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Katherine

A volte, commettere un errore mi lascia una ferita invisibile, come se ogni sbaglio scolpisse sulla mia pelle un marchio indelebile.
Mi sento sbagliata, intrappolata in un groviglio di pensieri che crescono come rovi nella mia mente.

La paranoia si insinua silenziosa, si espande come un'ombra, soffocando ogni slancio, paralizzandomi.
Mi trovo sospesa, incapace di muovere anche solo un passo. Tutto sembra distante, irraggiungibile.
È la sfiducia che mi tiene prigioniera. Non solo nel mondo, che ormai mi appare sbiadito, ma soprattutto in me stessa.

Come se ogni mio gesto fosse destinato a fallire, come se non fossi mai abbastanza. E mi chiedo, in silenzio, se mai riuscirò a spezzare queste catene invisibili. Se sarò mai capace di guardarmi negli occhi senza vedere solo imperfezioni.

Il futuro, così lontano, si rivela in domande senza risposta. Sarò mai capace di amare? Di lasciarmi andare senza il timore di essere ferita? E ancor di più, saprò mai perdonarmi?

Il perdono... una parola che sembra sfuggirmi, come sabbia tra le dita. Mi sento in balia di me stessa, intrappolata in una tempesta di dubbi e paure che non so come placare.
Odio sentirmi così, ma al tempo stesso, non so come essere diversa.

Ogni mio tentativo di fuggire sembra vano, come se la mia stessa ombra mi seguisse ovunque. In fondo a questo mare in tempesta, immagino una flebile speranza, un desiderio nascosto di pace.
Una pace che sembra così distante, quasi irreale, ma che continuo a cercare.

Forse, un giorno, saprò accettare le mie ferite e trasformarle in forza. Forse, un giorno, sarò capace di guardare il mio riflesso e riconoscermi in esso.

Mi perdo di nuovo nei pensieri, il rumore sommesso del ristorante diventa uno sfondo lontano, quasi ovattato.
Le luci soffuse si riflettono nei bicchieri di cristallo, scomponendosi in piccoli frammenti irregolari.
Il silenzio mi avvolge, anche se sono circondata da voci.

<<Katherine...>>

La voce di mia zia, seduta di fronte a me, che si muove appena appena sulla sedia a osservarmi, forse da qualche minuto, si insinua con dolcezza, spezzando la trama dei miei pensieri.
Mi volto verso di lei, cercando di nascondere il mio disorientamento.

<<Mi spiace, zia Jane>> dico, abbozzando un sorriso. <<Ero solo... distratta.>>

Lei mi osserva, e i suoi occhi azzurri, così simili a quelli di mia madre, tradiscono un pizzico di preoccupazione.

<<Me ne sono accorta>>, mormora con tono serio. <<Sarebbe un peccato sprecare questa cena, visto che non siamo riuscite a incontrarci l'ultima volta. Non che voglia sminuire i tuoi impegni lavorativi con Adrian>>

Appena nomina quel nome, mi sento rabbrividire.
Sospiro, cercando di tenere sotto controllo l'irritazione che mi sale allo stomaco.

Adrian.

Una presenza costante nella mia mente, come un'ombra fredda che non riesco a scrollarmi di dosso.
Lo odio, odio ogni sua parola, ogni sguardo carico di disprezzo.

E, soprattutto, odio il modo in cui riesce a farmi sentire vulnerabile, come se fosse l'unico a vedere davvero il mio lato più fragile e spezzato.
Scaccio quei pensieri, costringendomi a concentrarmi sul rumore dei bicchieri, sul bisbigliare delle altre persone.

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