LA GUERRA

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La guerra, per definizione è una lotta armata più o meno motivata da conflitti di interesse ideologico. La guerra è davvero questo, e lo può essere anche tra sé e sé.

- Cosa sta dicendo? – vi starete chiedendo; nella guerra si hanno avversari e armi.  Cosa può c'entrare tutto ciò con un singolo individuo? C'entra. Fidatevi.

Ogni giorno per me è una guerra. La mia guerra è cominciata quindici anni fa, costellata da battaglie più o meno ardue e tregue brevi ma intense. Per guerra intendo il sapere di vivere e coesistere con un disturbo dilaniante che lavora dentro di me. Lo sento sottopelle, nelle viscere, sul collo, nella testa. Mi ha dichiarato guerra e da quel giorno esatto, io non posso mai abbassare la guardia ovvero rilassarmi e svuotare la mente. Sono sempre pronta ad attaccare, sempre in bilico e se perdo lucidità ecco che la mia parte guerrigliera ovvero il mostro mi attacca silente e mi mette al tappeto. Quando capita questo, avvengono le cosiddette crisi dove devo ricorrere ad armi esterne per attraversarla. Così nella migliore delle ipotesi immergo la faccia in un catino pieno di acqua gelida e cubetti di ghiaccio, se mi va peggio invece mi spengo sigarette sulle braccia o bevo benzodiazepine come se non ci fosse un domani, (ci sarà?), o corro per produrre adrenalina. Queste sono alcune delle modalità. Quelle corrette le applico quando il mio angelo sulla terra - mio marito - è con me, quelle autolesive invece le metto in atto volentieri in solitudine.

Quando la guerra è al culmine arrivo alla sera stanca morta come se avessi corso centinaia di chilometri, perdipiù scalza e con una zavorra sulle spalle.

La giornata in trincea si svolge con i denti serrati e il corpo teso pronto a rispondere al mostro che incomincia martellante a propormi nella testa parole e numeri continuativi ed estenuanti. "...Fai schifo... datti i pugni in testa... guarda, quella merda per terra sei tu..."

Questo è solo un piccolo assaggio di quello che il disturbo "dice". Eppure, io non capisco dove si nutra di questa malvagità anche se sono certa che più io gli mostro le mie debolezze più lui ne fa tesoro per manipolarle e ripropormele ad alta intensità.

Ricordo un episodio che mi fece capire che o lottavo in guerra o vivevo connessa con la realtà; entrambe le cose non era più possibile farle.

Era il mese di maggio e già da mesi stavo male, e a scuola da studentessa modello, ero passata alla media del sei in quasi tutte le materie.

Quel giorno ero con la classe al quinto piano nell'aula delle verifiche dove tutti i banchi erano singoli per non consentire di copiare. Quella era la stanza più fredda della scuola poiché il monsignor Sana -nonché preside- diceva che il freddo faceva lavorare la mente mentre un tepore ci avrebbe ridotti a dei fannulloni. Non credevo in quella teoria e così facevo sempre le verifiche con il piumino addosso.

Quel giorno feci il compito di matematica e finii per prima, consegnai e uscii dall'aula. Ero preparata, avevo studiato e fatto molti esercizi. Avevo la media del nove in matematica prima del declino. Tornai a casa e nel primo pomeriggio suonò il telefono di casa: era il preside che convocava d'emergenza i miei genitori e me. Ricordo che in macchina mio padre me ne disse di tutti i colori.

"Se ti sei comportata da maleducata facciamo i conti a casa".

"Se ti bocciano vai a lavorare sono stanco di mantenerti".

Così in un clima a dir poco teso arrivammo alla porta della presidenza. Dopo i saluti di cortesia io e mia madre ci sedemmo sulle sedie rosse in velluto mentre mio padre stava ritto in piedi tra me e lei con le mani dietro la schiena.

-Cosa è questa? - domandò mia madre fissando il foglio che il preside le aveva messo sotto gli occhi, rompendo così il silenzio tombale.

Guardai il foglio sbigottita: quella era la verifica di matematica fatta la mattina stessa. La fissai e tutto il mio mondo si fermò sgretolandosi in mille pezzi. Sul foglio a quadretti al posto delle espressioni risolte c'erano parole e parolacce che quella mattina avevo sentito da parte della mia malattia durante la battaglia nella mia testa.

Era accaduto realmente, avevo lasciato che la penna mettesse nero su bianco le offese che la mia voce interna mi sussurrava. Non mi ero accorta di nulla; come era stato possibile?

Avevo una confusione in testa tale che scoppiai a piangere davanti a tutti, ero imbarazzata, spaesata, attonita, disperata.

Quella era davvero la mia verifica? Ero forse posseduta da qualche entità soprannaturale? Era uno scherzo organizzato dal preside?

Mentre pensavo a tutto ciò vedevo i miei genitori parlare con il preside ma non sentii nemmeno una sillaba.

Capii soltanto una cosa: da quel momento, quello che era considerato solo un malessere passeggero divenne concreto e palese: su quella verifica c'era il mio passo definitivo all'inferno.

Capii soltanto una cosa: da quel momento, quello che era considerato solo un malessere passeggero divenne concreto e palese: su quella verifica c'era il mio passo definitivo all'inferno

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