Il nuovo compagno di scuola

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Apro gli occhi di scatto, rendendomi conto che la luce del sole che filtra dalla finestra è più luminosa del solito. Ho le palpebre pesanti, sono ancora intontita dal sonno. Poi lo sguardo mi cade sulla sveglia posata sul comodino.

Cazzo, cazzo, cazzo! Sono in ritardo. Come ho fatto a non sentirla suonare? Forse si è inceppata oppure... Il panico mi striscia nelle vene mentre balzo giù dal letto con la velocità di un centometrista.

Con mani tremanti mi tolgo la maglietta del pigiama dalla testa, la faccio seguire dai pantaloni che, a causa dei troppi lavaggi, sono terribilmente larghi in vita e un po' logori. Mi piego sulle ginocchia, cerco a tentoni gli slip e il reggiseno che la sera prima ho lasciato abbandonati sul pavimento. Mi impongo sempre di essere più ordinata, ma ogni dannata volta vengo colta da un attacco di pigrizia.

Eccoli! Finalmente li ho trovati. Infilo gli slip saltellando su un piede per mantenere l'equilibrio, allaccio il reggiseno e al contempo penso dove diavolo ho messo l'uniforme scolastica. In quel preciso istante la porta si spalanca con un botto, facendomi sobbalzare. Mio fratello Abel entra imprecando.

«Cazzo, Georgie! Dobbiamo sbrigarci». Il suo tono è urgente, ha il terrore stampato sul volto. «Mamma è di pessimo umore oggi, praticamente sul piede di guerra».

«Come sempre», borbotto io sulla difensiva.

Lui solleva lo sguardo, spalanca occhi e bocca come se avesse visto atterrare un alieno. Le parole gli muoiono in gola.

«Abel, che fai lì impalato? Aiutami a cercare l'uniforme o passeremo dei guai seri».

Niente. Lui non si muove. Sembra paralizzato in un attimo eterno, i muscoli della sua mascella si contraggono. Lo vedo stringere e riaprire i pugni ripetutamente, come se stesse combattendo una dura lotta interiore.

Gli sventolo la mano davanti alla faccia.

«Ehi, che hai?». Comincio a preoccuparmi. È pallido come un morto, le pupille sembrano schizzargli fuori per quanto sono dilatate. Si sarà mica fatto di qualcosa?

«N-niente», balbetta come riscuotendosi da un sogno. «E mettiti qualcosa addosso, cazzo!». Esce a passi concitati richiudendo la porta alle sue spalle con un altro tonfo.

Io resto ferma, attonita, a fissare l'uscio davanti a me.

Cosa cavolo gli è preso? Non credo che sia la prima volta che vede una ragazza in mutande, e comunque io sono sua sorella! Scuoto la testa con rassegnazione tornando a cercare la mia uniforme. Finalmente la trovo ripiegata su una sedia e la indosso, per poi piazzarmi davanti allo specchio per un veloce esame.

Ok, sono passabile. Ho i ricci sparati in testa come se avessi messo le dita nella presa della corrente, ma va bene. Non ho il tempo di pettinarmi. Afferro lo zaino dove ho già infilato libri e quaderni prima di andare a dormire, e scendo in cucina quasi caracollando giù per le scale.

Come aveva predetto Abel mia madre è su di giri. Sta borbottando delle imprecazioni a denti stretti e, non appena mi vede, mi punta un dito contro.

«Tu... È tutta colpa tua! Sei sempre in ritardo. Cosa pensi? Che questa casa sia un albergo?».

Siamo alle solite.

Mamma è parecchio indulgente con Abel e Arthur, ma con me è tutto un altro paio di maniche. Mi detesta. E non so perché. È sempre stato così, fin da quando ero piccola. Non sopportava neppure il rapporto speciale che avevo con papà, prima che un infarto ce lo portasse via per sempre.

A quel ricordo gli occhi mi si riempiono di lacrime. Mi manca. Ogni dannato giorno della mia vita.

Come se avesse percepito il mio turbamento, Arthur si alza da tavola e mi scosta la sedia come un gentiluomo d'altri tempi. Io tuttavia scuoto la testa, non ho tempo per sedermi a fare colazione. Mi comprerò un sandwich per strada, prima di entrare a scuola.

Sweet GeorgieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora