Capitolo 9

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Scuola, Venerdì 25 Giugno 2012

Annabeth


Ma quanto distava ancora Sabato? Tra il viaggio e tutto il resto, mi sembrava che la settimana non giungesse più al termine, il che non mi era completamente nuovo, visto che mi era capitato, in passato, di supplicare l'orologio che scorresse più velocemente.
Non so perché avessi l'urgenza di sentire cosa aveva da dirmi Jackson, ma cercavo di nasconderlo con altri pensieri che potessero distrarmi.
Quel Venerdì, in particolare, non riuscivo a prestare la mia totale attenzione ai bambini, che la reclamavano.
Grazie al cielo, alle 3 suonò la campana, e la prima settimana scolastica giunse finalmente al termine. Tutti i bambini uscirono, come sempre, in massa dalla classe, tra urla e schiamazzi, contenti di avere Sabato e Domenica per divertirsi.
Stavo finendo di sistemare i pennelli che avevamo usato, di spalle alla cattedra, quando mi accorsi della presenza di un bambino.
Nico era accasciato sul suo banco, con la testa appoggiata alle braccia magre, e i capelli troppo lunghi che gli cadevano sulla fronte.
-Nico?-
Mi avvicinai, e subito capii che qualcosa non andava.
Il bambino aveva gli occhi semi aperto, e i capelli umidicci erano attaccati alla fronte imperlata di sudore. Le labbra rosee erano secche, e le guance, di solito pallide, erano nettamente più rosse del normale.
Lui alzò la testa, piegandola di lato, perplesso.
-Cosa c'è?- la sua voce era assonnata, come se si fosse appena svegliato. Quel particolare mi preoccupò molto, tanto che mi chinai alla sua altezza per osservarlo meglio.
Gli misi una mano sulla fronte, che scottava come un termosifone.
-Ma tu hai la febbre alta.- deglutii, cominciando ad andare nel panico. Okay, Annabeth calmati, ce la puoi fare. Ha la febbre, non l'appendicite. Devi solo assicurati che arrivi a casa sano e salvo. Un passo alla volta. -Devi andare a casa subito. Dov'è tua mamma?-
Nico si strinse nelle spalle, innocentemente.
-Non lo so. Credo sia a casa.- rispose.
Aggrottai le sopracciglia, perplessa. Come poteva una madre permettere ad un bambino così piccolo di tornare da solo da scuola? Santo cielo, Nico aveva solo sei anni!
-Dammi il suo numero di telefono, che la chiamo.- dissi andando a recuperare il cellulare dalla borsa.
-Annabeth?-
-Si, amore?-
-Io non lo conosco.- rispose il bambino, guardandomi colpevole. Vedevo già le prime lacrime solcare il suo volto.
-Oh, no, Nico, tranquillo. Non fa nulla, davvero. Sai che facciamo ora? Spegniamo le luci dell'aula e andiamo a casa assieme. Che ne dici?- insomma, che opzioni mi rimanevano? Non potevo lasciar da solo un bambino in quello stato che, a malapena, riusciva a tenere gli occhi aperti.
Nico annuii, con il labbro inferiore proteso all'infuori. Scese dalla sedia e mi porse la mano.
Uscendo, mi maledissi mentalmente. Quel giorno avevo detto a Grover di non aspettarmi all'uscita perché dovevo andare in città per delle compere. Se, almeno, ci fosse stato lui, la situazione sarebbe stata più semplice.
Seguendo le indicazioni del bambino, e camminando lentamente, raggiungemmo in fretta la favelas dove abitava. Il sole picchiava forte e Nico sudava sempre di più. Ad un certo punto, evidentemente troppo stanco per continuare a camminare, lo presi in braccio, con la sua testa appoggiata alla mia spalla.
-Nico? È questa la tua casa?- gli chiesi quando mi trovai davanti a quella che credo fosse la sua.
Lui annuì lentamente, con gli occhi già chiusi e il respiro lento ma regolare.
Mi morsi un labbro. Beh, non si poteva definire proprio una casa. Rispetto alle altre che vedevo lì attorno era leggermente piùlussuosa, ma era pur sempre una baracca.
Le pareti erano un misto di cartone e mattoni rossi, e il tetto un'insieme di pannelli di legno mezzi scheggiati. Ovviamente non c'era nessuna traccia di un appezzamento di terra fertile.
In un paio di passi arrivai a quella che doveva essere la porta. Bussai non troppo forte, per paura di sradicarla dai suoi cardini malconci con un semplice colpo.
Dall'interno sentivo solo il pianto di bambino e i rumori sinistri della casa, come se dovesse cadere da un momento all'altro.
-Chi è?- domandò una voce con l'accento americano, che mi sorprese molto visto il luogo in cui ci trovavamo.
-Sono Annabeth Chase, la maestra di suo figlio Nico.- urlai in risposta, sperando di non aver sbagliato baracca.
-Arrivo subito.-
Dopo qualche attimo, la porta si aprì, con un rumoraccio, rivelando la figura di una donna minuta e trasandata. La prima cosa che mi saltò agli occhi fu la pancia rotonda.
Era incinta.
Malgrado mi sembrasse piuttosto giovane, al fianco teneva un bambino che non doveva avere più di due anni, con il moccio al naso e le guance bagnate.
La donna aveva dei lineamenti delicati, ma i capelli corvini erano legati con un elastico improvvisato sulla testa. La cosa più bella del viso erano gli occhi, di un nero profondo, che le donavano un'aria raffinata e straniera, rispetto alle brasiliane del posto.
Il bambino al suo fianco le assomigliava, malgrado avesse più elementi in comune con la figura di Nico.
Doveva essere sua madre, per forza.
L'evidenza si accentuò quando i suoi occhi si posarono su di lui, in braccio a me e con la testa sulla mia spalla. Rimase a bocca aperta, mentre la preoccupazione si impadroniva di lei.
-Oh mio Dio, Nico! Cos'è successo?- domandò, portandosi una mano alla bocca.
-Ha la febbre alta, signora Di Angelo. Non potevo lasciarlo tornare a casa da solo in questo stato.- dissi.
La donna aprì completamente la porta, guardando a destra e a sinistra, poi si spostò e mi fece segno di entrare velocemente.
-Mi segua.- detto ciò entrò, chiudendosi la porta alle spalle.
L'interno non era molto meglio dell'esterno, sopratutto perché la casa era composta solo da tre stanze. La signora Di Angelo entrò nella prima a destra e io la seguii. La stanza da letto era prevalentemente piccola, ma conteneva un letto da una piazza e mezza e un box malconcio. C'era puzza di urina e pannolini sporchi.
Adagiai Nico sul letto, coprendolo con una coperta di lana per lo più rattoppata, poi gli passai la mano sulla fronte, scostando i capelli dalla fronte sudata.
Dall'altra stanza sentii il bambino riprendere a piangere, mentre la madre tornava nella stanza con una bacinella d'acqua e uno straccio immerso dentro. Lo appoggiò sul pavimento sporco e fece per prendere lo straccio, ma vidi che faceva molta fatica a piegarsi in avanti, a causa della pancia prorompente.
-Lasci, faccio io.- lei mi guardò per qualche istante, poi annuì, riconoscente.
Strizzai lo straccio e lo misi sulla fronte di Nico, poi sulla sua faccia si dipinse puro sollievo. Sorrisi.
Lo guardai addormentarsi tranquillamente, con il respiro regolare, contenta del fatto che sarebbe stato meglio. Mi accorgevo che, piano piano, mi stavo affezionando a quel bambino così piccolo e fragile. Era tutto un tesoro da scoprire. Più che mai, quel giorno, appresi che Nico aveva bisogno di un punto di riferimento.
Uscii lentamente dalla stanza, cercando di non fare rumore. Fuori vi trovai la madre, intenta a sistemare dei giocattoli in una cesta di vimini mezza sfilacciata, e nel mentre cercare di calmare il pianto del bambino che portava al fianco.
-Si è addormentato.- dissi, piegandomi per aiutarla a mettere a posto.
-Grazie mille signora Chase, davvero. Non avrebbe dovuto.- disse la donna, quasi sussurrando. Era più bassa di me, ma da quella posizione eravamo più o meno alla stessa altezza. Malgrado ciò, però, mi guardava dal basso, come se si vergognasse di non potercela fare da sola. Le sue ciglia erano così lunghe da incantarmi.
-In verità non sono sposata... comunque mi chiami pure Annabeth e mi dia del tu, la prego.- la corressi. Non sapevo perché essere considerata sposata mi desse fastidio... beh, in verità, lo sapevo, ma non volevo ammetterlo a me stessa.
-Oh, certo. Anche tu, chiamami Katya. Quello era il cognome di mio marito.- vidi i suoi occhi rattristarsi, ma non feci domande sul quel "era". Ci trovavamo già in una brutta situazione.
-Ora, sicuramente, crederai che sono una madre snaturata e che non s'interessa ai suoi bambini, ma non è così.- nei suoi occhi vi lessi tristezza e... sofferenza? -Vedi, Annabeth, sono una madre single con due bambini piccoli e uno in arrivo, senza un lavoro fisso. È difficile. Molto.- concluse con lo sguardo fisso al pavimento.
-Mio marito è morto poco tempo fa, all'improvviso, e io mi sono ritrovata da un giorno all'altro a dover mantenere un'intera famiglia senza l'aiuto di nessuno.- se prima comprendevo quello che diceva, ora ero scioccata. Nico e i suoi fratellini erano orfani di padre prima ancora che avessero avuto il tempo di conoscerlo. E Katya era rimasta da sola.
-Tranquilla, Katya, davvero. Nico è un bambino bravissimo e tutt'altro che loquace. Malgrado la sua tenera età è evidente che è più responsabile e maturo degli altri bambini. Non c'è alcun bisogno che tu mi dia delle spiegazioni, capisco. Davvero.- le poggiai una mano sulla spalla, e sorrisi leggermente, mentre anche lei ricambiava. Nel mentre il bambino si era calmato.
Gli accarezzai la testa liscia, giungendo fino alla guancia bagnata. -Come si chiama?-
-Bianca.- oh. Era una femmina. Arrossi per il terribile errore che stavo per fare.
-Che bel nome.- stetti qualche attimo in silenzio poi mi decisi a parlare. -Ascolta, Katya, se vuoi posso accompagnare a casa Nico tutti i giorni dopo la scuola, così che possa arrivare sano e salvo.-
Non so da dove fosse arrivata quell'idea, ma prima che potessi ripensarci capii che avevo fatto la cosa giusta. Non mi sarei mai perdonata se fosse successo qualcosa a Nico.
Katya mi guardò con gli occhi spalancati.
-Oh, no! Non...-
-Tranquilla, mi fa piacere. E poi per me non è affatto un problema.-
E poi, quando lessi riconoscenza nei suoi occhi, seppi che aveva ceduto. Annuì lentamente, sorridendomi con evidente gratitudine.
-Grazie mille, Annabeth, davvero.-




E, alla fine, arrivò l'ora della verità.
Il giorno successivo, Sabato, Percy non si presentò a cena e nessuno commentò la sua assenza. Evidentemente aveva trovato, di nuovo, una scusa andarsene chissà dove.
Sinceramente non ero affatto preoccupata per la sua incolumità, ma speravo che, dovunque si trovasse, riuscisse a tornare in tempo per mantenere la parola. Io volevo sapere la verità.
O meglio, ne avevo bisogno.
Rimasi taciturna per tutta la durata della cena, mentre Chintia e Grover discutevano di chissà quale danno avesse procurato Grover al suo amato furgoncino. Sembrava che il ragazzo non riuscisse a combinarne una giusta, dato che la Chintia era sempre lì a minacciarlo con il mestolo.
Guardarli era come assistere ad un litigio tra una mamma e il proprio figli adolescente. Lui vuole essere libero ma tutto quello che fa, non fa altro che far arrabbiare la madre che lo rimprovera.
Non che io avessi mai assistito ad una scena simile.
Non avendo mai avuto una vera figura femminile che mi guidasse nella crescita, era sempre stato papà a indicarmi come e cosa dovessi fare, limitandosi a consigliare nel bene e nel male.
Con una scusa appena sussurrata, mi alzai, a metà del mio piatto di pasta, e salii in camera, sicura che i due non si sarebbero presi la briga di fermarmi.
Malgrado fossi solo un'ospite passeggera, Grover e Chintia erano riusciti subito a ricreare un'atmosfera famigliare, facendomi sentire parte di una piccola famigliola. Mi rendevo conto di starmi affezionando, pian piano, a loro.
Mi buttai di peso sul letto, con le braccia dietro alla testa, e sospirai.
Avevo volontariamente lasciato spenta la luce, in modo che il tramonto potesse colorare di rosso le pareti della stanza. Amavo il tramonto, tanto che era la mia parte preferita della giornata, se ce n'era una, ma in quel momento preferivo stare lì così. Non avevo voglia di alzarmi e sporgermi alla finestra.
Chiamatemi pure pigra, ma se mi sdraio su un letto, sopratutto se morbido, è difficile farmi alzare.
Aspettai che il sole calasse lentamente, seguendo il suo percorso mediante le ombre sempre più scure che si impadronivano degli spigoli della camera, e nel mentre pensai.
Pensai a Jackson, e al suo segreto inconfidabile che, se Dio voleva, avrei scoperto poco dopo. Pensai a Nico, malato, e a sua madre, in attesa del terzo bambino, che faceva fatica a mantenere due figli piccoli senza l'aiuto di un uomo. La tristezza che mi aveva assalito quando Katya mi aveva confidato la perdita del marito, e la conseguente fatica nel mantenere un'intera famiglia, mi aveva fatto vivere fino a quel momento con un senso di oppressione.
Mi rendevo conto che quel bambino mi stava entrando lentamente nel cuore.
Girai il capo e guardai l'ora dalla sveglia sul comodino. Le 11.10. Mancava poco meno di un'ora, eppure mi sembrava un tempo lunghissimo.
Mi sentivo come quando, a sedici anni, aspettavo in trepidante attesa, l'arrivo di Kyle, il ragazzo con cui avevo avuto il mio primo appuntamento. Era Domenica e il programma prevedeva di andare al cinema e, subito dopo, di mangiare un pizza nel fast food lì vicino.
Mi ero svegliata tutta pimpante e, come sempre, con i capelli aggrovigliati. Dopo una doccia durata circa un'ora, ero uscita dal bagno, avvolta in una nube di vapore biancastro e in un'asciugamano di cotone bianco. Erano le 10 di mattina, e l'appuntamento alle 16.
I compiti a casa piangevano sul mio comodino e mi guardavano insistenti, in attesa di catturare la mia attenzione. Per quel giorno avrebbero dovuto aspettare. Poi mi aveva chiamato Piper per consigliarmi su quale vestito mettere e su come acconciare i capelli. Neanche mezzora dopo, me l'ero ritrovato sulla porta di casa tutta trafelata e con in mano la sua personale trousse di cosmetici. Alle 12 ero già belle che pronta, il che non mi aveva di certo aiutata a calmarmi. Alle 15.30 ero un fascio di nervi, una mina vagante che rischiava di scoppiare da un momento all'altro. Mio padre doveva essersene accorto perché si era ritirato nello studio, con la scusa di un pacco di compiti da correggere, e lasciandomi dieci dollari sul comodino.
Avevo rischiato seriamente di vomitare tanto ero nervosa, ma alla fine il campanello era suonato e io ero corsa ad aprire. Non fu questa gran cosa, ma essendo il mio primo appuntamento decisi che l'attesa ne era valsa la pena.
In quel momento, sdraiata sul letto, mi pentii di aver mangiato tutta quella pasta al sugo. Il mio stomaco era bloccato da una morsa di ansia.
Avevo bisogno di sapere.
Non riuscendo più a stare ferma, saltai su dal letto e mi spogliai, indossando un comodo paio di pantaloncini di cotone e una maglietta a mezze maniche, abbastanza larga da poterci stare due volte.
Raccolsi i capelli in una coda alla bell'e meglio, consapevole di non essere il massimo della bellezza ma sicura che a Jackson non sarebbe importato.
Stavo andando a conoscere la verità su un caso che stava consumando la mia curiosità, non di certo ad un appuntamento al chiaro di luna.
Alle 11.50 decisi di uscire e togliermi il pensiero. Non ce la facevo più a stare in camera.
Superai la sala con il parquet freddo ed aprii la porta finestra che dava sul balcone. Mi ero scordata di mettere le ciabatte ma non avevo voglia di tornare indietro. Me la sarei cavata anche senza.
Come avevo previsto, fuori non c'era ancora nessuno, il che non mi sorprese. Avevo come il sospetto che Jackson non fosse un tipo puntuale.
Malgrado l'aria fosse afosa, tirava un debole venticello fresco che contrastava il tempo e che permetteva di non sudare. In poche parole, si stava bene.
Una folata di vento più forte mi stravolte, scompigliando i capelli già messi male, e liberando una ciocca che mi cadde dolcemente sul viso, incorniciandolo. Non mi dava particolarmente fastidio così non lo scostai.
Dopo dieci minuti il dubbio che Jackson mi avesse tirato un brutto scherzo al fine di scampare alle mie domande e alla mia curiosità, mi si fece strada nella testa, ma decisi comunque di attendere un altro po' e di dargli fiducia. Beh, più che crederci, speravo che mantenesse la parola data.
Fuori era mite. Dalla distesa di terra fertile proveniva lo stridere delle cicale, qua e là, nel prato, potevo scorgere il luccichio di qualche lucciola solitaria.
Era tutto molto tranquillo e confortevole, tant'è che, quando sentii qualcosa appoggiarsi sulla mia spalla destra, sobbalzai.
Girai di scatto la testa, tranquillizzandomi solo quando mi accorsi che era solo Jackson.
-Pensavo non saresti più venuto.- dissi mentre si appoggiava alla ringhiera, accanto a me.
Lo squadrai da capo a piedi. Doveva aver appena finito di fare la doccia, perché i capelli erano bagnati e erano tutti rizzati all'insù, come se ci avesse passato la mano varie volte. Alcune goccioline, poi, imperlavano la linea del collo, dalla mascella fin dentro la scollatura della maglietta grigia, che presentava delle chiazze più scure sul petto.
Evidentemente non esistevano gli asciugamani sul suo mondo.
Quando respirava, quelle chiazze bagnate aderivano al petto, evidenziando alcune linee marcate. Deglutii e distolsi lo sguardo. Non mi importava affatto se Jackson teneva in forma il suo corpo o no.
Non diede segno di voler commentare la mia constatazione, limitandosi a lanciarmi un'occhiata che non seppi interpretare da dietro alla spalla.
Sospirai, imitando la sua postura alla ringhiera. Se aveva deciso di stare in silenzio, lo avrei fatto anch'io. Non volevo abbassarmi al suo livello, porgendogli le domande. Doveva essere lui il primo a parlare.
Dopo due minuti di perfetto silenzio, finalmente si decise a parlare.
-I miei genitori si conobbero in riva al mare e, da quel che mi ha raccontato mia mamma, fu amore a prima vista. Mio padre era in vacanza con la famiglia e mia madre, che durante le vacanze abitava in una casetta al mare, lavorava in un bar. Alla fine dell'estate, dopo tre mesi di feste e risate, decisero di andare ad abitare a New York assieme. Può sembrare una decisione affrettata ma si amavano veramente. Un paio di mesi dopo, mia madre scoprì di essere incinta e subito lo disse a mio padre che ne fu entusiasta. Passarono i successivi nove mesi felicemente. Un anno dopo che ero nato io, alla vigilia del matrimonio, mio padre se ne andò, dicendo a mia madre che non poteva sposarsi, che era troppo giovane per farsi carico di una famiglia. La lasciò sola, capisci?- domandò, girandosi a guardarmi. Il suo volto era privo di espressione.
Aggrottai le sopracciglia. Suo padre se ne era andato quando lui era piccolo. Mentre parlava, mi sembrava di rivivere la miastoria attraverso la sua.
-Per fortuna, mia madre è una donna forte. In qualche modo riuscì ad andare avanti per qualche tempo, ma ad un certo punto non trovò altra soluzione che affidarsi a Gabe, l'unico uomo che accettò di sposare una donna single con un figlio. In questo modo mia madre poteva contare su un maggiore mantenimento, almeno in parte, sul fronte economico durante la mia infanzia. Sai non è facile crescere un bambino molto attivo, da sola. Comunque per tornare al punto, Gabe è l'uomo più infame che abbia mai incontrato. La maltrattava, la usava, la picchiava e, anche se provavo a difenderla, lei mi diceva che andava tutto bene, che era tutto apposto. Malgrado il suo salario poco fittizio, mamma non mi faceva mancare niente.
Per la maggior parte del tempo, Gabe invitava gli amici a casa per una partita a poker, senza farsi mancare birra e sigarette. Puzzava talmente tanto che, all'età di dieci anni, gli affibbiai il nome di Gabe il Puzzone.- Jackson sorrise al ricordo, per poi scuotere il capo.
-Una sera, Gabe tornò a casa più ubriaco del solito e cominciò a insultare mia madre. Quando arrivò alle mani, chiuso in camera mia, chiamai la polizia. Grazie a Dio finì in prigione e tutto divenne più semplice. Io aiutavo mia madre con i soldi che guadagnavo facendo il barista nel tempo libero, mentre la mattina andavo a scuola e studiavo. Mi diplomai con il massimo dei voti, grazie ai quali ricevetti una borsa di studio per l'Università di New York. Tutto andava bene fin quando, un pomeriggio di sei mesi fa, stavo facendo zapping seduto sul divano, e sono capitato su un notiziario che stava facendo passare in sovrimpressione la foto dell'imprenditore di un'importante compagnia. Ero con la testa da tutt'altra parte, ma mi sono ritrovato a pensare che quell'uomo portava al collo la stessa collana che avevo io, e che era appartenuta alla famiglia di mio padre.- Jackson infilò la mano nella maglietta, tirando fuori una collanina d'argento. Il ciondolo ovale, riportava il simbolo di un tridente.
Avevo paura di sentire il continuato del racconto.
-Spinto dalla curiosità andai in Internet per cercare informazioni su quell'uomo. Guardando meglio le varie foto che trovai, mi accorsi dell'incredibile somiglianza tra i miei occhi e i suoi, e non solo quelli. Tutto in li mi ricordava me.- si bloccò un attimo, deglutendo.
-Ovviamente mi venne il dubbio che fossi imparentato con lui. Devi sapere che mia madre non mi ha mai detto molto su mio padre, tranne il minimo indispensabile. Quando io le domandavo qualcosa si limitava ad assumere quel suo sguardo sognante e a dire quanto fosse affascinante mio padre.- guardandolo in quel momento, con i capelli al vento e lo sguardo lontano anni luce, dovetti ammettere, a malincuore, che un certo fascino lo aveva ereditato pure lui.
-Cercai di lasciar perdere, ma la notte, il solo pensiero che quell'uomo potesse aver a che fare con la mia famiglia, non mi faceva dormire. Non potevo chiedere a mia madre perché lo vedevo. Vedevo lo sguardo di mia madre quando parlava di lui. Non l'aveva mai dimenticato, per questo non potevo.- chiuse gli occhi e strinse gli occhi, scuotendo la testa lentamente.
Io non dissi niente. Capivo che, se avessi osato a domandare qualcosa, quell'atmofera strana che si era creata, si sarebbe spezzata, e io non volevo che accadesse.
-Così, tre mesi dopo, non trovando altre notizie interessanti, mi decisi a chiamare un'investigatore privato. È con lui che stavo parlando all'Hotel.- disse alzando il mento.
-Mi disse che quell'uomo sarebbe stato qui in Brasile per un lungo periodo e che, quindi, doveva spostare le ricerca in questo paese. Grazie a due miei amici, venni a sapere che c'era questo progetto, e io rispondevo a tutte le caratteristiche. Quale scusa migliore da dare a mia madre per nascondere il fatto che stavo andando ad indagare sul mio presunto padre in un altro paese? Detto fatto, inviai la richiesta e partii. Dovevi vedere lo sguardo di mia madre quando le dissi che sarei partito per il Brasile per insegnare ai bambini poveri. Era fiera di me.- colsi una nota di risentimento nella sua voce, come se si fosse pentito di esser partito all'insaputa della madre per andare a scoprire l'identità del padre. Per come la pensavo io, non poteva esserci ragione più valida per partire e lasciare tutto.
In quel momento riuscivo a capire Percy Jackson, più di quanto riuscissi a capire me stessa negli ultimi due anni. Il che era assai ambiguo.
Il silenzio si prolungò così tanto, che alla fine decisi di intervenire.
-E cos'hai scoperto?- domandai.
-È mio padre.- rispose con un sussurro.
Mi morsi un labbro, annuendo tra me e me.
-Beh, almeno tu l'hai trovato.- dissi amaramente, maledicendomi subito dopo per essermi lasciata sfuggire quel commento.
Non era assolutamente mi intenzione spifferare la mia vita privata a Jackson.
Mi guardò perplesso.
-Che indenti dire?- Non c'era modo di sfuggire a quella domanda. Ero sicura che, se non avessi risposto, avrebbe continuato ad istigarmi finché non avrebbe ricevuto una risposta che lo soddisfava. Beh, in fin dei conti, lui mi aveva rivelato una parte della sua vita. Perché io non potevo fare altrettanto?
-Mia madre se ne è andata quando io avevo cinque anni.- dissi, mordendomi il labbro inferiore.
Silenzio. Lo avevo spiazzato.
-Mi dispiace.- disse alla fine.
-Oh, non dispiacerti! Siamo sulla stessa barca io e te, ricordi?- dissi cercando di sdrammatizzare. -Comunque credo di dovermi scusare.- aggiunsi restia.- Per averti accusato, intendo. E anche per aver pensato che stessi trafficando droga.-
Jackson scoppio a ridere. Beh, almeno ero riuscita ad alleggerire la situazione già di per sé drammatica.
-Certo che hai un'immaginazione fervida. Comunque non fa niente, davvero. Anch'io avrei pensato male.- calò ancora il silenzio. -Ah, un'altra cosa: chiamami Percy. So benissimo che nella tua testa e con gli altri non riesci a dire il mio nome.- e alzò l'angolo destro della bocca.
Ma che...? Come diavolo faceva a saperlo lui?
Non so quanto tempo passò ma la temperatura si era un po' abbassata e il vento tirava più forte.
Quando ero salita su quel terrazzo non pensavo che la mia opinione su Jackso... Percy, sarebbe cambiata radicalmente, perché, sì, per quanto mi costasse ammetterlo, non era la stessa persona che credevo che fosse. Era... diverso. In meglio, ovviamente, e questo mi faceva piacere perché vivere a stretto contatto con lui per i restanti sei mesi sarebbe stato più semplice.
-Annabeth?- domandò, facendomi ridestare dai miei pensieri.
-Uhm?-
-Posso farti una domanda personale?- mi chiese, voltandosi a guardarmi.
Già dal suo sguardo avrei dovuto capire che non prometteva nulla di buono, o almeno, nulla che mi potesse piacere, ma distratta da altri pensieri, gli feci un cenno con il capo, in segno di assenso.
-Ecco, ho notato che in alcuni momenti hai come... come delle crisi. Posso chiederti se c'è un motivo preciso? Ti è successo qualcosa in passato?-
Colpita e affondata.
Strizzai gli occhi forte e respirai lentamente. NON dovevo andare in crisi. Era una semplice domanda, non mi stava chiedendo cosa avessi provato nel momento in cui lui mi aveva preso, nel momento in cui avevo perso la mia innocenza.
Andava tutto bene.
Scossi la testa con vigore, poi ritrovai il coraggio per guardarlo negli occhi, dove vi lessi perplessità e curiosità.
-P-preferirei non parlarne... io... io non...- fantastico, avevo ripreso a balbettare.
Grazie al cielo, nei suoi occhi vi lessi anche la comprensione. Accennò un sorriso tranquillo, e sulle guance si formarono due fossette incredibili, che non gli avevo mai visto fare.
Io adoravo le fossette.
-Tranquilla, non fa niente.- si bloccò come se volesse aggiungere dell'altro. E lo fece. -Nel caso avessi bisogno di qualcuno con cui parlare, beh, sappi che sono sempre a tua disposizione.- e poi ecco comparire ancora quel suo sorriso pieno di fossette che , avevo deciso, mi piaceva.
Questo non voleva dire che mi piacesse lui, sia chiaro!
Avevamo fatto pace, è vero, ma non è che tutto ad un tratto fossimo diventati migliori amici per la pelle.
-Okay.-
Stettimo ancora un po' sul terrazzo, mentre la notte si faceva più fitta e la temperatura più fredda. Alla fine decidemmo di rientrare.
Avevo una mano appoggiata alla maniglia della mia camera e Percy mi aveva superato, per andare nella sua, quando si bloccò e mi si avvicinò.
Sotto i miei occhi perplessi, protese una mano.
-Amici?-
Allungai la mano a mia volta e ricambiai la stretta.

Love the way you live     [PERCABETH]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora