Capitolo 7

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Scuola, 22 Giugno 2012

Annabeth


Il continuo rumore del motore che ruggiva, finì non appena Grover, al suo posto di guida, girò la chiave dell'accensione. La mano sinistra appoggiata al volante a ore dieci sbatté sul clacson, producendo uno strombazzo che mi fece sobbalzare dalla sorpresa. Ancora una volta ero troppo persa nei miei pensieri per prestare attenzione a quello che succedeva intorno a me.
Chintia, che si era auto eletta mia sveglia personale, come se non ne avessi già una perfettamente funzionante, era entrata in camera mia troppo presto per i miei gusti, aprendo le persiane e quindi permettendo ai raggi solari di svegliarmi irreparabilmente.
Con quel suo tono di voce gioviale mi aveva intimato di fare in fretta a vestirmi e di scendere a fare colazione perché non avrebbe permesso né a me né a Jackson di fare tardi alla nostra prima lezione.
La sua tappa successiva, ovviamente, era andare a svegliare Jackson.
Dopo una veloce selezione di vestiti e un'altrettanto veloce colazione, Chintia ci aveva praticamente buttato fuori a calci dalla porta sul retro, minacciando Grover di morte immediata se si fosse fermato al bar per un caffè facendoci arrivare tardi. La minaccia risultò ancora più credibile grazie al mestolo che, presumevo, fosse la migliore arma della donna. E anche la più efficace.
Non avevo idea di quanto tempo ci avessimo messo ad attraversare la città, ma a me sembrava un battibaleno.
-Bene, siamo arrivati.- disse Grover sorridendomi.
Ricambiai il sorriso con un accenno del capo, poi aprii la portiera e scesi dalla vettura.
Una ventata di aria fresca mi investì, scompigliando i capelli che avevo legato in una frettolosa treccia laterale. Sbuffai mentre disfacevo quel groviglio indistinto di capelli per legarli in una coda alta. Una ciocca troppo corta sfuggì dall'elastico cadendo libera sul volto. Ringraziai ancora una volta mio padre per quella simpatica visita dal parrucchiere.
Circumnavigai il furgoncino per salire sul basso marciapiede che portava al cancello della scuola.
-Buona fortuna ragazzi. Passerò durante la pausa pranzo per vedere un po' come ve la cavate.- Grover aveva abbassato il finestrino della sua portiera, facendo penzolare un braccio ricoperto di peli fuori. Fece l'occhiolino e poi scoppiò a ridere fragorosamente.
-Ah. Ah. Molto divertente, davvero.- brontolò Jackson al mio fianco.
-Ricordati che ride meglio chi ride ultimo.- dissi io con un sopracciglio inarcato. Mi voltai e camminai in direzione del cancello aperto. -Ciao Grover.- alzai una mano e lo salutai senza voltarmi.
Non seppi mai che faccia fece ma sentii chiaramente Jackson ridacchiare.
-Ti ha proprio steso, amico.- lo punzecchiò poi lo salutò e mi raggiunse.
Sentivo i suoi passi distare poco dai miei così aumentai la velocità. Ora, sapevo benissimo che il mio comportamento non aveva alcun senso, ma ero convinta che più gli stavo vicino, prima lui avrebbe capito che la sera precedente avevo ascoltato la sua conversazione privata.
In fretta varcai la soglia della scuola e sbucai nel corridoio colorato del giorno prima. Con altrettanta velocità lo percorsi ed entrai nella prima delle due aule che ci erano state assegnate, quella con i banchi piccoli e malconci.
Ero al sicuro. O al meno credevo.
-Ehi, Annabeth.- mi voltai di scatto, per osservare Jackson sulla porta della mia aula. Prima non l'avevo notato, ma in spalla portava uno zainetto non tanto pieno che, probabilmente, gli serviva per contenere dei libri per le lezioni. Quella maglietta a mezze maniche bianca, poi, faceva risaltare il nero pece dei suoi capelli.
No, aspetta un secondo. Da dove diavolo usciva quel pensiero?
-Buona fortuna.- mi disse, incurante dei pensieri compromettenti e inspiegabili che affollavano la mia testa.
Buona fortuna?
Buona fortuna???
Un'invasione di alieni aveva rapito Jackson nella notte tra Domenica e Lunedì e gli aveva impiantato un chip nel cervello per cui lui era diventato all'improvviso gentile?
Prima quello scusa, poi gli auguri di buona fortuna. Che ne era stato del Jackson cafone e insopportabile?
Aggrottai la fronte non sapendo come ribattere, ma quando sul suo volto comparve un ghigno mi indignai. Lo sapevo! Mi stava prendendo in giro, di nuovo. Due notti prima non c'era stata alcuna invasione aliena e lui non era affatto cambiato. Dovevo convincermi che non sarebbe mai cambiato.
Boccheggiai, aprendo e chiudendo la bocca. Una rabbia cieca mi invase tanto che dalla mia gola non uscì alcun suono.
Marciai fino alla porta dove Jackson stava ancora lì, con quel suo odioso e insopportabile ghigno di scherno.
Bum!
Il gesto semplice di sbattere la porta mi soddisfò tanto che sul mio volto comparve un sorrisetto. Il gemito di dolore che, poi, provenne da dietro la porta fece solo aumentare la mia felicità. Il livido al naso non sarebbe passata molto velocemente.
Soddisfatta, mi avvicinai alla cattedra per appoggiare la borsa che mi ero portata dietro con tutto il necessario per la lezione. Non feci in tempo nemmeno a sedermi sulla sedia che una campana suonò, seguita da un forte rumore di urla che, avvicinandosi, crescevano sempre più di intensità.
Due secondi dopo la porta si spalancò e un vero branco di bambini impazziti entrò. Chi correndo, chi saltellando, tutti presero velocemente posto ad un banco, senza però smettere di parlare ed urlare con l'amico.
Ero convinta di potermela cavare con poco, eh? Beh, in quell'istante mi dovetti ricredere.
Forse per la polvere che occupava le superfici delle finestre, all'improvviso starnutii, coprendomi il naso con una mano. Cercai un fazzoletto nella borsa e quando rialzai il viso, accanto alla cattedra c'era un bambino.
Pepito mi guardava fisso, con le mani nelle tasche dei pantaloni. Sorrisi.
-Ciao Pepito. Come stai?-
-Bene, grazie.- si morse un labbro, come se stesse aspettando qualcosa.
-Hai bisogno di qualcosa?- gli chiesi inclinando appena il capo.
-Ecco... hai... sì, mi hai porto le caramelle?-
Le caramelle. Le caramelle. Merda.
Che diavolo mi era saltato in mente quando gli avevo fatto quella promessa? Con tutto quello che era accaduto la sera prima, la promessa che avevo fatto a Pepito mi era completamente passata di mente. Ero nei guai, grossi guai.
Se avessi detto a Pepito che mi ero dimenticata lo avrei deluso e quella poca fiducia che, mi sembrava, aver acquistato nei suoi confronti sarebbe sfumata. La mia carriera di insegnante perfetto sarebbe finita ancor prima di iniziare. E addio al tranquillo soggiorno in Brasile che mi ero prefissata.
Vedendomi spalancare gli occhi dalla sorpresa Pepito mise il broncio.
-Te ne sei dimenticata, vero?-
Avevo bisogno di una scusa, al più presto. Prima che si mettesse a piangere.
-No! No, certo che no.-
Forza, Annabeth, ce la puoi fare, mi dissi.
-Il fatto è che se te le dessi qui, davanti a tutti, gli altri bambini sarebbero gelosi e ne vorrebbero anche loro e io non ne ho portate abbastanza per tutti, capisci?- beh, non era proprio una bugia.
-Te le do a fine giornata, va bene?-
Il broncio sul volto di Pepito scomparve mentre lui annuiva, comprensivo.
-Va bene, ora vai a sederti che tra poco inizia la lezione.- gli disse spingendolo leggermente verso la fila di banchi con una mano sulla schiena.
E ora? Dove potevo procurarmi delle caramelle gommose entro le tre del pomeriggio se dovevo insegnare fino ad all'ora?
Scossi la testa. Anche se quello era un problema con scadenza imminente, avevo altro a cui pensare al momento. Ovvero a come tenere a bada venti bambini scalmanati.
Mi alzai per osservare quella matassa di pargoli impazziti. Riconobbi una decina di bambini che il giorno prima erano al campetto da calcio a giocare con Pepito, ma gli altri dieci mi ero completamente ignoti. Tranne uno.
All'angolo sinistro della parete opposta a quella dov'era appesa la lavagna, in un banchetto separato dagli altri, stava seduto lui. Nico. Da solo.
E, ancora una volta, il suo volto esprimeva una tristezza che avevo visto sul mio dopo quel giorno al parco, tanto tempo prima. Solitudine.
Mi avvicinai al suo banco e, al mio passaggio, tutti i bambini si zittirono mentre mi osservavano percorrere l'aula verso il fondo.
Nico alzò quegli occhi così grandi e scuri.
-Ciao Nico.- sorrisi.
-Ti va di venire a sederti accanto a me?- da stupito il suo viso si fece lentamente sorridente.
Gli porsi una mano e lo accompagnai dolcemente, prendendo un banco vuoto e mettendolo accanto alla cattedra. Poi lo feci sedere.
Alzai gli occhi, accorgendomi solo in quel momento che il silenzio era padrone della classe.
Tutti mi guardavano o con gli occhi sgranati, oppure con la bocca aperta.
Sorrisi.
-Bene, ragazzi, cominciamo.- mi avvicinai alla lavagna, presi un gessetto e scrissi il mio nome sula superficie verde.
-Per chi non mi conosce già, io sono Annabeth, la vostra insegnante per i prossimi sei mesi.- tornai alla cattedra, appoggiandomi ad essa.
-Visto che non conosco tutti, vorrei che ora voi scriviate il vostro nome sul foglio che ora distribuirò. Va bene?- tutte le teste annuirono, perpetuamente tacite.
Dopotutto, non era così difficile.




Oh, almeno, così credetti finché suonò, per la seconda volta, la campana.
Ero in piedi su una sedia, intenta ad appendere al muro un cartellone con tutte le firme dei bambini e le rispettive impronte. Avevo preso, ovviamente, l'idea dalla parete del corridoio ma mi era sembrato un modo carino per cominciare. I bambini sembravano aver apprezzato molto il lavoro. Si erano divertiti ridendo e scherzando e io avevo avuto l'occasione di conoscerli meglio.
Anche Nico aveva contribuito al lavoro ed ora si poteva vedere una piccola manina nera all'angolo destro del cartellone, con una piccola scritta tra pollice ed indice.
Addirittura mi aveva sorriso timidamente mentre pitturava seduto dietro al suo banco.
Comunque, dicevo che stavo appendendo il cartellone sopra alla lavagna quando suonò la campana del pranzo. Tutti i bambini si riversarono fuori dall'aula, come un branco di bufali impazziti e io rischiai seriamente di rovinare a terra come una patata lessa. Per fortuna mi aggrappai alla base della lavagna riuscendo a non cadere.
Sbuffai infastidita da tanta confusione. Avevo cercato di fermarli richiamandoli ma non era servito a nulla. Quei bambini dovevano imparare il rispetto verso l'insegnante.
Scesi dalla sedia traballante e andai verso la cattedra per recuperare la borsa. Rimasi sorpresa quando mi trovai davanti Nico, ancora seduto dietro al suo banco.
-Nico. Che ci fai ancora qui? Non hai fame?-
Lui scrollò le spalle, abbassando lo sguardo.
Sorrisi e, per la seconda volta in quel giorno, lo presi per mano.
-Dai, vieni, andiamo a mangiare.-
E, insieme, ci avviammo verso la mensa, seguendo la scia di bambini scalmanati passati di lì poco prima.
Quando entrammo mi stupii nel trovare tutti quei marmocchi seduti ai tavoli compostamente. Questo, comunque, non toglieva che facessero meno rumore.
Qualcuno, con le posate in mano, picchiava sul tavolo, impaziente di ricevere il cibo. Qualcun'altro, invece, urlava al compagno vicino, ridendo e scherzando.
Vidi un bambino di nome Ferdinando, che aveva solo 5 anni, mettersi il pollice in bocca per succhiarlo. Io sapevo benissimo che quelle mani avevano toccato di tutto e di più durante la mattinata e che, quindi, non erano proprio igieniche da mettere in bocca prima di mangiare.
Insomma, quando andavo io a scuola la mia maestra mi obbligava a lavare le mani prima di mangiare, altrimenti nessuno ci serviva nulla. Non solo era un modo per prevenire infezioni e malattie, ma anche un simbolo di educazione e buone maniere.
Dovevo ricordare, però, che quei bambini venivano dalle favelas, dove la propria igiene personale non era di certo al primo posto, ovviamente.
Feci sedere Nico ad un tavolo vuoto, poi, all'improvviso, sbattei una mano sulla superficie del ripiano facendo spaventare praticamente tutti i bambini. Beh, almeno ora c'era silenzio e attenzione.
-Filate tutti a lavarvi le mani. Subito! Altrimenti niente pranzo.- dissi cercando di mantenere un tono duro e autoritario. Non era certo la mia specialità, ma pian piano, uno alla volta, tutti filarono i bagno.
Sorrisi soddisfatta.
Alle mie spalle sentii qualcuno ridacchiare.
-Complimenti, dittatrice. Sai farti rispettare, dopotutto.- mi voltai di scatto, fulminando Jackson con lo sguardo.
Era entrato in mensa mentre io richiamavo i bambini seguito dai suoi alunni, e io non me ne ero accorta. Aveva le braccia incrociate e un odioso sorrisetto di scherno.
La maglietta bianca gli evidenziava i muscoli delle braccia, forti e sodi.
Santo Cielo! Era la seconda volta, quel giorno, che il mio cervello mi giocava brutti scherzi a causa di quella stupida maglietta che, a dirla tutta, non gli donava affatto.
Me ne andai, decidendo che il suo commento non meritava alcuna risposta. Al banco della cucina, presi un piatto di minestra per me e uno per Nico.
Sedendomi di fronte a Nico, abbassai il capo sul piatto ed ignorai Jackson accanto a me che, ne ero sicura, mi stava fissando incessantemente. Il che mi dava parecchio fastidio.
Stavo per dirgli di piantarla, quando mi ricordai della politica che avevo deciso di adottare nei suoi confronti quella stessa mattina dopo avergli sbattuta la porta in faccia.
Ignorarlo.
Beh ma era più facile a dirsi che a farsi. Con la coda dell'occhio mi accertai che mi stesse guardando e quando constatai che era vero sbuffai. Mi dava sui nervi. Tanto.
Respirai a fondo, cercando di riprendere un po' di controllo ma, veramente, stavo perdendo la pazienza.
-Ehilà ragazzi! Siete ancora vivi?-
Ancora qualche secondo e sarei saltata al collo di Jackson senza che nessuno potesse fermarmi.
Per sua fortuna, Grover era una benedizione caduta dal cielo venuto a salvarlo.
-Allora, come sta andando?- ci chiese dopo aver preso posto a capotavola, spostando lo sguardo sorridente da me a Jackson e viceversa.
L'irritante ragazzo che mi sedeva accanto fece spallucce, sbuffando.
-Niente di difficile, Grover. Sono piuttosto sicuro che entro due settimane quei ragazzi mi ameranno. Ci sono due o tre ragazzine dolci come caramelle e...- mentre Jackson andava avanti con il suo sproloquio su quando era amato dai suoi alunni, un pensiero squarciò il caos nella mia mente, facendomi sussultare.
-Oh porco...-
Le caramelle! Quelle maledette caramelle del cavolo!
Né Grover né Jackson, che parlavano imperterriti, sembrarono essersi accorti della mia esclamazione poco educata, ma con la coda dell'occhio notai Nico fissarmi a occhi spalancati.
Fantastico.
Gli sorrisi rassicurante e lo invitai ad andare a sedersi con gli altri bambini poi mi voltai verso Grover.
-Grover!- il mio sembrava quasi un urlo disperato.
Sia lui che Jackson mi guardarono aggrottando la fronte.
-Cosa c'è Annabeth?-
-Sai dove posso trovare un negozio di alimentari qui vicino?-
Le rughe sulla sua fronte si accentuarono.
-Uhm, sì, certo. Devi girare a destra al primo incrocio e poi subito a sinistra. Saranno poco più di trecento metri in linea d'aria.- disse.
Una benedizione dal cielo. Grazie mille Signore.
-Perfetto. Potresti, per favore, tenere d'occhio i bambini per venti minuti? Tanto stanno mangiando.- recuperai la borsa dalla sedia già con i piedi in direzione della porta. -Grazie mille, ti devo un favore.- non ebbe nemmeno il tempo di replicare che io mi ero già defilata.
Uscii dalla porta principale, quella che usavano i senzatetto quando entravano per la mensa dei poveri lasciandomi alle spalle lo schiamazzo dei bambini.
Sarei tornata prima che potessero notare che mancavo all'appello.
Appena varcai il cancelletto il mio olfatto intercettò uno strano odore di mare e salsedine trasportato dal vento che tirava. Molto strano... anche se Rio de Janeiro era costruita sul mare, questo si trovava a qualche chilometro di distanza e quindi non era possibile che l'odore potesse arrivare fin lì. Sopratutto perché ero nell'entroterra della città, coperta da tutti quei palazzoni giganti ed imponenti che, oltre a caratterizzare New York come la Grande Mela, sembravano esistere in tutte le grandi città del mondo.
Dopo qualche metro di marciapiede, sentii un uccellino chioccolare da un albero lontano. Era sicuramente un merlo.
In uno di quei pomeriggi grigi, in cui la mente pretendeva di essere liberata da ogni pensiero, il libro che mi aveva tenuto compagnia parlava del verso degli uccelli di ogni specie.
Avevo scoperto che per ognuno esisteva un verbo specifico che caratterizzava il verso e, come ogni cosa che leggevo, mi era rimasta in mente, la quale era molto contenta di acquisire nuovi ricordi ed eliminare i vecchi.
Mentre camminavo per quella via deserta, dopo aver svoltato a destra come aveva detto Grover, mi accorsi che qualcosa non andava. Il merlo aveva smesso di chioccolare.
Mi sentivo osservata. Mi sentivo seguita. Mi sentivo pedinata.
Come quella notte.
Quando il panico prese possesso di me, le mie gambe cominciarono a correre alla cieca, guidate da un istinto primordiale che associava il panico al pericolo. Perché lo conosceva benissimo.
Non sapevo dove stessi andando, ogni concetto razionale era stato sostituito da un'unico pensiero fisso.
Mettersi in salvo da qualunque cosa mi stesse minacciando.
All'improvviso inciampai in un sasso sul terreno sterrato e irregolare. Vidi, come alla moviola, la mia faccia avvicinarsi sempre più al suolo, preparandomi mentalmente ad essere spiaccicata a terra.
Il pensiero che mi potessi far male non sfiorò nemmeno per un secondo il mio cervello in crisi.
Trasmise, invece, un altro concetto, ben più spaventoso.
Ero in trappola. Come un topolino nelle mani del gatto affamato.
Non seppi mai in che modo, ma improvvisamente, come era successo quando ero inciampata, la mia caduta venne impedita da qualcosa che si strinse attorno alla mia vita.
Le zampe del gatto mi avevano catturato.
Scalciai, dimenandomi da quella presa ferrea.
-Lasciami andare!- l'urlo superò di intensità la sirena che suonava nella mia testa. Non mi sorpresi nell'accorgermi che era uscito dalla mia bocca. -Aiuto! Qualcuno mi aiuti!-
Una mano strinse la mia testa a qualcosa di duro e caldo. E palpitante.
-Shhh... calmati.- sussurrò al mio orecchio. -Va tutto bene, tranquilla. Va tutto bene.- la sua voce assomigliava ad una dolce ninnananna. Come quella che mi cantava la mamma prima di andare a dormire per scacciare tutti i fantasmi che si nascondevano sotto il letto.
E, come accadeva molti anni prima, riuscì a calmarmi.
-Va tutto bene...- annuii quasi impercettibilmente mentre qualcosa di bagnato mi cadeva sulle guance. Tastando il viso con una mano, mi accorsi delle lacrime che lo rigavano.
Stavo piangendo.
La mano che mi teneva ferma per la testa scese lentamente, accarezzandomi dall'orecchio sinistro, lungo la mascella, giù sotto il mento che venne alzato verso il cielo.
I miei occhi ne incontrarono un paio verdi come il mare più limpido, come le alghe del laghetto in montagna, come l'erba del prato dietro alla fattoria. Così simili ai miei da farmi sentire a casa per un secondo.
Poi ritornai alla dura realtà.
Jackson.
Che cosa ci faceva lì? Non doveva essere a scuola a tenere sotto controllo i suoi alunni? Beh, pensandoci era lo stesso posto dove dovevo essere io. Ma seguendo quel filo di pensieri, mi venne in mente una cosa che mi mise i brividi.
Mi stava forse pedinando?
Aggrottando la fronte e le sopracciglia, lo guardai dal basso, attraverso le ciglia.
-Che ci fai qui?- più che una domanda, sembrò un'accusa. -Mi hai seguita?-
Jackson sembrò preso alla sprovvista. Spalancò gli occhi e la bocca.
-Cosa? No! Cioè si, ma...- all'improvviso presi coscienza della troppa vicinanza tra i nostri due corpi. Lui mi stringeva ancora a sé, con una mano posata sul fianco e l'altra sotto il mento. Il mio petto era a contatto con il suo e questo non andava affatto bene. Per niente.
-Toglimi subito le mani di dosso.- strillai istericamente dibattendomi nella sua stretta.
Molto lentamente, troppo, allargò le braccia alzandole in segno di resa. Lo sguardo profondo e preoccupato di prima era stato sostituito da un sorrisetto strafottente e di scherno. Ora sì che lo riconoscevo. Probabilmente, prima mi ero solo immaginata un Jackson capace di provare sentimenti profondi sotto quello strato di strafottenza che avevo imparato ad associare a lui.
-Ai suoi ordini, principessa.- disse.
Sbuffai. Quel soprannome non mi piaceva affatto. Era quello che usava lei.
-Non mi chiamare così, ti prego. Qualsiasi altro nome va bene ma non quello.- dissi.
Jackson incrociò le braccia, piegando la testa leggermente.
-Uhm, interessante... beh, vedrò di farmi venire in mente qualche bel soprannome.- qualcosa nel luccichio dei suoi occhi mi suggerì che aveva in mente niente di buono.
-Comunque, per rispondere alla tua domanda, stavo facendo un giro. Avevo bisogno di cambiare aria da tutti quei marmocchi.- disse per giustificarsi. -E poi, visto che te ne sei andata così all'improvviso, Grover mi ha chiesto di accompagnarti dovunque stessi andando. Ha paura che tu ti perda.- aggiunse allargando le mani.
Beh aveva senso.
Dopo qualche secondo di silenzio, in cui io lo fissavo e lui mi restituiva lo sguardo, mi voltai e cominciai a camminare.
Non avevo idea di dovesse fossi ma quando svoltai nella prima strada laterale, riconobbi l'albero che avevo visto prima che succedesse tutto. Quindi avevo girato solo in tondo.
Mentre camminavo verso il negozio nominato da Grover, ripensai al momento di crisi poco prima. Pensavo di aver superato tutto. Già, credevo.
Dopo due anni di terapia psicologica, dopo aver provato i gruppi di sostegno, dopo due anni passati ad evitare qualsiasi contatto con l'altro sesso... mi ritrovavo ancora al punto di partenza.
Ora avevo la prova che bastava poco per farmi cedere. E non andava affatto bene, sopratutto perché mi trovavo a migliaia di chilometri di distanza da casa, dove, almeno, avrei potuto chiudermi in stanza e non pensare a nulla.
Un'altra cosa che non mi andava giù, sebbene da un parte fossi sollevata, era che Jackson non aveva fatto domande sul mio sclero improvviso ed irrazionale. Anzi, in un certo senso mi aveva anche aiutata... Questo ovviamente non voleva dire che meritasse dei ringraziamenti.
In poco tempo raggiungemmo una via più popolata delle altre dove, molto facilmente, riconobbi un minimarket grazie all'insegna.
Il sollievo sciolse la morsa alla bocca dello stomaco che, fino a quel momento, non mi ero accorta di provare. Alla fine sarei riuscita a mantenere la promessa, portando le benedette caramelle a Pepito che non avrei deluso irreparabilmente. E il mio soggiorno in Brasile sarebbe proseguito tranquillamente.
Ma, sebbene non fossi più preoccupata di deludere qualcuno, c'era ancora qualcosa che non riuscivo a classificare che mi opprimeva... il cuore.
Dopo aver attraversato la strada, entrammo nel negozio, spingendo una porta di vetro, e subito una ventata di aria fresca ci invase. Incredibile, anche lì esisteva l'aria condizionata allora!
-Che ci facciamo qui?- mi chiese Jackson in piedi all'entrata.
-Devo prendere una cosa...- risposi cominciando a percorrere i corridoi delimitati dagli scaffali carichi di prodotti seguita da Jackson che trascinava i piedi.
Mentre passavo davanti alla sezione dei biscotti, l'individuo dietro di me prese a fischiettare il motivetto di un tormentone dell'estate precedente, il che influì non poco sui miei nervi già messi a dura prova quel giorno.
Svoltai a destra, procedendo lungo il secondo scaffale (pasta e stuzzichini) e poi a sinistra (salumi e formaggi) come un serpente.
Dove diavolo erano le caramelle? Temetti davvero che quel negozio non vendeva caramelle quando, finalmente, le trovai nell'angolo più remoto del minimarket, nello spazio dedicato a... gli assorbenti???
Non avevo mai lavorato in un negozio di nessun genere, ma sapevo benissimo anch'io che il sistema di spartizione dei prodotti non seguiva di certo quella politica.
Presi il primo pacchetto di caramelle gommose che mi capitò a tiro poi ripresi la strada serpeggiante per le casse.
Stavo giusto aprendo bocca per dire a Jackson di smetterla con quell'irritante fischiettio, quando il suo cellulare squillò. Lesse il nome del mittente e corrugò la fronte.
-Io esco a rispondere... intanto tu paga. Ti aspettò all'entrata.- annuii in segno di assenso.
Mentre lui usciva io mi avvicinai alla cassa. La cassiera mi prese il pacchetto di caramelle dalle mani senza neanche alzare lo sguardo, lo passò sopra il lettore ottico del codice a barre e me lo restituì dopo che pagai.
Non un grazie, non un arrivederci... niente. Beh, se non altro era stata veloce ed efficiente.
Uscii fuori ma, guardandomi attorno, non c'era traccia di Jackson nei dintorni così presi a camminare verso la via del ritorno quando, voltato l'angolo mi giunse la sua voce all'orecchio.
Jackson era dietro al negozio, e camminava avanti e indietro con il cellulare all'orecchio.
-Certo, certo. È meglio procedere con calma, non vorrei che ci beccasse proprio quando siamo riusciti ad ottenere dei risultati sostanziosi.- disse grattandosi la testa con un braccio.
Un pausa seguita dalla sua ripresa.
-Quindi per quanto riguarda i soldi... di quanto parliamo?- ora si grattava il mento pensieroso. -Si, ovvio. Dopotutto questa è solo una copertura.-
Di che copertura stava parlando?
-Quante probabilità ci sono che ci scoprano? E...- ma non volevo sentire oltre così me ne andai, ritornando all'entrata del minimarket come in trance.
La mia testa era affollata di pensieri, tutti negativi. Jackson stava pianificando qualcosa, e su questo non avevo dubbi, ma che cosa? Aveva parlato di soldi, copertura e possibilità di farsi scoprire. A meno che... no, non era possibile! Cercai di scacciare dalla testa quel pensiero ma, alla fine, ritornò a farsi sentire più prepotente di prima.
E se Jackson stava usando il viaggio in Brasile come mezzo per trafficare droga illegalmente?
Non conoscevo la risposta a quella mia folle domanda, ma c'era un modo per scoprirlo. Sorrisi a nessuno in particolare.
-Annabeth, hai un appuntamento all'Hotel Olympus Giovedì, sei contenta?-

Love the way you live     [PERCABETH]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora