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Adrian

Il tempo.
La più grande menzogna mai raccontata.
Ci viene detto che ha la capacità di curare le ferite, che porta con sé la saggezza e la pace. Stronzate. Il tempo non è altro che un mostruoso ladro che si diverte a togliere, a consumare tutto ciò che si ama, a lasciarci nudi, vulnerabili, con nient’altro che i resti dei nostri ricordi sbiaditi.
Eppure, io ricordo ancora.
Ricordo tutto.
Il tempo ha cercato di rosicchiare i dettagli, di cancellare i contorni, di sfumare attimi impressi a fuoco nella mia memoria.
Neanche se mi sforzassi riuscirei mai a dimenticare.
Non ho mai voluto farlo. Persino quando ero solo un ragazzino costringevo la mia mente a ripercorrere ogni istante, tra i più dolorosi e atroci, per mantenerli tutti vivi dentro di me.
Mi rendeva forte. Mi ha permesso di calcolare e decifrare le menti contorte di chi si divertiva a prendersi gioco di me.
Della mia innocenza. Colei che non avevo mai potuto neanche sfiorare.
Il tempo forse crede di avere tutto il potere. Si compiace a pensare di potermi piegare, si illude di farmi dimenticare.
Può portarmi via il suo sorriso, la sua voce, persino l’immagine di quei maledetti giorni all’orfanotrofio.
Ma non la mia rabbia. Quella non l’ho mai dimenticata.
È ancora qui, forte, viva, bruciante.
Ed è affamata.
Attende. Non vede l'ora di distruggerlo, frantumarlo in mille pezzi, nello stesso modo in cui lui l'ha crudelmente annientata.
La sua punizione sarà peggiore.
Ogni singolo giorno in cui il mondo si nasconde dietro la finzione di un futuro migliore, e invecchia perdendosi in queste vite vuote, io aspetto.
Quando finalmente arriverà il momento in cui mostrerò a lui, al tempo, all’intero universo cosa significhi vivere appesi tra la follia e la tortura.
Li farò camminare nel mio inferno.
E a quel punto, neanche nella morte troveranno conforto.
Gli farò sentire il peso insopportabile della mia sofferenza, della mia rabbia, della mia bestia.
Quel peso che il tempo non è mai riuscito ad alleggerire e mai potrà cancellare.
E forse, alla fine, il tempo smetterà di sorridere beffardo.
Forse lo capirà anche lui di non essere invincibile…

<<Signore?>>

La penna stride sul foglio marcando l’ultima parola con violenza.

<<Perdonatemi, non volevo interrompere la vostra scrittura>>, Alfred- il mio maggiordomo-, si scusa con educazione.

Lo individuo sulla soglia del mio studio con le mani dietro la schiena, impeccabile e puntuale.
Chiudo il quadernino consumato e striminzito con decisione.

<<Cosa c’è?>>, chiedo distrattamente. Infilo il diario nel solito cassetto e lo chiudo a chiave. Nessuno entra qui se non Janette- la domestica- durante le pulizie, ma l’ossessione per la mia privacy mi perseguita sin da quando ho lasciato l’orfanotrofio.

Il luogo meno indicato per la riservatezza.

<<Volevo solo avvisarla che la sua macchina è pronta>>, m’informa. La sua voce risuona tra le pareti, un’eco discreto, ma inconfondibile.

<<Molto bene>>, gli faccio un cenno col capo <<Andiamo>>.

Alfred mi segue lungo il corridoio che porta al piano inferiore, affiancandomi.

Il rumore dei nostri passi risuona nelle mattonelle di marmo, la villa è talmente immensa da poter ospitare un esercito.
Apparteneva al padre di Diego, un uomo molto rispettabile, che mi ha ceduto l’abitazione quando la malattia se l’è portato via.
Ricordo il giorno in cui ho compiuto diciotto anni e la chiave di questa casa è passata nelle mie mani.

Stronger Than AllDove le storie prendono vita. Scoprilo ora