Capitolo 25

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«Ho fame.»
Spostai la mano verso l'interno, mettendo una certa forza nel movimento  del polso. Essendo lisci e molto scuri non sembrava, ma i capelli di  Nico erano nemici giurati di qualsiasi spazzola e quella mattina avevano  deciso di dichiarare guerra al mio pettine blu. Così, non solo il mio  polso cominciava a dolere, ma Nico non smetteva un attimo di agitarsi  sullo sgabello e a lamentarsi di stargli strappando tutti i capelli  dalla nuca.
«Appena finisco scendiamo a fare colazione, promesso» dissi, cercando di  districare una ciocca particolarmente ostinata e, allo stesso tempo, di  non tirare troppo per evitare di fargli ancora del male.
Probabilmente Nico non gradì la combinazione delle mie parole con il  movimento della spazzola perché sporse il labbro inferiore e incrociò le  braccia al petto. «Ma è un oooora che mi stai pettinando, Annabeth!»  protestò, incrociando il mio sguardo allo specchio.
Non era colpa mia se odiava passarsi il pettine al mattino, ma dal  momento che lo avevo aiutato a prepararsi per la giornata, non potevo  permettere che non si sistemasse un minimo anche i capelli.
Sospirai, alzando gli occhi al cielo: quel bambino era una trottola  anche di mattina presto. Il sole e i suoi raggi avevano già fatto la  loro timida comparsa all'orizzonte scuro – si preannunciava un bel  temporale – ma Nico sembrava aver appena bevuto una tazza di caffè.
«Okay, ho finito» dissi, appoggiando il pettine sulla base del lavandino del bagno. «Forza, campione. È ora di colazione!»
Mentre Nico alzava i pugni al cielo liberando un urlo di esultazione,  feci passare le mani sotto le braccia di Bianca e la presi in braccio,  sollevandola dal pavimento. La piccola era rimasta tutto il tempo seduta  a terra a guardare il fratello lamentarsi, ridendo sporadicamente delle  sue facce di sofferenza che lei, evidentemente, trovava buffe. Dovevo  solo ringraziare il cielo che Bianca fosse una bambina molto brava,  altrimenti, se si fosse messa a strillare mentre cercavo di sistemarla  un po' dopo la notte, avrei fatto molta più fatica.
«Nico, non correre sulle scale altrimenti rischi di cadere!» urlai  rivolta al corridoio dove lui era già scomparso, probabilmente diretto  al piano inferiore. Ovviamente era una raccomandazione inutile: sentii  distintamente i suoi passi leggeri sugli scalini uno di seguito  all'altro e il successivo tonfo sordo di chi atterra pesantemente sul  pavimento di legno dopo un salto.
Tutta quell'energia, in effetti, era un bel po' fuori dall'ordinario per  Nico. Non l'avevo mai visto così impaziente per qualcosa e, sebbene non  l'avesse ancora nominata, ero sicura che la ragione fosse la  prospettiva di andare da Katia in ospedale dopo la scuola.
Con Bianca appoggiata sul fianco, scesi le scale e girai a destra,  entrando in cucina e venendo subita travolta da un profumo paradisiaco:  era come entrare nella cuore pulsante di un ristorante di lusso, il cui  chef – pluristellato – aveva appena finito di preparare una quantità  tale di piatti che anche un esercito ne sarebbe uscito più che sazio.  Sentii distintamente l'odore del bacon, quello del pane tostato e un  dolciastro profumo di arancia.
Che diavolo stava succedendo in quella cucina?
I patti erano stati chiari: mentre io svegliavo e preparavo i bambini, Percy doveva occuparsi della colazione.
Logicamente entrambi i compiti si addicevano più a una figura femminile  per ovvi motivi e quindi, tra le due, ero stata quasi tentata di  lasciare il primo a Percy – dopotutto, la prospettiva di una cucina in  fiamme non era molto invitante –, ma lui mi aveva subito bloccata  dicendo che avrebbe pensato lui alla colazione. Dopo un istante di  tentennamento, alla fine avevo capitolato vedendolo piuttosto  determinato: l'immagine che lo vedeva coinvolto in un incendio domestico  persisteva ancora nella mia testa, ma, in fin dei conti, ero giunta  alla conclusione che, nella prospettiva peggiore, un paio di fette di  pane bruciato non avrebbero ammazzato nessuno.
In qualche modo la mia logica aveva fatto un grosso buco nell'acqua  perché Percy era in piedi dietro ai fornelli con una paletta di metallo  in mano e un grembiule allacciato in vita sopra la maglietta a mezze  maniche blu.
«Oh, ehi!» esclamò, accogliendo me e Bianca con quel sorriso sbilenco  che tanto amavo. «Cosa prendi, Sapientona? Bacon? Uova? Succo  d'arancia?»
Inevitabilmente rimasi a bocca aperta.
Fissai con gli occhi sbarrati la famigliare figura di Percy che, però,  non era Percy. La faccia era la stessa, le spalle pure, e così anche gli  occhi brillanti. Tutto era a posto, così come lo avevo lasciato poco  prima. Ma quello non poteva essere lui.
Dove cavolo era finito Percy Jackson? Nell'ultima ora erano per caso  sbarcati gli alieni senza che me ne fossi accorta, rapendo la versione  originale del mio ragazzo e lasciando al suo posto un fantoccio  parlante, sorridente, e che – orrore degli orrori – sapeva cucinare?
Per qualche motivo ero più favorevole ad accettare quell'assurda ipotesi  pur di credere che Percy si fosse messo ai fornelli, preparando quella  che – a naso – sembrava una colazione migliore anche a quelle  paradisiache di Chintia.
«Tu» dissi, indicandolo con l'indice della mano libera.
Entrai in cucina, avvicinandomi alla figura del mio ragazzo che mi  guardava con il capo leggermente piegato e un'espressione divertita in  volto, un sopracciglio alzato e l'angolo della bocca arricciato.
«Io?» domandò innocentemente, mentre mi fermavo a mezzo metro da lui.
Lo guardai in faccia, accigliata. «Sì. Tu» articolai. «Che ne hai fatto del mio ragazzo?»
La sua risposta fu immediata: nemmeno si sforzò di trattenere la  fragorosa risata che lo scosse. Continuò solo a ridere sguaiatamente,  incurante che le altre tre persone presenti nella stanza – io, Nico e  persino Bianca – lo stessero fissando straniti, un'espressione confusa e  il dubbio di una presunta instabilità mentale che cresceva – questo per  quanto riguardava me.
«Guarda che sono seria» borbottai, mentre andavo a posare Bianca nel  seggiolone che Chintia aveva scovato dallo scantinato la prima volta che  Katia e i figli erano venuti a cena da noi. Mi accertai che le sicure  fossero allacciate, prima che due braccia mi circondassero la vita,  attirandomi indietro.
Sentii il corpo di Percy aderire al mio, mentre il suo fiato caldo mi solleticava il collo.
«Suvvia, Sapientona. Sono un uomo dalle mille sorprese» mormorò al mio  orecchio, facendomi rabbrividire visibilmente. Dovette accorgersene  perché la sua presa si fece più salda e io mi trovai a inclinare la  testa nella sua direzione. «Mi dovrei sentire offeso che tu non te ne  sia accorta prima, sai? Per tua fortuna, oggi mi sento piuttosto  generoso quindi potrei anche prendere in considerazione l'idea di  perdonarti questa tua ignobile svista» aggiunse, dandomi un pizzicotto  sul fianco.
D'istinto mi piegai, ma non potei trattenere una risata e un tentativo  di fuga, divincolandomi nelle sue braccia che, per ripicca, mi strinsero  ancora più forte.
«Ma quale onore e onore! Sentiamo, per quale motivo oggi si sente così magnanimo, signore?» domandai, stando al gioco.
Sentivo il cuore battermi nel petto e quella sensazione di leggerezza –  felicità, forse? – irradiarsi nel mio petto. Mi girai nelle braccia di  Percy con un sopracciglio alzato e uno sguardo eloquente dipinto in  volto.
«Non vedo perché non dovrei sorridere alla vita in un giorno così  radioso! Vede, signorina, la notte appena trascorsa è stata alquanto  piacevole e anche il risveglio si è rivelato sorprendente. Sa come vanno  le cose... Un letto... Un uomo... Una bella donna... Credo lei possa  trarre le dovute conclusioni in autonomia» disse, facendo l'occhiolino.
Scossi il capo, alzando gli occhi al cielo. Quel ragazzo non si smentiva mai.
Eppure, tutto ciò che aveva detto era realisticamente vero: un letto, un  uomo, una – sull'aggettivo di mezzo avevo qualche dubbio – donna... In  fin dei conti si era solo trattato di quello: sesso. Ma tra del semplice  sesso e ciò che avevamo condiviso quella notte vi era un oceano di  differenze, ed entrambi ne eravamo consapevoli.
Perciò risi brevemente e lo spinsi via, per andare al piano cottura,  versare del latte e cacao in un bicchiere e appoggiarlo di fronte a  Bianca che era prevedibilmente affamata. Dall'altro capo del tavolo,  Nico era concentrato sul far sparire anche la più microscopica briciola  presente sul suo piatto, la bocca cosparsa da dei residui di polpa  d'arancia e le guance gonfie di cibo.
Percy si sedette accanto a Nico, appoggiando davanti a sé e nel posto di  fronte due piatti bianchi, ricchi delle più golose leccornie mattutine,  in linea con la tipica colazione della tradizione americana: bacon a  volontà, uova strapazzate, pane tostato e un grosso bicchiere di  aranciata fresca.
«Grazie» gli dissi, accomodandomi al tavolo. Impiegai un istante per  incrociare il suo sguardo e rimanervi incastrata: con gli occhi stava  cercando di comunicarmi tutto ciò che, in quel momento, non poteva  proclamare a voce alta e così feci anch'io.
Vorrei tenerti tra le mie braccia. Baciami. Stringimi a te. Mi manchi anche se sei qui con me. Ti amo.
«Figurati» rispose Percy, allungando la mano per intrecciare le sue dita alle mie.
Bastò quel contatto e la consapevolezza che non sarebbe svanito da un momento all'altro per sorridere.
Potevo essere felice.
«Quando andiamo dalla mamma?» chiese all'improvviso Nico, prendendo alla  sprovvista sia me che Percy – il quale sembrò sobbalzare sulla propria  sedia.
Per essere del tutto sincera, stavo aspettando quella domanda – e molte  altre – fin da quando lo avevo svegliato. Era sorprendente che si fosse  trattenuto fino a quel momento: mentre gli passavo la spazzola tra i  capelli, più volte lo avevo visto perdersi nei proprio pensieri,  aggrottare la fronte e guardarmi di sottocchio, cercando il coraggio di  domandarmi ciò che più lo tormentava.
E io, un po' in difficoltà su come affrontare l'argomento, me n'ero  rimasta in silenzio, preferendo che fosse Nico a iniziare il discorso se  ne avesse avuto voglia.
Lanciai un'occhiata a Percy che scosse leggermente il capo.
«Oggi pomeriggio, Nico» rispose, optando per la sincerità. Era disonesto  – e completamente inutile – mentire a un bambino in una situazione del  genere: si sarebbe solo fatto false speranze.
«Perché così tardi? Non possiamo andare subito, ora?»
Tentennai davanti a quegli occhi grandi, spalancati e le sopracciglia  aggrottate in un'espressione contrita. Mi piangeva il cuore doverlo far  attendere per ricongiungersi con la madre, ma purtroppo era lunedì e  avevamo pur sempre degli impegni da rispettare.
«Nico, c'è la scuola. Io e Percy dobbiamo lavorare e tu non puoi saltare  le lezioni senza un permesso scritto dalla tua mamma» dissi,  allungandomi per stringere la piccola mano calda del bambino nella mia,  cercando di rassicurarlo. «Ti prometto che appena suonerà la campanella,  tu, Percy ed io correremo in ospedale dalla tua mamma, okay?»
Nico mi fissò negli occhi per un istante che mi parve infinito, il  labbro inferiore appena sporgente. Pensavo che stesse per mettersi  piangere o a fare i capricci, ma dopo un lungo istante alla fine annuì  con la testa, tornando subito a mangiare, ma con meno foga di prima.
Io e Percy avevamo passato quasi un ora al telefono con Chintia e Grover  appena prima di alzarci dal letto: eravamo stati svegliati dalla  suoneria del mio cellulare che squillava insistente e non avevamo  impiegato molto per ritornare al triste presente, malgrado fossimo  ancora abbracciati sotto le lenzuola.
A Grover era stato gentilmente rubato di mano il telefono pochi istanti  dopo averci salutati da una Chintia premurosa e sbrigativa. Ci aveva  aggiornati in poche parole sulle condizioni stabili di Katia e poi si  era dilungata a spiegarci – o meglio, dettarci – ciò che avremmo dovuto  fare quel giorno.
Senza troppi giri di parole, aveva proclamato con chiarezza che non  potevamo non andare a scuola, malgrado la situazione: che lo volessimo o  no, era impensabile lasciare due classi intere di bambini e ragazzi  scalmanati nelle mani di un burbero signor Dioniso. Perciò, in base al  semplice piano che Chintia aveva ideato durante la notte, io e Percy  avremmo tenuto le lezioni normalmente, mentre lei e Grover sarebbero  rimasti al fianco di Katia per tutto il corso della mattinata e buona  parte del pomeriggio.
Mentre ascoltavamo la voce di Chintia dall'altoparlante del mio  telefono, io e Percy ci eravamo scambiati un paio di occhiate,  convenendo di essere d'accordo su una cosa: la voglia di passare ore  intere lontano da Katia era praticamente nulla, ma Chintia aveva  ragione.
Perciò, dopo esserci accordati sulla sorte di Bianca, avevo proposto di  permettere anche a Nico di saltare le lezioni per stare con la madre, ma  sia Chintia che Grover avevano contravvenuto – già, quei due erano  miracolosamente d'accordo su qualcosa una volta tanto – che il bambino  non poteva passare un'intera giornata all'ospedale, stando a guardare la  madre stesa su un letto, pallida e triste per la recente perdita del  figlio. Nico aveva bisogno di distrarsi e la scuola era l'unica opzione  possibile.
Anche io e Percy non avevamo impiegato molto per capire che i due  avevano ragione, così ci eravamo inventati una scusa da rifilare a Nico  nel caso – concreto – in cui avesse posto la domanda e, poco dopo,  avevamo chiuso la conversazione per iniziare la giornata e seguire le  direttive dateci da Chintia.
Grazie al cielo, Chintia non si era accorta – o aveva preferito ignorare  – l'inusuale fatto che Percy avesse risposto al posto mio allo  squillare del telefono: sarei morta d'imbarazzo se avesse cominciato a  fare domande.
Mi destai dai miei pensieri quando Percy cominciò a raccogliere le  stoviglie sporche per posarle nel lavandino, mentre Nico osservava il  prato della fattoria con la faccia attaccata al vetro della  porta-finestra. Bianca, invece, stava ancora bevendo il suo latte e  aveva cominciato a giocare con un laccetto della bavaglia sfilacciato  che aveva allacciata al collo.
Sbrigammo velocemente le ultime faccende, finendo di rendere quantomeno  presentabili i bambini e, prese le ultime cose, salimmo in tutta fretta  sulla macchina di Percy e partimmo diretti a scuola, fin troppo in  ritardo sulla nostra abituale tabella di marcia che avevamo sviluppato  nel corso degli ultimi mesi. 

Love the way you live     [PERCABETH]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora