delle mie dita alla carta di quella foto, l'unica cosa rimasta che avrei potuto toccare per il resto della mia vita al posto del suo viso.

«Questo era il suo ufficio.»

«Lei era una psichiatra, ed era anche molto brava nel suo lavoro, la più brava di tutto il paese.»

Nella foto si potevano vedere i suoi occhi stanchi, sicuramente reduce da una lunga giornata di lavoro.
Indossava ancora il camice.
Accanto a lei c'era un uomo, era Michael, solo con qualche capello bianco in meno e con molta più voglia di ridere.
Sembravano felici in quella foto degli anni settanta.

«Se lo vuoi puoi tenerlo.»

Lo guardi confusa.

«Il libro intendo, se vuoi leggerlo...»

«Oh, no, leggere mi fa venire mal di testa.»

«Anzi, puoi portarti via qualcosa, se vuoi.»

Dissi, un po' titubante.

Quella conversazione aveva preso una piega che non mi piaceva affatto, l'aria aveva iniziato a farsi sempre più pesante e lo odiavo perché io avevo accettato di vivere in quella casa solo per avere un briciolo di pace e tranquillità.

L'uomo annuì lentamente, aveva assunto un'espressione stupita, come se non si aspettasse quella risposta da me.

«Adesso vado a vedere la mia stanza, se non ti dispiace.»

«Assolutamente, vai pure tesoro.»

Percorsi a grandi falcate la stanza, diretta verso la porta e desiderosa di uscire.
L'aria era diventata pesante, non riuscivo più a respirare.

Mi sorprese la velocità con cui deviò l'argomento, quando iniziammo a parlare di quella foto, mi chiesi cosa gli passasse per la testa.

«Ah, Theia.»

Mi chiamò.

«Ben tornata a casa.»

Ignorai quelle parole, che pesavano troppo nel mio cuore, e uscii nel corridoio, chiudendomi la porta di quell'ufficio alle spalle.

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