Sedici, o la Bellezza.

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Scosso dagli spasmi, Desmond vomitò nel secchio che in modo provvidenziale gli era capitato tra le mani.

«...esincronizzato,» sentì, prima che l'odore acido che giungeva alle sue narici lo costringesse a piegarsi in un altro conato, «guarda che è pericoloso!»

Nel timore di un'altra stretta allo stomaco, Desmond cominciò a cercare di regolarizzare il respiro, concentrandosi sul metallo liscio e freddo che aveva sotto i palmi. Si accorse molto presto di non esserne in grado, che l'aria arrivava ai suoi polmoni a fatica e che il suo respiro, affannato, fischiava. Sentì gli occhi spinti fuori dalle orbite e, quando provò a sbattere le palpebre, la sensazione di una ciste che premeva tra l'una e l'altra.

Sentiva la Mela dell'Eden piantata sulla fronte, ed era così pesante che la testa gli cadeva in avanti. Qualcuno gli impedì di crollare.

«Desmond, sei tra i vivi?»

Il suo stomaco non aveva più nulla da buttare fuori. Dalle labbra gli uscì un denso filo di saliva dal sapore acido, che scivolò lentamente dentro al secchio.

«Desmond!»

L'Assassino serrò gli occhi con violenza e deglutì a fatica. Sentì partire dagli zigomi un dolore che corse attraverso ogni suo nervo. Ebbe paura che il cuore gli smettesse di battere.

Ezio spalancò gli occhi scuri, di nuovo accecati dalla luce d'oro che Cogni aveva evocato con quello strumento del demonio. C'era sempre silenzio attorno a lui. Poggiava i piedi su qualcosa di morbido.

Il fulgore bianco cominciò a scemare dalle sue cornee, come sabbia che viene spazzata via dal vento. Rimasero solo sparsi granelli di luce ai margini della sua vista.

A terra c'era un tappeto di petali vermigli di rosa, impolverati dalla terra dell'arena. Ezio si guardò attorno e vide l'antico teatro romano; il pubblico sedeva sulle gradinate e un coro di donne era allineato sul proscenio. In piedi davanti alla prima fila, l'Assassino le osservò aprire e chiudere la bocca in un canto muto come il dolore di sua madre.

Spaesato, tentò di cercare tra il pubblico qualcuno che conosceva, ma le facce non avevano volto; non avevano voce.

Al centro dell'allestimento, sotto una costante pioggia di fiori, c'era un altro trono su cui immobile sedeva Lorenzo de' Medici, ovvero una sua statua tanto somigliante da sembrare di carne, lui a causa della distanza non lo poteva distinguere.

Alle sue spalle giaceva il relitto del carro che aveva portato in trionfo dame e poeti al Calendimaggio. I pezzi di legno frastagliati e bruciati sembravano essere stati colpiti dai fulmini.

Mentre la mente dell'Assassino tentava di sciogliere il mistero di quell'allegoria, una donna di fulgida bellezza fece il suo ingresso in scena per dialogare col coro. Il suo incedere era quello di una dea, e tra i capelli bruni trattenuti da un fermaglio d'oro il suo volto era rigato da lacrime nere di bistro.

Ilio crolla divorata dal fuoco; l'ho appiccato io, quel fuoco, il mio nome significa rovina.

Le sue labbra perfettamente disegnate continuarono a muoversi, ma Ezio non riuscì a capire le altre parole che si dissero, pronunciate in una lingua antica.

Non capiva se quella donna fosse carne o fumo.

Spostò un piede, spazzando via alcuni petali, poi alzò gli occhi su Lorenzo.

Era fermo, come il resto della scena. Elena con le braccia larghe e le pieghe della veste che le marcavano il seno, il coro che compativa le sue sofferenze, il moto di caduta delle rose che si era arrestato prima di raggiungere il suolo nell'aria senza un alito di vento, ogni cosa era congelata in quell'attimo.

Queste quiete stanze [AC2]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora