«Ho fame.»
Spostai la mano verso l'interno, mettendo una certa forza nel movimento del polso. Essendo lisci e molto scuri non sembrava, ma i capelli di Nico erano nemici giurati di qualsiasi spazzola e quella mattina avevano deciso di dichiarare guerra al mio pettine blu. Così, non solo il mio polso cominciava a dolere, ma Nico non smetteva un attimo di agitarsi sullo sgabello e a lamentarsi di stargli strappando tutti i capelli dalla nuca.
«Appena finisco scendiamo a fare colazione, promesso» dissi, cercando di districare una ciocca particolarmente ostinata e, allo stesso tempo, di non tirare troppo per evitare di fargli ancora del male.
Probabilmente Nico non gradì la combinazione delle mie parole con il movimento della spazzola perché sporse il labbro inferiore e incrociò le braccia al petto. «Ma è un oooora che mi stai pettinando, Annabeth!» protestò, incrociando il mio sguardo allo specchio.
Non era colpa mia se odiava passarsi il pettine al mattino, ma dal momento che lo avevo aiutato a prepararsi per la giornata, non potevo permettere che non si sistemasse un minimo anche i capelli.
Sospirai, alzando gli occhi al cielo: quel bambino era una trottola anche di mattina presto. Il sole e i suoi raggi avevano già fatto la loro timida comparsa all'orizzonte scuro – si preannunciava un bel temporale – ma Nico sembrava aver appena bevuto una tazza di caffè.
«Okay, ho finito» dissi, appoggiando il pettine sulla base del lavandino del bagno. «Forza, campione. È ora di colazione!»
Mentre Nico alzava i pugni al cielo liberando un urlo di esultazione, feci passare le mani sotto le braccia di Bianca e la presi in braccio, sollevandola dal pavimento. La piccola era rimasta tutto il tempo seduta a terra a guardare il fratello lamentarsi, ridendo sporadicamente delle sue facce di sofferenza che lei, evidentemente, trovava buffe. Dovevo solo ringraziare il cielo che Bianca fosse una bambina molto brava, altrimenti, se si fosse messa a strillare mentre cercavo di sistemarla un po' dopo la notte, avrei fatto molta più fatica.
«Nico, non correre sulle scale altrimenti rischi di cadere!» urlai rivolta al corridoio dove lui era già scomparso, probabilmente diretto al piano inferiore. Ovviamente era una raccomandazione inutile: sentii distintamente i suoi passi leggeri sugli scalini uno di seguito all'altro e il successivo tonfo sordo di chi atterra pesantemente sul pavimento di legno dopo un salto.
Tutta quell'energia, in effetti, era un bel po' fuori dall'ordinario per Nico. Non l'avevo mai visto così impaziente per qualcosa e, sebbene non l'avesse ancora nominata, ero sicura che la ragione fosse la prospettiva di andare da Katia in ospedale dopo la scuola.
Con Bianca appoggiata sul fianco, scesi le scale e girai a destra, entrando in cucina e venendo subita travolta da un profumo paradisiaco: era come entrare nella cuore pulsante di un ristorante di lusso, il cui chef – pluristellato – aveva appena finito di preparare una quantità tale di piatti che anche un esercito ne sarebbe uscito più che sazio. Sentii distintamente l'odore del bacon, quello del pane tostato e un dolciastro profumo di arancia.
Che diavolo stava succedendo in quella cucina?
I patti erano stati chiari: mentre io svegliavo e preparavo i bambini, Percy doveva occuparsi della colazione.
Logicamente entrambi i compiti si addicevano più a una figura femminile per ovvi motivi e quindi, tra le due, ero stata quasi tentata di lasciare il primo a Percy – dopotutto, la prospettiva di una cucina in fiamme non era molto invitante –, ma lui mi aveva subito bloccata dicendo che avrebbe pensato lui alla colazione. Dopo un istante di tentennamento, alla fine avevo capitolato vedendolo piuttosto determinato: l'immagine che lo vedeva coinvolto in un incendio domestico persisteva ancora nella mia testa, ma, in fin dei conti, ero giunta alla conclusione che, nella prospettiva peggiore, un paio di fette di pane bruciato non avrebbero ammazzato nessuno.
In qualche modo la mia logica aveva fatto un grosso buco nell'acqua perché Percy era in piedi dietro ai fornelli con una paletta di metallo in mano e un grembiule allacciato in vita sopra la maglietta a mezze maniche blu.
«Oh, ehi!» esclamò, accogliendo me e Bianca con quel sorriso sbilenco che tanto amavo. «Cosa prendi, Sapientona? Bacon? Uova? Succo d'arancia?»
Inevitabilmente rimasi a bocca aperta.
Fissai con gli occhi sbarrati la famigliare figura di Percy che, però, non era Percy. La faccia era la stessa, le spalle pure, e così anche gli occhi brillanti. Tutto era a posto, così come lo avevo lasciato poco prima. Ma quello non poteva essere lui.
Dove cavolo era finito Percy Jackson? Nell'ultima ora erano per caso sbarcati gli alieni senza che me ne fossi accorta, rapendo la versione originale del mio ragazzo e lasciando al suo posto un fantoccio parlante, sorridente, e che – orrore degli orrori – sapeva cucinare?
Per qualche motivo ero più favorevole ad accettare quell'assurda ipotesi pur di credere che Percy si fosse messo ai fornelli, preparando quella che – a naso – sembrava una colazione migliore anche a quelle paradisiache di Chintia.
«Tu» dissi, indicandolo con l'indice della mano libera.
Entrai in cucina, avvicinandomi alla figura del mio ragazzo che mi guardava con il capo leggermente piegato e un'espressione divertita in volto, un sopracciglio alzato e l'angolo della bocca arricciato.
«Io?» domandò innocentemente, mentre mi fermavo a mezzo metro da lui.
Lo guardai in faccia, accigliata. «Sì. Tu» articolai. «Che ne hai fatto del mio ragazzo?»
La sua risposta fu immediata: nemmeno si sforzò di trattenere la fragorosa risata che lo scosse. Continuò solo a ridere sguaiatamente, incurante che le altre tre persone presenti nella stanza – io, Nico e persino Bianca – lo stessero fissando straniti, un'espressione confusa e il dubbio di una presunta instabilità mentale che cresceva – questo per quanto riguardava me.
«Guarda che sono seria» borbottai, mentre andavo a posare Bianca nel seggiolone che Chintia aveva scovato dallo scantinato la prima volta che Katia e i figli erano venuti a cena da noi. Mi accertai che le sicure fossero allacciate, prima che due braccia mi circondassero la vita, attirandomi indietro.
Sentii il corpo di Percy aderire al mio, mentre il suo fiato caldo mi solleticava il collo.
«Suvvia, Sapientona. Sono un uomo dalle mille sorprese» mormorò al mio orecchio, facendomi rabbrividire visibilmente. Dovette accorgersene perché la sua presa si fece più salda e io mi trovai a inclinare la testa nella sua direzione. «Mi dovrei sentire offeso che tu non te ne sia accorta prima, sai? Per tua fortuna, oggi mi sento piuttosto generoso quindi potrei anche prendere in considerazione l'idea di perdonarti questa tua ignobile svista» aggiunse, dandomi un pizzicotto sul fianco.
D'istinto mi piegai, ma non potei trattenere una risata e un tentativo di fuga, divincolandomi nelle sue braccia che, per ripicca, mi strinsero ancora più forte.
«Ma quale onore e onore! Sentiamo, per quale motivo oggi si sente così magnanimo, signore?» domandai, stando al gioco.
Sentivo il cuore battermi nel petto e quella sensazione di leggerezza – felicità, forse? – irradiarsi nel mio petto. Mi girai nelle braccia di Percy con un sopracciglio alzato e uno sguardo eloquente dipinto in volto.
«Non vedo perché non dovrei sorridere alla vita in un giorno così radioso! Vede, signorina, la notte appena trascorsa è stata alquanto piacevole e anche il risveglio si è rivelato sorprendente. Sa come vanno le cose... Un letto... Un uomo... Una bella donna... Credo lei possa trarre le dovute conclusioni in autonomia» disse, facendo l'occhiolino.
Scossi il capo, alzando gli occhi al cielo. Quel ragazzo non si smentiva mai.
Eppure, tutto ciò che aveva detto era realisticamente vero: un letto, un uomo, una – sull'aggettivo di mezzo avevo qualche dubbio – donna... In fin dei conti si era solo trattato di quello: sesso. Ma tra del semplice sesso e ciò che avevamo condiviso quella notte vi era un oceano di differenze, ed entrambi ne eravamo consapevoli.
Perciò risi brevemente e lo spinsi via, per andare al piano cottura, versare del latte e cacao in un bicchiere e appoggiarlo di fronte a Bianca che era prevedibilmente affamata. Dall'altro capo del tavolo, Nico era concentrato sul far sparire anche la più microscopica briciola presente sul suo piatto, la bocca cosparsa da dei residui di polpa d'arancia e le guance gonfie di cibo.
Percy si sedette accanto a Nico, appoggiando davanti a sé e nel posto di fronte due piatti bianchi, ricchi delle più golose leccornie mattutine, in linea con la tipica colazione della tradizione americana: bacon a volontà, uova strapazzate, pane tostato e un grosso bicchiere di aranciata fresca.
«Grazie» gli dissi, accomodandomi al tavolo. Impiegai un istante per incrociare il suo sguardo e rimanervi incastrata: con gli occhi stava cercando di comunicarmi tutto ciò che, in quel momento, non poteva proclamare a voce alta e così feci anch'io.
Vorrei tenerti tra le mie braccia. Baciami. Stringimi a te. Mi manchi anche se sei qui con me. Ti amo.
«Figurati» rispose Percy, allungando la mano per intrecciare le sue dita alle mie.
Bastò quel contatto e la consapevolezza che non sarebbe svanito da un momento all'altro per sorridere.
Potevo essere felice.
«Quando andiamo dalla mamma?» chiese all'improvviso Nico, prendendo alla sprovvista sia me che Percy – il quale sembrò sobbalzare sulla propria sedia.
Per essere del tutto sincera, stavo aspettando quella domanda – e molte altre – fin da quando lo avevo svegliato. Era sorprendente che si fosse trattenuto fino a quel momento: mentre gli passavo la spazzola tra i capelli, più volte lo avevo visto perdersi nei proprio pensieri, aggrottare la fronte e guardarmi di sottocchio, cercando il coraggio di domandarmi ciò che più lo tormentava.
E io, un po' in difficoltà su come affrontare l'argomento, me n'ero rimasta in silenzio, preferendo che fosse Nico a iniziare il discorso se ne avesse avuto voglia.
Lanciai un'occhiata a Percy che scosse leggermente il capo.
«Oggi pomeriggio, Nico» rispose, optando per la sincerità. Era disonesto – e completamente inutile – mentire a un bambino in una situazione del genere: si sarebbe solo fatto false speranze.
«Perché così tardi? Non possiamo andare subito, ora?»
Tentennai davanti a quegli occhi grandi, spalancati e le sopracciglia aggrottate in un'espressione contrita. Mi piangeva il cuore doverlo far attendere per ricongiungersi con la madre, ma purtroppo era lunedì e avevamo pur sempre degli impegni da rispettare.
«Nico, c'è la scuola. Io e Percy dobbiamo lavorare e tu non puoi saltare le lezioni senza un permesso scritto dalla tua mamma» dissi, allungandomi per stringere la piccola mano calda del bambino nella mia, cercando di rassicurarlo. «Ti prometto che appena suonerà la campanella, tu, Percy ed io correremo in ospedale dalla tua mamma, okay?»
Nico mi fissò negli occhi per un istante che mi parve infinito, il labbro inferiore appena sporgente. Pensavo che stesse per mettersi piangere o a fare i capricci, ma dopo un lungo istante alla fine annuì con la testa, tornando subito a mangiare, ma con meno foga di prima.
Io e Percy avevamo passato quasi un ora al telefono con Chintia e Grover appena prima di alzarci dal letto: eravamo stati svegliati dalla suoneria del mio cellulare che squillava insistente e non avevamo impiegato molto per ritornare al triste presente, malgrado fossimo ancora abbracciati sotto le lenzuola.
A Grover era stato gentilmente rubato di mano il telefono pochi istanti dopo averci salutati da una Chintia premurosa e sbrigativa. Ci aveva aggiornati in poche parole sulle condizioni stabili di Katia e poi si era dilungata a spiegarci – o meglio, dettarci – ciò che avremmo dovuto fare quel giorno.
Senza troppi giri di parole, aveva proclamato con chiarezza che non potevamo non andare a scuola, malgrado la situazione: che lo volessimo o no, era impensabile lasciare due classi intere di bambini e ragazzi scalmanati nelle mani di un burbero signor Dioniso. Perciò, in base al semplice piano che Chintia aveva ideato durante la notte, io e Percy avremmo tenuto le lezioni normalmente, mentre lei e Grover sarebbero rimasti al fianco di Katia per tutto il corso della mattinata e buona parte del pomeriggio.
Mentre ascoltavamo la voce di Chintia dall'altoparlante del mio telefono, io e Percy ci eravamo scambiati un paio di occhiate, convenendo di essere d'accordo su una cosa: la voglia di passare ore intere lontano da Katia era praticamente nulla, ma Chintia aveva ragione.
Perciò, dopo esserci accordati sulla sorte di Bianca, avevo proposto di permettere anche a Nico di saltare le lezioni per stare con la madre, ma sia Chintia che Grover avevano contravvenuto – già, quei due erano miracolosamente d'accordo su qualcosa una volta tanto – che il bambino non poteva passare un'intera giornata all'ospedale, stando a guardare la madre stesa su un letto, pallida e triste per la recente perdita del figlio. Nico aveva bisogno di distrarsi e la scuola era l'unica opzione possibile.
Anche io e Percy non avevamo impiegato molto per capire che i due avevano ragione, così ci eravamo inventati una scusa da rifilare a Nico nel caso – concreto – in cui avesse posto la domanda e, poco dopo, avevamo chiuso la conversazione per iniziare la giornata e seguire le direttive dateci da Chintia.
Grazie al cielo, Chintia non si era accorta – o aveva preferito ignorare – l'inusuale fatto che Percy avesse risposto al posto mio allo squillare del telefono: sarei morta d'imbarazzo se avesse cominciato a fare domande.
Mi destai dai miei pensieri quando Percy cominciò a raccogliere le stoviglie sporche per posarle nel lavandino, mentre Nico osservava il prato della fattoria con la faccia attaccata al vetro della porta-finestra. Bianca, invece, stava ancora bevendo il suo latte e aveva cominciato a giocare con un laccetto della bavaglia sfilacciato che aveva allacciata al collo.
Sbrigammo velocemente le ultime faccende, finendo di rendere quantomeno presentabili i bambini e, prese le ultime cose, salimmo in tutta fretta sulla macchina di Percy e partimmo diretti a scuola, fin troppo in ritardo sulla nostra abituale tabella di marcia che avevamo sviluppato nel corso degli ultimi mesi.
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Love the way you live [PERCABETH]
FanfictionAnnabeth ha diciotto anni ed è una ragazza come tutte le altre, forse un po' riservata, forse un po' cauta. Certo è che non sente di meritarsi ciò che le accade quella sera. Il trauma subito è così profondo che non riesce più a sorridere, a ridere...