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Katherine

Non ho mai amato nuotare.
Ricordo che all'età di dodici anni rischiai di annegare in mare, mi allontanai senza rendermene conto finché i miei piedi non toccarono più la sabbia.

All'inizio non feci assolutamente nulla, lasciai che l'acqua salata mi trasportasse giù e che il sole mi bruciasse dal cielo.
Credo di essere entrata in shock, tant'è che non ero in grado di muovermi. Riuscivo a sentire a malapena le voci ovattate e lontane.

Gli occhi avevano iniziato a bruciarmi come se avessi due chiodi piantati nelle iridi.
Non mi dimenavo, non cercavo di risalire in superficie.
Lasciavo semplicemente che la corrente mi trascinasse giù a fondo con sé.
Ingurgitai un'esorbitante quantità di acqua marina da sentirne ancora oggi il sapore al solo pensiero.
Ero convinta che sarei morta a breve, mi aspettavo di sentire l'acqua invadermi il cervello ed allagarmi i polmoni.

Ho ancora in mente quella sensazione di terrore che provai nell'aspettarmi che il mio respiro si spezzasse d'improvviso e il cuore cessasse, mettendo fine al suo battito fragile e irregolare.
Fino a quando un signore, che nuotava lì vicino, mi acciuffò e trascinò alla riva.

Potevo sentire le voci delle persone preoccupate e allarmate intorno a me.
La zia Jane mi toccava con insistenza affinché io aprissi gli occhi ma non lo feci, almeno non fin quando rimasi sola con la dottoressa che mi avrebbe visitata successivamente.

Da quel giorno non ho più messo piede in una spiaggia, tuttavia, delle volte ho come la sensazione di percepire di nuovo quel soffocamento, quel bruciore al petto e quella lacrimazione persistente.
Non piangevo da due anni quando successe.
Esattamente dall'incidente della mia famiglia.

Da allora ho vissuto con mia zia Jane e mio zio John, ma quest'ultimo se ne andò circa un anno dopo il mio trasferimento nella loro casa.
Potrei spiegarne le motivazioni, dire che il rapporto tra lui e la zia stava entrando in crisi o che avevamo problemi finanziari, tali da indurlo ad andarsene.

Ma nessuna di queste affermazioni corrisponde alla realtà, se ne andò e basta, pensando bene che io e la sua compagna non ci meritassimo uno straccio di spiegazione.
Non eravamo particolarmente legati, non lo chiamavo neanche zio, ma lui mi aveva insegnato molto, avevo iniziato ad accettarlo come parte della mia nuova quotidianità.

Come se non bastasse, la sua fuga improvvisa aveva riportato mia zia in uno stato di depressione minore.
Ci era già passata quando morì sua sorella -mia madre- e riprendersi per lei fu difficile, soprattutto perché ai miei cosiddetti nonni non passò neanche per sbaglio l'idea di venirla ad aiutare.

In ogni caso, adesso siamo rimaste io e la zia Jane.
Lei è un rinomato chirurgo di Nottingham e per la maggior parte del tempo è in ospedale.
La cosa non mi ha mai infastidita, dopo l'incidente della mia famiglia e l'abbandono di John, io e lei avevamo creato una sorta di equilibrio per cui entrambe cercavamo di vivere come se fossimo due persone normali, ignorando l'esistenza delle cicatrici che ci portavamo dietro.

Ho terminato il liceo l'anno scorso, mi sono diplomata in una scuola privata, strettamente per ragazze.
Mi sarei dovuta iscrivere all'università, ma ho deciso di prendermi del tempo per pensarci senza rendermi conto che ormai, a metà ottobre, i corsi sono cominciati ed io sono in un grande ritardo.

La zia Jane, d'altro canto, non mi ha mai forzato a prendere a tutti i costi una decisione. Sebbene l'idea che io lavori nella biblioteca della signora Patterson non la entusiasmi, non si è mai imposta sulle mie decisioni di vita.

Fino ad una settimana fa, come si può denotare dalla discussione che abbiamo avuto.

<<Come hai potuto prendere questa decisione senza consultarmi prima?!>>

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