Venti, o le Selve.

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1478, 13 maggio.
Lemuria, terzo giorno.

Le foglie larghe delle viti, lasciate potate a metà sui filari, raccoglievano i raggi d'oro del meriggio. Un giovane, in piedi su uno sgabello di legno, mescolava con un lungo bastone la pastura dei maiali.

Le cicale avevano cominciato a frinire e non avrebbero smesso fino al calare della sera.

Quando un cavallo, sbuffando e frustando con la coda, gli fece ombra e spinse le mosche verso il trogolo, lui voltò prima gli occhi e poi il viso. Interpose una mano tra sé e il sole per schermare gli occhi dalla luce, ma non riuscì a scorgere i lineamenti dell'uomo che era arrivato.

«Siete voi il Poliziano?» domandò. Simultaneamente, lui scese da cavallo e il ragazzo, dopo aver scacciato con il bastone uno dei suoi maiali, che si era avvicinato troppo al trogolo in cerca di cibo, saltò giù dallo sgabello.

Non più ostacolato dai raggi del sole, poté vedere le mani della persona che aveva davanti. Erano sottili, le nocche prive di segni, le unghie corte e senza nemmeno una sbeccatura o un'incrostazione. Indossava un anello d'oro, di una foggia che aveva visto solo le poche volte che era uscito dal suo tugurio per andare a portare le galline a Siena, al dito di mercanti coperti di stoffe pregiate. Alzò lo sguardo sul suo viso, rasato alla perfezione da una lama affilata: gli unici segni, lievi, della giovinezza che stava lasciando il passo a un'età più matura erano le rughe d'espressione ai lati della sua bocca. Di riflesso, il ragazzo si passò una mano sul volto: sentì le cicatrici che il vaiolo gli aveva lasciato sulle guance, poi la barba ispida che gli cresceva sotto al mento.

«Sì, dovete essere voi,» concluse. Era lui, piccolo e magro e di bile gialla come dicevano. Era lui: Piero gli aveva descritto alla perfezione i suoi begli occhi, lievemente divergenti a guardarli bene, e le sue ciglia. Ma questo non glielo disse.

Poliziano, ancora con le redini in pugno, guardava verso la campagna, osservava i maiali che strofinavano il grugno a terra. Uno di loro spezzò qualcosa di duro con i denti.

«Sei stato te a mandarmi a chiamare?» domandò dopo qualche istante. Aveva un atteggiamento distaccato, composto, ma non dava segno di essere disturbato da quel luogo fatiscente o dall'odore dello sterco.

«Sì».

«Qual è il tuo nome?»

Il ragazzo era tornato a mescolare il mangime per i porci. Un odore acre saliva dal trogolo.

«Cecco,» replicò lui. Fece una pausa e, staccata una mano dal bastone, si deterse con la manica la fronte, dove il sudore gli aveva appiccicato i capelli sottili. Guardò negli occhi Poliziano, senza dare segno di temerlo, prima di continuare: «Non pensavo che ci venivate da solo». Qualcosa nella mangiatoia attirò la sua attenzione, e lui riprese il suo lavoro. «Non pensavo neanche che ci venivate, a parlare con un pastore».

«E perché?» chiese il poeta, mentre muoveva un passo avanti.

«Fermo!» Cecco lo bloccò in tono perentorio, con una mano aperta tesa davanti a sé. Interdetto, Poliziano si immobilizzò e il ragazzo spiegò con voce più calma: «C'è la merda, lì per terra. Vi sporcate le scarpe».

Cecco volse gli occhi alla propria abitazione, in silenzio. Forse il Poliziano sapeva di cosa parlavano i contadini, ma lui mica sapeva di cosa parlavano i poeti. Guardò il tetto di legno: mezze travi gliele aveva bruciate un incendio l'anno prima, ed era stato costretto a ridurre le stanze in cui si poteva vivere. Poco male poiché, a parte ospiti occasionali, era rimasto l'unico vivo in quel posto.

Alzò l'indice e, con gli occhi socchiusi per la luce, lo puntò di fronte a sé.

«Io Piero lo conoscevo perché gli facevo usare il casolare,» spiegò. Il poeta lo ascoltava, e il vento che in quei giorni spazzava le campagne, e rapidamente faceva mutare le nubi, gli sollevò i capelli bruni. «Quando magari c'aveva un cliente che non si poteva portare in casa, o se magari uno voleva scopare, dico io, in modo un po' particolare. Scusate per come parlo, eh, Poliziano».

Queste quiete stanze [AC2]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora