11. The Pandora's Box

4 2 0
                                    

Caro papà,
recentemente ti è capitato di chiedermi perché affermo di avere paura di te.
Come al solito non ho saputo risponderti, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché motivare questa paura richiederebbe troppi particolari, più di quanti riuscirei a riunire in qualche modo in un discorso.

Quelle parole di Franz Kafka mi erano rimaste impresse nella mente dal momento in cui avevo aperto quel libro; Lettera al padre.

Avevo diciassette anni, stavo nell'appartamento che quell'uomo aveva comprato da poco, mi trovavo precisamente nel balcone, seduta su una sedia in metallo da esterni, era notte e avevo una sigaretta accesa tra le dita, mentre il vento di luglio mi scombinava i capelli.
Quella notte piangevo, come le notti precedenti e quelle che vennero dopo, e da quando mi ero trasferita a New York non era cambiato niente.
Ogni sera le lacrime iniziavano ascendere, come se l'avessi impostato nel mio cervello.

L'unica fonte di luce che avevo era una lampada accanto alla sedia, ma la spensi appena lessi le prime otto righe, desiderosa di sparire dall'inquietudine che mi aveva ferita, chiedendomi come fosse possibile che un libro potesse rispecchiare in maniera tanto dettagliata quella parte di me.
Quelle parole erano le stesse che io pensavo su mio padre ma non riuscivo mai a esternare.
Quel libro toccava tasti dolenti, specialmente in quel momento, dove la tragedia aveva avuto atto poco più di un anno prima.
Mi sentivo esposta.

Un anno e due mesi prima io persi tutta la stima in un uomo che un tempo chiamavo papà.

Era ancora lì, il libro, in quell'appartamento, nello stesso scaffale dove lo avevo lasciato con l'intenzione di non aprirlo mai più, sperando che un giorno mi sarei dimenticata della sua esistenza, ma non ci riuscivo.

Era come se vivessi in ritardo rispetto a tutte le persone che mi circondavano, per tutte s'intende Damian ed Eris.
Il mio mondo girava una traiettoria opposta a quella solita della terra, e, al posto di andare avanti, andava indietro.

Uscivo di casa e camminavo all'indietro rispetto agli altri perché era lì che si trovava la mia mente.
Io vivevo costantemente con ricordi del passato.

Prendevo come veniva il presente purché potessi avere una visuale netta di quello che era già venuto, senza però abbandonarlo.
Perché se lo avessi fatto pensavo che sarei crollata una volta emerso tutto quello che mi ero persa solo per il mio egoismo.

Era così che mi definivo, egoista, perché per me la sofferenza era qualcosa che conoscevo soltanto io, nessuno avrebbe potuto capirmi.

Per me nessuno lavorava più di me.

Per me nessuno viveva peggio di quanto facessi io.

ma io ero tutt'altro, anche se non ne ero fermamente convinta, anzi, era piuttosto debole come credenza, specialmente per me che non sapevo ancora chi fossi.
Per me l'essere convinta di qualcosa era raro, specialmente se si trattava di una parte di me.

Per quanto possa sembrare strano, io non mi conoscevo affatto;

Non sapevo cosa mi facesse stare bene, o male.

Non sapevo cosa mi piacesse, perché dopo un po' iniziavo a odiare qualsiasi cosa, solo che, dopo aver passato del tempo senza quella determinata cosa, tornavo di nuovo ad amarla.
Forse era quello che era successo tra me e Ivan, prima lo amavo, in quel momento lo odiavo, poi passato un po' di tempo senza di lui avrei ricominciato ad amarlo.

La Bellezza Dei RicordiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora