Prologo

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Sono sempre stata sola da quando ne ho memoria.
Forse non da sempre ma dopo lo schioccare dei miei sette anni tutto è andato in discesa.

Sono nata sorda.

Mia madre per i miei primi cinque anni mi insegnò quello che sapeva della lingua dei segni e incominciai un po' a parlare ma dopo poco si ammalò e mi abbandonò alla fame dei lupi.

Mi lasciò da sola in questo mondo crudele, che non conoscevo ancora.

Mio padre invece è un imprenditore molto importante e per questo motivo non era mai a casa. Nei primi anni dopo la scomparsa di mamma c'era papà a casa con me, non voleva lasciarmi da sola, ancora con un trauma fresco, presumo che avesse paura.  Ma poco dopo chiamò una logopedista che doveva aiutarmi a cominciare di nuovo a parlare e che stava perennemente con me, facendomi anche da tata.

Ma c'era una regola che si usava quando non c'era mio padre:
'NON SI DEVE USARE ASSOLUTAMENTE LA LINGUA DEI SEGNI'

E non sapevo che quella regola sarebbe stato solo l'inizio dell'inferno.

Ed ero troppo piccola per capire cosa mi avrebbe fatto.

Avevo provato così tante volte di spifferare tutto a mio padre ma quella bastarda mi ricattava e soprattutto non avevo una voce per parlare e non riusciva a capirmi in nessun altro modo oltre che a scrivere.

A scuola al contrario ero definita come quella strana. Quasi nessuno sapeva che fossi sorda, tranne i professori. Che a fine lezione mi davano delle dispense da cui potevo studiare.

Non parlavo con nessuno, non avevo amici. Ma la domanda che mi ponevo era perché mai dovrebbero essere amica di una persona che non può sentire?

Mi andava anche bene.

Mi rinchiudevo sempre nell'aula d'arte. Indossavo le cuffie e disegnavo. Disegnavo, pitturavo, coloravo. L'unica cosa che mi riusciva bene era l'arte.

Mi era sempre piaciuta. Forse perché era il mio unico mezzo di comunicazione? Be' non saprei

Avevo così paura di tornare a casa. Volevo che la scuola durasse di più. Volevo sentire. Volevo parlare. Volevo così tante cose che già sapevo che nessuno si avvererà mai. Sono cose troppe surreali per far sì che si avverino.

E mi ripetevo sempre una frase, che forse era anche un mio motto:

Meglio arrendersi che combattere per un qualcosa di nullo.

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