C'È UN PRIMA E UN PER SEMPRE

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Chissà come percepite questo titoletto. Penserete sia forte, insensato o troppo definitivo. Sì, avete ragione, ma ricordate?

O bianco o nero.

Della mia infanzia, come vi ho già anticipato, ricordo poco niente:  il nonno Ugo, la casa di montagna e la giostra di Alassio, ma ne parleremo in un altro momento.

Per Veronica c'è stato un prima, che è durato un tempo indefinito e che è terminato il giorno dell'accaduto di cui parlo nella lettera a mia madre. Quel giorno tutto il mondo perfetto nel quale ero stata modellata, incastonata come un diamante e plasmata si era sgretolato e la mia ingenuità e fanciullezza erano state per sempre sporcate da una verità per me terribilmente dolorosa. Dopo quel giorno ci fu una data che fu la netta conseguenza di quell'avvenimento, ovvero 16 novembre 2009, quando per la prima volta ho messo piede a Villa Santa Giuliana.
Non ero mai stata nella città di Romeo e Giulietta e a dire il vero ad oggi affermo che non avrei mai voluto vederla! Quel giorno eravamo io, mamma e papà che andavamo in visita alla Villa dove sarei stata ricoverata per un tempo non molto chiaro; forse una settimana, quindici giorni... in realtà saranno poi tre anni.  Arrivammo al cancello della clinica dopo un tornante di curve che portavano dalla città di Verona ad una zona collinare, verdeggiante e priva di abitazioni se non un grande santuario a ridosso di una di quelle infinite curve (in quel santuario mi rifugiai il dicembre dell'anno successivo quando scappai dalla clinica ma fui subito ripescata e portata dentro). Al cancello mia madre scese e suonò il citofono e in poco tempo una suora scorbutica, vestita di grigio venne ad aprire il cancello facendoci entrare in auto.
Scesa dall'auto mi guardai intorno e notai che c'era una struttura principale davanti a me e una serie di sentieri di ghiaia che conducevano ad altri poli e strutture che si vedevano in lontananza. Non sembrava un ospedale né un luogo di cura, era molto più simile a un posto lontano dal mondo dove quello che avveniva restava lì dentro e basta.
Alla mia sinistra, sotto un pergolato c'erano dei van, piccoli pulmini bianchi con la scritta Associazione Volontari.
Mai vista una cosa simile fino ad allora.
Salii tre gradini davanti a me e mi ritrovai in una sala d'attesa con le pareti giallastre, le luci al neon e le sedie in ecopelle scrostate; quel posto mi pareva essere stato estremamente vissuto.
La suora scorbutica, avvicinandosi a me e rivolgendosi scandendo una parola dopo l'altra, mi chiese di compilare dei moduli e io iniziai la pratica mentre mio padre stava dritto in piedi con le mani dietro la schiena e mia madre chiedeva dove fosse la toilette. Incominciai a leggere quei fogli: erano domande a risposta chiusa, una X per il SI o una X per il NO.
Notai subito che erano domande forti, domande intime, personali, non domande a cui rispondere seduta su una scomoda sedia di una sala d'aspetto, ma non feci storie e compilai frettolosamente per poi consegnare il tutto alla suora, che poi seppi chiamarsi Suor Lucia.
Mentre con la penna disegnavo le X mi rendevo conto che i miei erano quasi tutti SI: vuoi morire, ti senti sola, pensi cose che gli altri non vedono? ti fai del male? mangi e vomiti? Insomma, stavo dando una bella presentazione di me.

-Padiglione C, prego- Suor Lucia ci indicò l'uscio dando a mia madre una sorta di mappa. Iniziammo a camminare in direzione del padiglione C e in quel tragitto non potei pensare a nulla se non che somigliava al viale del cimitero di Bergamo. Si sentivano solo i nostri passi sulla ghiaia, nessuno dei tre parlava e il mio viso era umido dalle lacrime che inconsapevolmente mi scendevano. Era paura mista a tristezza profonda e chissà quale altro sentimento doloroso.

Arrivati al padiglione suonammo un altro citofono ed ecco questa volta comparire un'infermiera, Valentina, cicciottella e dai corti capelli bruni.

Entrammo. Da quel momento il PRIMA era terminato. Non si sarebbe più tornati indietro da quelle sensazioni, quelle palpitazioni, quell'odore insopportabile, quegli sguardi distrutti, quei muri intonsi di sofferenza, quegli scricchiolii, quei colori asettici, quelle dannate luci al neon.
Non sarei più stata la stessa. Quella era la mia condanna per essere venuta al mondo.

Il PER SEMPRE è vivo ancora oggi in me, ovvio se no non lo avrei chiamato così! Non si limita ad essere una condizione, non è un vaso caduto a terra che se ci si mette d'impegno lo si può ricomporre pur non avendo più lo stesso risultato; è una situazione diversa, è uno spogliarsi di tutto, della propria pelle, dei propri occhi, del proprio stomaco e ritrovarsi nei panni di un essere che ha uno spiraglio di quello che eri e nulla più. Io a quello spiraglio mi sono attaccata forte e negli anni non ho mai mollato la presa. Ho le mani ferite come quando al tiro alla fune tieni stretta la fune ma finché avrò le forze non posso lasciare andare Veronica perché io questa nuova "cosa" non la conosco e non la potrei sopportare.

 Ho le mani ferite come quando al tiro alla fune tieni stretta la fune ma finché avrò le forze non posso lasciare andare Veronica perché io questa nuova "cosa" non la conosco e non la potrei sopportare

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