Casa nostra si trova in una zona popolare di Londra, caratterizzata da strade affollate e un mix di palazzine in mattoni rossi intervallate da negozi, ristoranti etnici e bar. Questo quartiere è noto per la varietà dei suoi abitanti: extracomunitari, studenti, ma anche artisti e musicisti. Oltre a famiglie che tirano a campare un po' come noi.
Uno dei vantaggi è che ci troviamo a pochi passi da monumenti famosi come il British Museum o Covent Garden, più celebre per i suoi numerosi teatri che per il vivace mercato di frutta e fiori che porta lo stesso nome e che si trova nel medesimo quartiere: Nine Elms.
Altro vantaggio è che la zona è ben collegata al centro. Ci sono diverse fermate d'autobus e stazioni della Tube, la metropolitana di Londra. Quando non ho la fortuna di essere accompagnata a scuola da Abel, posso comodamente usufruire dei mezzi pubblici.
Dopo aver parcheggiato, io e Abel saliamo al terzo piano di una palazzina col tetto spiovente e le finestre a bovindo. Appena entrati nell'appartamento, il tanfo di alcol e fumo ci fa storcere il naso. Intorno a noi c'è un silenzio irreale.
«Mamma, Arthur», chiamo gettando il mio zaino in un angolo e dirigendomi in cucina. Nostro fratello si affaccia alla porta, ha lo sguardo stanco e profonde occhiaie gli solcano il viso.
«Finalmente!», esclama tirando un sospiro di sollievo.
Abel gli si avvicina, gli dà una pacca sulla spalla. «Come sta la mamma?»
«Si è appena addormentata, ma ho faticato parecchio a staccarla dalla bottiglia». Arthur fa una smorfia, rilassa le spalle. «Non sapevo che fare, stavolta mi sono spaventato sul serio. Straparlava. Scusami se ti ho chiamato al lavoro».
«Stai scherzando? Hai fatto bene, invece».
«Ma che è successo esattamente?», mi intrometto io. Entro in cucina e apro il frigo. Sbircio all'interno, ma è desolatamente vuoto. Mamma ha scordato di nuovo di fare la spesa, dovremo arrangiarci col poco che c'è. Intanto, il mio stomaco brontola. È da ieri sera che non metto niente sotto i denti.
Arthur si appoggia allo stipite della porta, si passa la mano tra i capelli ricci dello stesso colore di quelli di Abel: un castano scuro con qualche ciocca più chiara. In effetti, io sono la sola in famiglia a essere bionda e con gli occhi azzurri. Quando da bambina facevo domande a riguardo, papà mi rispondeva che avevo preso dalla sorella di nonna che non ho mai conosciuto. Ma la cosa strana è che non ho mai visto una sua foto o un ritratto.
«Hai fame, Georgie?», chiede Arthur ignorando la domanda che gli ho fatto pocanzi. «Se vuoi ti preparo un sandwich».
«Ci penso io, tu raccontami di mamma». Recupero del prosciutto e formaggio dal frigo e taglio un pezzo di pane avanzato dal giorno precedente. Sembra chewing-gum, ma non fa niente. L'importante è riempire lo stomaco.
Abel si siede a tavola, metto un piatto anche per lui. Per venire a prendermi a scuola ha saltato il pranzo, deve essere affamato. Intanto, Arthur ci racconta che mamma è arrivata a casa in uno stato pietoso, delirava e a un tratto ha cominciato a lanciare oggetti. Ha rotto due piatti e un bicchiere. Sembrava indemoniata.
Sgrano gli occhi, un moto di apprensione mi attanaglia lo stomaco. «Ma che ha combinato stavolta? Perché l'hanno licenziata?».
Mio fratello scrolla le spalle, prende posto accanto ad Abel e allunga le gambe sotto il tavolo. Sembra stravolto. «Dice che è stato per una sciocchezza, che non si meritava un trattamento simile. Sai com'è. Non è mai colpa sua».
Sospiro. Poi passo il panino ad Abel e inizio a prepararne uno anche per me. «E adesso che faremo?», chiedo mentre taglio delle fette di cheddar e le stendo sul pane.
«Posso rinunciare all'università, trovarmi anch'io un lavoro», propone Arthur in tono pratico. Abel lo incenerisce con lo sguardo.
«Non ci provare. L'ho già detto a Georgie. Penso io a voi».
«Sì, ma come?». Mi volto e lo fisso. Il disagio che provo è dilaniante, non mi abbandona un secondo. Poi lo sguardo mi cade su un volantino posato sul ripiano della cucina.
«E questo cos'è?».
Arthur scrolla le spalle. Appoggia un gomito sul tavolo, si sorregge la testa col braccio. «L'ho trovato nella posta, sarà la solita pubblicità».
Lo esamino attirata dalle scritte a caratteri cubitali, a un tratto mi sfugge un gridolino di esaltazione. «Mi è appena venuta un'idea!».
«Che idea?». Abel corruga la fronte, poi azzanna il suo sandwich iniziando a masticare rumorosamente.
«Leggete qui». Mi avvicino, poso il volantino sul tavolo. «Hanno indetto una gara di biliardo al pub dietro l'angolo. In palio ci sono un sacco di soldi, potrebbero risolvere i nostri problemi almeno per un po'».
Arthur esamina il volantino, lo vedo fare una smorfia. «Georgie, qui c'è scritto che si tratta di una gara maschile. Le donne non sono ammesse».
«E chi se ne frega! Non è certo la prima volta che indosso i vostri abiti smessi per sembrare un ragazzo. Vi ricordate quella volta ad Halloween...».
«Non se ne parla». Abel sbatte un pugno sul tavolo, il suo tono è categorico.
«Ma perché no?».
«Quello non è un posto per ragazzine».
«Non sono una ragazzina! Compirò diciotto anni il mese prossimo».
«Tu lì non ci vai, discorso chiuso».
A volte il mio fratello maggiore è insopportabile. Mi rivolgo ad Arthur, come faccio sempre quando ho bisogno di un alleato. «E tu che ne pensi?».
Lui riflette, si gratta la punta del naso. «Che si potrebbe fare».
«Arthur!». Abel lo fulmina. Stringe i pugni e la sua mascella si irrigidisce.
«Abel, Georgie è bravissima a biliardo. Lasciamola provare. Quei soldi ci fanno comodo».
«Ok, però non ci va da sola».
«Certo che no, l'accompagneremo noi».
Io sbuffo, sollevo gli occhi al soffitto. «Guardate che non ho bisogno delle babysitter». È umiliante avere sempre i miei fratelli dietro, che mi guardano le spalle. A scuola hanno iniziato a prendermi in giro per questo.
«O si fa come dico io o niente». Come al solito Abel è categorico.
Torno a sbuffare, ma alla fine cedo. «D'accordo».
«Quand'è la gara?», si informa Arthur sporgendosi verso il volantino.
«Stasera alle nove».
«Chi guarderà la mamma?». Arthur ha ragione, non possiamo lasciare la mamma da sola a casa. Non in queste condizioni.
È Abel a trovare la soluzione: «Chiederemo aiuto a zio Kevin».
Kevin è il fratello di mamma, da sempre un nostro potente alleato. Non so come faremmo senza di lui.
«Allora è deciso». Poso una mano sul tavolo, subito Abel la copre con la sua.
«Uno per tutti...».
Arthur si unisce a noi, con un sorriso sghembo allunga a sua volta la mano. «Tutti per uno», esclamiamo in coro.
Siamo come i tre moschettieri. Indivisibili. Più forti degli Avengers.
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Sweet Georgie
FanfictionGeorgie ha diciassette anni, è orfana di padre e vive con la madre e due fratelli che adora. Forse un po' troppo. Un giorno a scuola arriva un nuovo compagno: un ragazzo bello, ricco e molto popolare. Georgie non può fare a meno di sentirsi attrat...