Capitolo 18

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Rio de Janeiro, la stessa mattina


Annabeth


Il rumore della porta sbattuta si propagò nella stanza per quelli che a me parvero millenni.
E io stavo ancora lì, immobile, con lo sguardo puntato alla finestra ma senza che la vedessi realmente. Tenni aperti gli occhi per così tanto tempo che, ad un certo punto, cominciarono a lacrimarmi per il bisogno di sbattere le palpebre. Con uno scatto, li serrai tenacemente, chinando il capo con il mento al collo. Strinsi e allentai i pugni ad intermittenza, mentre un piccolo singulto scuoteva le mie spalle.
Percy se n'era andato e sapevo che non sarebbe più tornato.
Percy se n'era andato e io l'avevo ferito.
Percy se n'era andato ed era tutta colpa mia.
Perché ero così masochista? Perché dovevo comportami in quel modo? Per quanto cercassi di giustificare le mie azioni, sapevo che non potevo fare in nessun altro modo. Ero stata costretta a dire quelle cose anche se, la verità, era un'altra.
Non potevo, non potevo confessargli di amarlo. Non potevo lasciarmi andare. Non potevo essere felice, non se questo significava sacrificare me stessa.
Calde lacrime mi solcarono le guance, e per la seconda volta piansi. A differenza della sera prima, cercai di trattenermi il più possibile perché non volevo che lui sentisse il mio dolore, non volevo che tornasse.
Ero in guerra con me stessa: una parte di me voleva che Percy venisse a bussare, aprisse e insistesse, finché io non fossi crollata; l'altra, quello che al momento predominava, pensava che mi meritassi quella sofferenza e che lui dovesse restare dov'era.
Quando il sole era ormai alto nel cielo, e dal corridoio percepii un leggero profumino di arrosto, mi destai per la prima volta da che Percy se n'era andato. Con stizza mi asciugai le guance, passando il dorso delle mani sulla faccia, poi vidi il telefono per terra, dove la sera prima l'avevo lanciato e lo raccolsi.
Per fortuna era solo un po' ammaccato nell'angolo in alto. Lo sbloccai e vidi l'avviso di chiamata persa di Piper; non ero affatto pronta a richiamarla così posai l'aggeggio sulla scrivania e mi sedetti sul letto, con lo sguardo puntato alla scrivania.
E fu allora che lo vidi: il regalo di Percy.
Senza indugiare oltre lo presi, portandomelo in grembo. Lo rigirai tra le mani, soppesandolo, indecisa su cosa farne. Mai come prima dall'ora avevo desiderato così tanto di scartare un pacchetto: avevo bisogno di percepire un legame vero con Percy.
Freneticamente ruppi la carta, staccando lo scotch che la teneva chiusa; appoggiai lo scarto sulla coperta e sospirai di sorpresa.
Tenevo in mano una scatola di cartone, con un lato trasparente, di plastica. Al suo interno scorgevo quello che era destinato a diventare il regalo più stupido ma prezioso che avessi mai ricevuto.
Con le mani che tremavano leggermente, aprii la scatoletta ed estrassi una cornice d'argento, al cui interno vi era una foto di cui ne ignoravo completamente l'esistenza.
Probabilmente era stata scattata con un cellulare, perché la qualità non era alta, ma il fotografo era stato abile a catturare il momento. Nell'immagine io ero girata leggermente di profilo e sorridevo a Nico, il quale mi faceva la linguaccia.
Eppure non potevo essere veramente io quella ritratta. La ragazza sorrideva così tanto che sembrava illuminare di luce propria la situazione, mentre gli occhi le brillavano. Mi ricordavo quel momento: eravamo al luna-park e avevo appena rubato un pezzo di zucchero filato dal bastoncino di Nico, a sua insaputa. Quando lui se n'era accorto aveva fatto una faccia così buffa che non ero riuscita a trattenermi dallo scoppiare a ridere.
Mi riscossi dalla trance in cui ero caduta e notai un biglietto, infilato dietro la cornice. Lo girai e non potei fare a meno di sorridere, leggermente, quando lessi il contenuto.

"Ho pensato che volessi avere questa foto. Sei bellissima.
Percy
"


***I due giorni successivi furono, forse, i più tristi della mia vita, il che era tutto dire. Vivevo in una specie di stato catatonico, guidata solo dalla necessità di compiere i miei doveri.Avevo messo la cornice con la foto sul mio comodino e, ogni notte, quando finalmente la stanchezza mi spingeva ad addormentarmi, l'ultima cosa che vedevo era l'immagine e il bigliettino di Percy, che avevo inserito nell'angolo in basso a destra.Non ero ancora giunta ad un conclusione riguardo all'accaduto perché ero in guerra con me stessa: da una parte, il cuore voleva che andassi subito a scusarmi con Percy, implorandolo di perdonarmi, ma dall'altro, il timore e la testardaggine suggerivano di non fare nulla, di aspettare. Ma aspettare cosa, esattamente?Non ce la facevo più a stare così male, non quando la felicità era lì a due passi dall'essere afferrata. Credevo seriamente di meritarmi un po' di pace, ma la paura di ricadere in qualcosa che mi avrebbe ferito maggiormente, mi bloccava.Dal canto suo, Percy mi evitava in qualsiasi modo, e io non potevo biasimarlo.Durante i pasti, quand'eravamo costretti alla stessa tavola in presenza di altre persone, limitava i contatti al minimo indispensabile. Ma in macchina, mentre andavamo a scuola, non un mosca si sentiva. Era come se, l'atmosfera, si fosse raffreddata improvvisamente, congelando la sua faccia e i miei pensieri. Perché, sì, nel momento in cui eravamo solo noi due, il mio cervello di bloccava e, qualsiasi intenzione avessi, andava a quel paese.Avevo paura, paura di aver perso per sempre il ragazzo di cui mi ero innamorata.L'unica volta in cui il mio sguardo incrociò il suo, durante la pausa pranzo, mi pentii di averlo fatto perché, nei suoi occhi, lessi una tristezza e un distacco così grande da far sembrare il Grand Canyon un piccolissimo divario.Il terzo giorno dalla Grande Serata, così avevo soprannominato il Bacio, scesi a fare colazione come sempre, tenendo gli occhi bassi per evitare di incrociare quelli di Percy.Avevo come la sensazione che Chintia avesse capito che qualcosa tra noi due non andava perché mi lanciò un'occhiata perplessa, ma ebbe la decenza di non chiedere e di tornare ai fornelli quando io scossi la testa.Quando chiusi la portiera dell'auto, mentre Percy faceva il giro per prendere il posto del guidatore, lo seguii con lo sguardo, notando per la prima volta delle occhiaie leggermente marcate che gli incorniciavano gli occhi. Sembrava non dormire da tanto.Probabilmente fu quello, oppure il modo in cui sospirò mentre accendeva il motore, ad infondermi il coraggio necessario a parlargli, per la prima volta da giorni. Non so esattamente cosa volessi ottenere. Certo, non ero né stupida né ingenua, quindi pretendere che lui mi perdonasse nel momento in cui io avessi fatto il primo passo era impensabile, ma dovevo fare qualcosa per sistemare quella situazione.Non avevo perso solo l'occasione di avere un ragazzo, ma anche un amico vero.-Percy?- chiamai con un mormorio, voltando il capo nella sua direzione.Lui mi lanciò un'occhiata che, se avesse potuto, mi avrebbe trasformata in una statua di ghiaccio, simile a quella che avevo visto al Galà, ma non disse nulla.Deglutii, pensando che stesse arrivando la parte più difficile, ma presi un bel respiro, sicura di ciò che stavo per dire.-Mi... mi disp- qualsiasi intenzione avessi fu bloccata sul nascere quando lui alzò una mano.-No.- la sua voce era bassa, ma se avesse urlato probabilmente sarebbe stato meglio. -Se stai per dire che ti dispiace evita di parlare.-Una pugnalata, ecco cos'era quella; un coltello dritto nel cuore.-Ma, io...--Stai zitta, Annabeth, stai zitta, ti prego. Non ti voglio sentire.- disse sempre con la stessa finta calma. Non provai nemmeno a ribattere, quella volta, perché non riuscivo più ad emettere un suono. Avevo timore che, se mi fossi imposta con le parole, sarei anche scoppiata a piangere. E lo avrei anche fatto se non fossimo stati vicini alla scuola. Quei bambini non avevano bisogno di altri problemi -i miei problemi-.
Strizzai gli occhi, rispedendo indietro le lacrime che minacciavano di uscire; io ero forte, dovevo essere forte anche se faceva molto male. Per il resto del viaggio appoggiai la testa sul finestrino e feci finta di riposare: se non lo vedevo era meglio.

***-Annabeth?-Ero così distratta che fu un miracolo se sentii una voce chiamarmi. Le lezioni erano cominciate solo da poco ma non ci stavo con la testa, in nessun modo. Riconoscendo di non essere affatto in grado di tenere una spiegazione, avevo ripiegato sul dare ai bambini un esercizio, preparato in precedenza a casa. In quel modo speravo di potermi sedere alla cattedra e fare il punto della situazione o, nel caso, solo di riprende la mia solita compostezza. Stavo lavorando con dei bambini, santo cielo.Per quanto odiassi ammetterlo, ciò che Percy mi aveva detto poco prima, mi aveva scosso nel profondo, mutilando anche quella piccola parte di me che ancora era intatta. Percy mi odia, mi odiava sul serio.Stavo per andare alla lavagna ma mi fermai nel momento in cui qualcuno mi chiamò. Voltai la testa verso sinistra e vidi Nico seduto al suo banco, posto vicino alla cattedra. Aveva una matita in mano e metà dell'esercizio assegnato era già stato completato. Con la testa leggermente piegata di lato, sul volto aveva un'espressione leggermente corrucciata, con gli occhi grandi.Vedendolo mi ritornò in mente la foto incorniciata che ora stava sul mio comodino, il regalo di Percy. Il paragone tra quel momento e quello che stavo vivendo non avevano nulla in comune, ma non rimpiangevo neppure un singolo istante passato in compagnia di quei due. -Hai bisogno di aiuto con l'esercizio, Nico?- domandai, portandomi una ciocca di capelli sfuggita dalla coda, dietro all'orecchio. Ero così scombussolata quella mattina, come le tre precedenti, da aver scordato di passarmi la spazzola. Non osavo immaginare l'aspetto che avevo.Nico scosse la testa energicamente, mantenendo l'espressione corrucciata. Storse la bocca leggermente a destra e, sulla sua guancia, si formò una piccola fossetta. Ero accerchiata da persone con le fossette. Oddio, no.
-Annabeth, sei triste?- mi chiese, serissimo.
Mi bloccai sul posto, agghiacciata. Quella era una domanda che nessun bambino non avrebbe mai dovuto fare ad un adulto, per nessun motivo. Ai loro occhi, i grandi erano delle rocce imponenti, immuni a qualsiasi cosa. Ricordavo ancora il senso di angoscia e tristezza che avevo provato nel momento in cui mia mamma era uscita di casa, per non tornare mai più. Vederla fare i bagagli e infilare il cappotto per uscire in fretta da quella casa mi aveva colpito più di quello che avrei ammesso se qualcuno me lo avesse chiesto. Da piccoli si è soggetti a sbalzi di umore continui, e siamo più inclini a farci condizionare dagli agenti esterni. Si è perspicaci, si coglie subito la nota negativa della situazione. Ma nei nostri genitori, nelle figure adulte più vicine a noi, vediamo un punto di riferimento, un appiglio a cui aggrapparci per trovare la stabilità.
In meno di un'ora, Nico era riuscito a capire –percepire- il mio stato d'animo solo guardandomi. Ero preoccupata, molto preoccupata che anche gli altri si fossero accorti che qualcosa non andava ma, lanciando una rapida occhiata alla classe, mi accorsi che i bambini erano tutti impegnati con l'esercizio.
Guardai Nico, che attendeva una risposta, e sospirai.
Non potevo confidargli i miei sentimenti, non potevo rispondere con sincerità alla sua domanda, non potevo spiegargli il problema. Era solo un bambino e io ne ero responsabile. Io ero un'adulta ed era arrivato il momento di comportarsi come tale anche se questo voleva dire mentire.
-No, Nico, non sono triste.- e per dimostrarglielo cercai di fare un sorriso, ma il tentativo non doveva essermi uscito molto bene perché lui scosse il capo.
-Stai mentendo, Annabeth.- disse serio. –Comunque se hai qualche problema, se qualcuno ti infastidisce, dillo a me che ci penso io.- aggiunse con solennità e, come per sottolineare le sue parole, strinse le mani a pugno, assumendo una vaga posizione di guardia.
Rimasi basita per qualche secondo, non riuscendo bene a comprenderne il significato, ma poi scoppiai a ridere per la prima volta da giorni. Nico era così buffo che non riuscivo proprio a trattenermi.
Sentii un moto di gratitudine e sollievo avvolgermi le membra e, mentalmente, ringraziai il Signore per avermi fatto incontrare quel bambino che era un regalo sceso direttamente dal Cielo.
Nico mi guardò ridacchiare, confuso, ma poi accennò un sorriso incerto e io non potei fare altro che allungare una mano e accarezzargli la testa.

***Ero in Brasile da circa due mesi, ormai, ma con tutti gli impegni che avevo avuto e le "gite" con Percy, non mi ero quasi mai concessa un momento di riposo nel salotto della fattoria. Di solito, nel pomeriggio, appena tornavamo da scuola, ci fermavamo a chiacchierare sul terrazzo o, in alternativa, mi ritiravo in camere per preparare la lezione del giorno dopo, in seguito ad una bella doccia fredda. Ma avevo terminato di leggere tutti i libri che mi ero portata da casa, faceva troppo caldo per uscire e Percy non mi evitava come la peste. Grover era uscito per andare a fare qualche commissione per Chintia e quest'ultima era andata a fare la spesa. L'unico essere vivente in casa che ancora non era arrabbiato con me era un gatto obeso. Sentivo di aver bisogno di stare con qualcuno che respirava e, non avendo molte altre alternative, quel pomeriggio avevo deciso di andare a cercare Frappola per la casa. Sapendo bene che il suo posto preferito per dormire era la sala mi ero diretta lì dove, in effetti, il gatto stava acciambellato su una poltrona. Avevo urgente bisogno di pensare ma sia la mia camera che il terrazzo non andavano bene. La prima perché era il posto dove avevo litigato con Percy, mentre nella seconda ci eravamo baciati. O meglio, io l'avevo baciato. Così, mi ero seduta sulla poltrona adiacente a quella su cui dormiva il gatto, e mi ero messa a fissarlo. Frappola doveva aver percepito il mo arrivo perché aveva aperto gli occhi e non aveva esitato a sdraiarsi sulle mie gambe. La domanda che mi aveva fatto Nico quella mattina mi turbinava ancora in testa; ero consapevole di non essere mai stata completamente felice negli ultimi due anni e, nei giorni precedenti il mio livello di tristezza aveva raggiunti i massimi storici, ma mi si leggevano così bene in faccia i sentimenti?Sapevo con certezza che, dalla sera dello stupro, avevo eretto un muro, costruendo una bella maschera impassibile per la faccia. Ora, però, temevo che quella protezione si fosse spezzata, in seguito al mio crollo emotivo. Sentivo i miei sentimenti più ampliati, più liberi di scatenarsi, come se l'argine che li conteneva si fosse rotto. Forse era un bene che io stessi tornando pian piano come prima, una ragazza normale. O forse no. Che sarebbe successo se, invece di oppormi, mi fossi lasciata andare con Percy? Sapevo qual'era la risposta, ma la ignorai. Nel prima io ero una normale ragazza che aveva appena terminato il liceo, spensierata, obiettivamente immersa nello studio per costruirsi un futuro e un po' interessata ai ragazzi. Ma ero debole e questo era uno dei motivi principali per cui mi ero spezzata dopo l'accaduto. Ero fragile, soggettivamente ingenua e convinta che il mondo fosse tutto, o quasi, rose e fiori. Un ragazzina, ecco cos'ero.
Sapevo anche che l'unico motivo per cui ero riuscita a resistere per ben due anni senza crollare miseramente era che mi proteggevo da tutto e da tutti.
Ma ora le cose erano diverse; io ero diversa.
La situazione differenziava completamente da quella del prima. Conoscevo i rischi, le conseguenze, sapevo com'era il mondo e cosa mi aspettava. Ma non era solo il contesto ad essere diverso: Percy non era Luke e nemmeno Ethan. Era un ragazzo gentile, altruista, responsabile, abbastanza uomo da ammettere che gli piacevo. E io dovevo farmene una ragione.
Accarezzai Frappola, passando distrattamente le mani nel suo pelo folto. Fuori c'erano trenta gradi e il gatto mi stava facendo fare la sauna alle gambe ma non mi importava.
Percy mi mancava, mi mancava in modo assurdo e lo stomaco mi si chiudeva in una morsa se pensavo al modo in cui mi aveva parlato quella mattina, in macchina. Era stato talmente freddo e distante da non sembrare lui. Nemmeno quando ci eravamo conosciuti in aeroporto si era comportato così.
Non ce la facevo davvero più a sopportare quella situazione così, presa da un disperato bisogno di sentire una voce amica, recuperai il telefono dalla tasca dei jeans, che era un po' ammaccato dal colpo subito quando lo avevo gettato contro il muro, e composi il numero di Piper.
Lanciando un'occhiata all'orologio da polso, immaginai che fosse ad una qualche festa oppure sdraiata in riva alla piscina della villa di suo padre con Jason. Non dubitavo affatto che avesse con sé il cellulare e, infatti, dopo appena due squilli rispose con voce squillante e allegra.
-Ehi, tesoro! È onore ricevere una tua chiamata. Cominciavo a temere che ti fossi dimenticata di...-
-Piper.- non dissi altro, solo il suo nome, imprimendo nella tono di voce basso che avevo usato un tacito grido d'aiuto, nella speranza che lei capisse. Dopotutto, era la mia migliore amica per un motivo ben preciso. Piper poteva sembrare solo un'ingenua ragazza ricca, succube della ricchezza del padre, ma era molto, molto di più, e io lo sapevo allo stesso modo in cui lei era in grado di interpretare ogni mio gesto. Eravamo legate, senza dubbio, e per l'ennesima volta in molti anni fui felice di averla incontrata.
Smise subito di parlare, e io percepii il suo repentino cambio di atteggiamento.
-Annabeth?- ora era seria. Pensai che si fosse messa a sedere sulla sdraio, portandosi gli occhiali da sole sulla testa. -È tutto ok? Stai bene?-
Con due sole domande era riuscita ad indovinare il motivo per cui l'avevo chiamata, giungendo al fulcro del mio problema. Nelle numerose chiamate fatte con Piper, malgrado i suoi vari tentativi di chiedermi come andasse con Percy, nella segreta speranza di un risvolto interessante, ero stata muta come un pesce, decisa a mantenere una certa riservatezza sull'argomento. Non riuscivo ad ammettere nemmeno con me stessa i miei sentimenti, figurarsi confessarli a qualcuno.
Ma ora riconoscevo di aver bisogno di un aiuto, se non altro perché non riuscivo più a tenermi tutto dentro e Piper era la persona più indicata a cui mi potessi rivolgere, per non parlare del fatto che fosse l'unica persona di cui mi fidassi per chiedere consiglio e confidarmi.
-No.- mormorai, ricacciando indietro il groppo in gola improvviso. Se avessi parlato più forte la mia voce si sarebbe spezzata sicuramente. –Non va bene niente.-
-Annabeth, ascoltami, respira. Con calma.- me la immaginai vicino a me, sussurrandomi all'orecchio mentre mi metteva un braccio intorno alle spalle, anche se io ero più alta di lei. –Ce la fai a raccontarmi tutto, dall'inizio?-
Deglutii e, per sbaglio, strinsi con un po' troppa forza il pelo folto di Frappola che, dopo avermi lanciato un'occhiataccia, scappò via, con il muso alto e la coda che ballonzolava.
-È complicato.- dissi. –Ho fatto un casino, Piper, ed è tutta colpa mia.-
Mi riservai alcuni secondi per raccogliere i pensieri e le idee che mi turbinavano in testa, poi cominciai a raccontare alla mia amica il percorso che mi aveva portato ad innamorarmi di Percy. Lei stette in silenzio per tutto il tempo, dimostrando di essere un'ottima ascoltatrice, intervenendo solo una volta: le avevo appena detto del bacio in terrazza e lei si era lasciata sfuggire un gridolino di gioia, per poi scusarsi. Dopotutto, riuscivo a capirla: non baciavo un ragazzo da... beh, secoli e immaginavo che la storia l'appassionasse molto, visto il suo sfrenato interesse nei confronti dei ragazzi. Accennai anche al fatto che lui mi piacesse, ma accantonai quel discorso in fretta.
Alla fine arrivai al litigio, a come lui se ne fosse andato e la conversazione di quella mattina.
-Oh, Annabeth. Mi dispiace così tanto...- la sua non era pietà, lo sapevo, semplicemente stava cercando di mettersi nei miei panni come aveva cercato di fare negli ultimi due anni. Il pregio migliore di Piper era proprio quello: non giudicava affatto le persone per quello che facevano o per le scelte che prendevano. Se gli stavi a cuore faceva di tutto pur di essere d'aiuto in qualche modo.
Troppo nervosa per restare seduta, presi a camminare per il salotto, avvicinandomi alle finestre: fuori tutto era tranquillo, non una foglia di muoveva.
-Non so cosa fare, Piper! Non sono nemmeno sicura di dover fare qualcosa.- ammisi.
-Tranquilla, Annabeth.- in sottofondo sentii il cane di Piper abbaiare e lei sospirare. -Quel che è certo è che devi fare qualcosa per rimediare. Vai a parlargli, costringilo ad ascoltarti. Confessagli tutto ciò che provi.-
-Ma non mi vuole più vedere! Come faccio a farmi sentire se ogni volta cambia strada per evitare il mio sguardo?- chiesi.
Lei stette in silenzio per un paio di secondi poi riprese a parlare, ponendomi la domanda più difficile a cui dare una risposta. In tutti quegli anni di amicizia non avevo mai faticato così tanto nel parlarle.
-Tesoro, ami sul serio quel ragazzo?-
Contro ogni mia previsione, però, non esitai. -Sì, Piper, lo amo.-
Era la prima volta che lo dicevo a voce alta e, in qualche modo, questo lo rendeva più reale, più vero. Potevo ripetermelo all'infinito nella mia testa, ma non era la stessa cosa se lo si diceva a qualcuno.
-Allora vai e conquistalo. Dopotutto, te lo meriti.- disse la mia amica.
Accennai un sorriso, sentendo un senso di pace e speranza avvolgermi. Parlare con Piper mi aveva aiutato come nessun'altro avrebbe potuto fare. La salutai, promettendole di tenerla aggiornata in caso di novità. Stavo per attaccare quando lei mi chiamò.
-Annabeth?-
-Sì?-
-Si sistemerà tutto, tesoro, vedrai.- lo disse come se ci credesse davvero. Apprezzai molto la sua sicurezza: era ciò che mi serviva in quel momento.
-Lo spero, Piper, lo spero sul serio.-

***Tra dire e il fare c'è di mezzo il mare. Non impiegai molto a capire appieno il significato di quel detto. Mentre parlavo con Piper la speranza aveva avuto la meglio e non mi era parso poi così impossibile salire le scale e cercare di chiarire con Percy; anzi, per un momento era sembrato quasi facile.
Beh, mi sbagliavo alla grande.
Appena schiacciai il tasto di fine chiamata sul cellulare, tutto il debole coraggio che avevo accumulato svanì, dissolvendosi in una bolla di ingenuità e incredulità. Percy non mi voleva nemmeno vedere: quella era la realtà.
Nel mentre Chintia e Grover erano tornati a casa, quasi in contemporanea, e l'ora della cena era giunta in fretta, prima ancora che io mi decidessi ad alzarmi dalla poltrona in cui ero sprofondata. Simulando un improvviso mal di testa dovuto al troppo caldo, saltai la cena, rintanandomi nella mia camera. Chintia non era affatto contenta che io stessi a stomaco vuoto, ma io la tranquillizzai, dicendole che se mi fosse venuta fame sarei scesa in cucina, felice di mangiare gli avanzi: meno vedevo Percy, meglio era per la mia salute mentale.
Passai l'ora seguente a rimuginare, camminando ininterrottamente avanti e indietro nella mia camera. Dovevo prendere una decisione: agire e non avere ripensamenti oppure starmene per i fatti miei, come una codarda. Piper aveva ragione: non potevo sul serio credere di poter continuare a vivere con quel peso sulle spalle.
Ad un certo punto, da fuori, sentii le chiacchiere di Percy e Grover avvicinarsi sempre più, bloccandosi davanti alla mia porta dove si salutarono, dandosi la buonanotte: il primo proseguì lungo il corridoio mentre l'altro entrò nella sua camera, che stava difronte alla mia. La cosa non mi stupì molto dato che Grover si alzava molto presto la mattina; avendo bisogno anche lui di dormire un po', tendeva ad andare a letto molto presto. Percy invece, da quando avevamo discusso, si chiudeva nella sua camera e Dio solo sapeva cosa facesse lì dentro. Dubitavo fortemente che si mettesse a dormire presto, ma come già mi ero domandata in passato, mi pareva strano che non uscisse un po', la sera.
In questo modo, però, la situazione sembrava volgere a mio favore: sapevo dove trovarlo.
Chiusi gli occhi e sospirai, raccogliendo tutto il coraggio -poco- che mi restava in corpo. Mi passai la mano tra i capelli nervosamente, spingendo in dietro quelli che mi cadevano sulla faccia, poi aprii la porta e uscii.
Marciai nel corridoio, la testa alta e il cuore a mille. Ce la dovevo fare, per forza. Prima che perdessi tutto il coraggio, bussai alla sua porta e, due secondi dopo, entrai.
Sì, esatto, aprii la porta della sua camera senza aspettare una invito ad entrare. Ora, probabilmente starete pensando che fosse un gesto troppo avventato e incosciente, e avrete tutte le ragioni. Se fosse stato nudo come mamma l'aveva fatto? Beh, grazie al Cielo, era vestito di tutto punto quindi non si verificò alcun episodio imbarazzante ma, ripensandoci, forse avrei fatto meglio ad attendere. Ehi, ero nervosa e molto, molto determinata!
Comunque, entrai, premurandomi di chiudere la porta alle mie spalle: prevedevo una lunga conversazione, a meno che lui non mi cacciasse nel corridoio a calci nel didietro.
Percy se ne stava sdraiato sul suo letto, supino, con un libro aperto sulla pancia e il ciondolo a forma di tridente in mano.
Nella posizione in cui era, non gli fu affatto difficile lanciarmi un'occhiataccia nel momento esatto in cui mi fermai davanti al suo letto. Stranamente, il fatto che fossi entrata nella sua camera all'improvviso non pareva averlo colto di sorpresa. Eppure mi parve di scorgere un breve lampo di confusione e disagio nei suoi occhi.
-Prego, entra pure. Fai come se fosse camera tua.- disse ironicamente, tornando a giocherellare con la collana.
Mio malgrado arrossi, sentendo un'ondata di calore salirmi su per il collo e la faccia, ma strinsi le labbra e incrociai le braccia. Il cuore continuava a battere furiosamente nel mio petto. Vederlo lì, con i capelli scompigliati sul cuscino e una maglietta verde che richiamava il colore dei suoi occhi, accese in me una senso di malinconia.
-Ebbene? Hai bisogno di qualcosa?- chiese, alzando un sopracciglio. -Se sei venuta solo per perdere tempo con delle stupide scuse puoi benissimo andartene. Non ho tempo da perdere.-
Incassai il colpo chiudendo gli occhi per un breve istante. Mentalmente continuavo a ripetermi un semplice mantra per convincermi a continuare, a non mollare.
Sta solo cercando di proteggersi, Annabeth. L'hai ferito, l'hai deluso. Lui non è così.
-No, non me ne vado.- cercai i suoi occhi con insistenza. Doveva guardarmi. -Devo parlarti. Ti chiedo solo di ascoltarmi per pochi secondi, poi ti lascerò in pace, promesso.-
Percy aggrottò le sopracciglia, visibilmente indeciso su cosa fare.
-Ti prego.-
Quella supplica sembrò essere decisiva: mi fece un cenno con il capo mentre si alzava dal letto, appoggiandosi alla parete adiacente.
Feci un respiro profondo, e mi stupii di quanta calma ci fosse dentro di me: ora che era arrivato il momento della resa dei conti non sentivo assolutamente nulla. Era come se tutto l'ansia e il nervosismo fossero evaporate al chiaro di luna. Era rimasta solo tanta sofferenza e dolore, e anche un pizzico di speranza; finché c'era quella tutto sarebbe andato bene. Nell'ora precedente mi ero arrovellata il cervello per preparare un discorso coerente ed esauriente ma, assieme all'ansia, sembrava essere sparito pure quello, così non mi restò altro che improvvisare, attingendo solo ai miei sentimenti.
-Se devo essere sincera quello che è successo Sabato sera non era programmato. Anzi, non sapevo neanche di avere il coraggio di farlo. Ma tu eri lì e...- arrancai, non trovando le parole per spiegarmi. Percy mi osservava, completamente concentrato su di me.
Ricominciai. -Tutto sommato la mia è stata una vita abbastanza spensierata, se si escludono un paio di episodi. Ho un padre che mi ama e una migliore amica sempre presente. Ma, da quando mia madre se né andata, anche la parte di me che si fidava incondizionatamente delle persone è scomparsa. Tutto sommato, però, ho cercato di vivere gli anni delle superiori con normalità, convinta di essere uguale alle altre ragazze.- deglutii, mentre mi toccavo un lobo dell'orecchio con la mano.
-All'improvviso tutto è cambiato. All'improvviso la realtà si è trasformata in un incubo. Ho passato due anni della mia vita annullandomi, concentrandomi solo ed esclusivamente sullo studio, l'unica cosa che mi permettesse di fuggire per un po' da quell'Inferno. È stato difficile, ma pian piano ho costruito il mio mondo, fatto di convinzioni e prevenzioni. Era un equilibro instabile.- feci una pausa.
-Poi mio padre mi ha convinto a partire per questo progetto e io ho accettato principalmente perché non volevo deluderlo ancora un volta. Ero stanca di tutti gli sguardi pietosi che la gente mi rivolgeva e ho pensato che cambiare aria non mi potesse fare male. Non avevo alcuna aspettativa riguardo a questo viaggio ma tutto è cambiato, di nuovo. Ho attraversato momento bui che non ti sto a spiegare, e ho conosciuto persone.- no, quello non era completamente esatto. -Ho conosciuto te, Percy.-
Ero consapevole di non essere stata affatto chiara sul mio passato, ma non ero pronta. Speravo solo che a lui bastasse.
-Non ho mai voluto farti del male, mi devi credere.- ripresi. -Faccio molta fatica a fidarmi e non sono abituata ad aprirmi. Ma ho sbagliato a comportarmi in quel modo con te e mi dispiace, sul serio.-
Restammo a guardaci in una strana situazione di stallo. Nessuno dei due parlava. Il modo in cui mi guardava, come se avesse sofferto anche lui, come se stesse soffrendo... non potevo più sopportarlo. Quella distanza non stava facendo bene né a me né a lui.
-Annabeth, sinceramente non so cosa dirti. Ti credo quando dici che non avevi cattive intenzione, ma non mi basta.- sapevo benissimo cosa intendeva: voleva che gli confessassi il mio segreto, come lui aveva fatto con il suo. Ma io rimasi in silenzio.
-Sono esausto.- evitò di guardarmi, puntando lo sguardo alla finestra sulla sua destra. -Mi hai detto tutto quello che volevi dirmi?-
Per quanto mi sentissi morire dentro per quello parole, ero determinata a finire il discorso.
-No.-
Percy alzò un sopracciglio. -No? C'è altro?-
-Sì.-
-Dimmi.-
-Avevi ragione, l'altro giorno. Quel bacio ha significato molto anche per me, perché la verità è che sono innamorata di te, Percy.- okay, l'avevo detto. Mi sentivo come se una grandissimo masso si fosse spostato dal mio stomaco.
Passarono secoli in cui riuscii a pentirmi di aver parlato: provavo imbarazzo e vergogna. E se lui mi avesse detto che, in quegli ultimi giorni i suoi sentimenti per me fossero spariti? Non sapevo se fosse possibile ma, ehi, mi ero appena dichiarata al ragazzo che amavo ed ero quasi nel panico.
Il suo volto era un insieme caotico di emozioni che non riuscii a decifrare. Alla fine Percy annuì, lentamente, muovendo un passo e poi un'altro nella mia direzione.
-Sei sicura, Annabeth? Perché da qui non si torna più indietro.- mi stava lasciando un'ultima possibilità di andarmene. Ma, sinceramente, ero stanca di scappare con la coda tra le gambe, e volevo con tutta me stessa che Percy fosse mio.
Annuii.
-Se lo vuoi veramente, allora devi promettermi che non mi metterai mai in secondo piano, come io non lo farò con te. Non ho intenzione di restare all'oscuro della tua vita perché mi interessa ogni singola cosa che ti accade. Devi cominciare ad aprirti e fidarti di me, un passo alla volta, altrimenti questa storia non potrà mai funzionare. Credi di poterci riuscire, Annabeth?-
Aveva ragione e, in realtà, io mi fidavo già di lui, anche se non completamente. Mossi il capo su e giù.
Sul volto di Percy comparve un sorriso lento, con le fossette, mentre si avvicinava e allargava le braccia per stringermi a sé. Il cuore saltò un battito quando respirai il suo profumo nell'incavo del collo.
Era tornato.
Restammo così per un po', beandoci del calore reciproco. Mi sentivo bene, ero esattamente a metà strada tra la felicità e l'euforia.
-Non ti farò alcuna pressione, okay? Sappi solo che, quando sarai pronta a parlare, io sarò qui, sempre.- mormorò mentre appoggiava la fronte sulla mia.
Aprii gli occhi, incontrando i suoi.
-Ehi.-
-Ehi.- e mentre sussurravo quell'ultima parola, si avvicinò, posando le labbra sulle mie.

Love the way you live     [PERCABETH]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora