•16

14 3 0
                                    

Adrian

Catrame.
Questo posto puzza di fumo stantio e disperazione, mescolati al tanfo metallico del sudore e a qualcosa di marcio che aleggia nell'aria.

Appena varco la soglia, mi assale un'ondata di umidità e degrado, un odore acido che mi resta impresso in gola.
Trattengo una smorfia di disgusto mentre mi faccio strada tra tavoli traballanti e divanetti logori.

Le luci soffuse illuminano a malapena i muri scrostati, coperti di graffiti e chiazze d'umidità, come se in questo posto il tempo avesse deciso di incrostarsi sulle superfici, lasciando tracce di ogni cliente passato di qui, di ogni anima sporca che si è persa tra le ombre.

Questo è uno di quei locali che sopravvive solo perché nessuno ha abbastanza interesse o coraggio per denunciarlo. Un rifugio per chi non vuole essere visto, per quelli che preferiscono nascondersi agli occhi del mondo.
C'è sempre qualcuno che gioca a biliardo o a carte, qualcuno che beve fino a svenire, qualcuno che ride troppo forte per far credere che si stia divertendo davvero.

Odio ogni centimetro di questo posto: il pavimento impregnato di alcol, le luci al neon che pulsano in un ritmo pigro e sporco, il mix di fumo e menzogna che infesta l'aria.
E odio ancora di più l’idea di dovermi sporcare le mani qui, ma so che non c'è altro modo.

Trevor.
Un biondino dagli occhi azzurri e dal sorriso da schiaffi.
Tipico figlio di papà, di quelli che si sentono al sicuro dietro il portafoglio della loro famiglia e il loro sorriso sfacciato.
Lo riconosco dal modo in cui se la ride con i suoi amici, il bicchiere in mano come un trofeo, il tono della sua voce alto e chiaro come se fosse abituato a farsi sentire.
Alza il bicchiere, brinda a qualcosa che solo lui sa, ignaro della mia presenza.

Mi avvicino a passo lento, senza fare rumore. Quando gli sono addosso, ancora non si è accorto di nulla.
Lo afferro per il colletto della camicia e, in un attimo, lo trascino via dal gruppo, ignorando le proteste confuse dei suoi amici. Gli occhi di Trevor si spalancano, e subito riconosce chi sono.

Lo vedo nel suo sguardo che cambia, passando dall’arroganza al panico nel giro di un secondo.
Boccheggia, come un pesce fuori dall'acqua.

<<Ma che cazzo…Evans…>>, riesce a dire, la voce incrinata, ma non gli lascio il tempo di spiegarsi. Il mio pugno gli si stampa in pieno sul labbro.

Il colpo è secco, il sangue schizza subito, e mi dà una soddisfazione sottile, quasi calma.
Lui cerca di alzare una mano per coprirsi, ma io non gli do tregua.
Il secondo pugno lo colpisce dritto allo zigomo, facendolo gemere di dolore.
Trevor mi guarda, gli occhi terrorizzati, cercando di reggersi in piedi.

<<Ti piace fare il duro con chi non può difendersi, eh, Trevor?>>, Il mio sibilo è appena un filo di voce, freddo come il ghiaccio.
Vedo la sua paura aumentare, e il panico crescergli negli occhi.
Non si aspettava che qualcuno come me venisse a cercarlo.

<<Sai cosa farebbe qualcun altro, se scoprisse quello che hai fatto?>>, il mio sorriso è tagliente, vuoto.

<<lo sono stato gentile. Ti lascio abbastanza in piedi da andartene sulle tue gambe. Ma se ti avvicini ancora a lei, anche solo per sbaglio... qualcun altro potrebbe avere un'idea molto meno generosa su come farti passare la serata.>>

Trevor resta in silenzio, impallidito, incapace di rispondere.
Deglutisce e si passa una mano sulla bocca insanguinata, come se potesse cancellare in qualche modo quello che è appena successo.

Attorno a noi, il silenzio è totale.
Gli amici di Trevor mi guardano, troppo spaventati per intervenire, come ogni altra persona in questo buco di locale.

Tutti fermi, nessuno osa nemmeno respirare.
Quei miserabili non sono altro che spettatori silenziosi, pronti a ingoiare il sangue e la violenza purché non li tocchi.

E va bene così.
Non sono qui per farmi vedere, né per dare spettacolo.
Tutti conoscono la loro parte in questo gioco, e io non sono mai stato quello che si ferma a chiedere il permesso.


                              ***

<<Ma che diamine ti dice il cervello?>> Arya si dirige a passo spedito verso di me.

Ha un’espressione che conosco fin troppo bene: rabbia, irritazione, qualcosa che le brucia dentro e che non ha intenzione di nascondere. Quando mi si para davanti, mi fissa con occhi che potrebbero perforarmi, pieni di fuoco.

<<Che diavolo credi di fare, Adrian?>>

Stronger Than AllDove le storie prendono vita. Scoprilo ora