Rio de Janeiro, il giorno stesso
Vissi la scena al rallentatore, un po' come succede nei film, quando la tragicità raggiungeva livelli massimi. Non ero mai stata una vera e propria appassionata di lungometraggi, probabilmente per il fatto che avevo passato la maggior parte della mia vita con gli occhi sempre puntati su un libro. Probabilmente era anche dovuto al fatto che il padre di Piper faceva l'attore e che, durante i nostri pigiama party, lei si rifiutava categoricamente di passare la serata a sbavare dietro a qualche stella del cinema che, con assoluta certezza, lei conosceva di persona.
La mia immaginazione, però, era abbastanza ampia da riuscire a proiettare la scena al di fuori, come se fossi stata solo una spettatrice.
«Mamma, svegliati!»
La porta distava esattamente quattro passi dal tavolo della cucina, ma a me parvero infiniti: sembrava che Katia si distanziasse sempre si più da noi, mano a mano che avanzavamo, quasi non volesse farsi raggiungere. In quegli istanti – interminabili – potei memorizzare vari particolari che, in situazioni normali, sicuramente non avrei colto appieno. Come il moccio che colava dal naso di Bianca, la quale faceva capolino per mezza testa dal box, sorreggendosi al bordo di metallo con le sue piccole manine. Sul fornello della piccola cucina vidi un pentolino di metallo sul fuoco, al cui interno vi era un biberon colmo di un liquido bianco – latte per Bianca, presumevo.
Poi, all'improvviso, fu come se il tempo avesse ricominciato a scorrere normalmente, e io quasi rischiai di inciampare a causa della forza invisibile che mi travolse: non c'era tempo per i dettagli.
Mi accovacciai a terra sul fianco destro di Katia, scostandole i capelli dal viso per poterla guardare in volto, mentre Percy, di fronte a me, le appoggiava due dita sul polso.
Katia era pallida – pallidissima –; le guance incavate rendevano la sua figura ancora più ingrigita di quello che già era. Feci scorrere lo sguardo lungo il suo corpo, oltre il seno, dopo la pancia rigonfia: in mezzo alle sue gambe, leggermente piegate, c'era una piccola pozza di liquido rosso e io non ebbi alcun dubbio nell'accertare che fosse sangue.
«Mamma! Mamma, svegliati, ti prego!»
Voltai la testa a destra, tutt'a un tratto incredibilmente consapevole della situazione: Nico stava ancora scuotendo la madre, ma i suoi tentativi di svegliarla erano diventati fiacchi, quasi avesse perso tutte le energie. Le lacrime, però, continuavano a bagnare il suo viso ininterrottamente.
«Annabeth, c'è polso!» esclamò Percy, guardandomi con la fronte aggrottata e un barlume di speranza negli occhi. Sapevo qual'era stato il suo timore fino all'attimo precedente perché rispecchiava alla perfezione il mio: che per Katia non ci fosse più nulla da fare.
E, invece, non era così.
Mi concessi di trarre un breve – brevissimo – respiro di sollievo.
Poi Percy mise una mano sotto alle ginocchia di Katia e l'altra a cingerle la schiena, sollevandola senza apparente sforzo. «Presto, dobbiamo portarla in ospedale.»
E mentre lui si accingeva a uscire in fretta dalla baracca, premurandosi prima di coprire Katia con un maglioncino trovato sul tavolo, io mi diressi verso il box, dove Bianca seguiva i miei gesti con i suoi grandi occhioni neri.
«Ehi, piccolina» mormorai. Mi chinai per afferrarla sotto le ascelle, appoggiandomela al petto. Con la coda dell'occhio vidi un sonaglietto giallo disperso in mezzo alle coperte gialle e lo presi: sapevo che sarebbe tornato utile nell'eventualità in cui Bianca si fosse addormentata. Poi mi voltai verso Nico, che aveva preso a seguirmi da quando Percy era uscito dalla baracca.
«Vieni, Nico» dissi, offrendogli la mano libera che lui afferrò senza indugio, stringendomela.
Nell'uscire, diretti alla macchina, mi costrinsi a non accelerare troppo il passo, per permettere a Nico di starmi dietro senza dover correre, ma era difficile, assurdamente difficile perché la paura aveva cominciato a stringermi il petto: se mi fossi lasciata andare, sapevo che non sarei più riuscita a muovermi, a rendermi utile. E, al momento, la priorità non erano le emozioni che spingevano per uscire dal vaso di Pandora nella mia testa.
Deglutii, ricacciando indietro tutto quel caos mentre raggiungevamo la macchina: non potevo crollare proprio in quel momento. Non potevo e basta. Dovevo concentrarmi solo e soltanto sulle cose importati. Come far salire in fretta Nico nell'auto, sedermi nel sedile posteriore accanto a Katia e tenerle la testa sulle gambe, mentre Bianca piangeva vicino al mio orecchio. Cose importanti come cullare la piccola durante tutto il tragitto – che sembrò infinito – e assicurarmi che Katia non sballottasse troppo. Cose essenziali come il correre al pronto soccorso, cercando di richiamare un infermiere, un medico, qualcuno.
Con il fiato corto, quasi inciampai nell'entrare nell'ampio spazio bianco delle emergenze: la maggior parte dei pazienti in attesa, seduti su delle sedie di plastica collegate una all'altra come quelle degli stadi, si girarono a guardarmi incuriositi dal trambusto che stavo evidentemente causando, ma io non prestai badai a nulla che non fosse chiedere aiuto più e più volte, indicando il fuori gesti frenetici della mano agli infermieri, i quali stavano accorrendo da dietro agli sportelli con una barella di metallo, ricoperta da un lenzuolo bianco.
Li seguii a ruota, arrivando alla macchina giusto in tempo per vedere Percy adagiare Katia sul lettino con delicatezza, spiegando in poche parole la situazione al medico li accanto. Registrai solo qualche secondo più tardi la figura di Nico in piedi vicino ai fanali della macchina. E non potei evitare di provare un tuffo al cuore quando vidi che teneva in braccio sua sorella.
Lo avevo visto già altre volte intendo a prendersi cura di Bianca quando li andavo a trovare per passare un po' di tempo in loro compagnia, e mi era sempre sembrata un'immagine tenerissima. Ma lì, in quel momento così carico di negatività, non potei proprio evitare di immaginare uno scenario parallelo, in cui quei due bambini erano orfani, sia di madre che di padre, lasciati a loro stessi. L'espressione impaurita di Nico e il volto deformato dal pianto di Bianca erano sufficienti a far sembrare tutto molto, molto reale ai miei occhi.
E mentre l'equipe di personale sanitario con Katia appresso mi passava accanto, io mi costrinsi ancora una volta a muovermi da quella situazione catatonica in cui stavo riversando e dai cui difficilmente sarei uscita se mi ci fossi arresa.
Stringi i denti, Annabeth, stringi i denti.
«Grazie per esserti occupato di Bianca, Nico» mormorai scompigliandogli leggermente i capelli, per poi chinarmi a prendere sua sorella in braccio. «Sei stato molto bravo» aggiunsi, cercando inutilmente di sollevargli un po' il morale. Non riuscivo proprio a vederlo di nuovo con quell'espressione triste in viso, proprio come quando l'avevo conosciuto ormai mesi prima.
«... ospedale. Già» sentii dire a Percy quando si avvicinò con il telefono accostato all'orecchio e lo stesso cipiglio serio che gli avevo visto assumere durante il viaggio in macchina la sera del galà. Lo guardai passarsi una mano tra i capelli per poi alzare lo sguardo, incrociando il mio. Gli bastò un solo istante per capire buona parte delle cose che mi passavano per la testa. Compresi ciò dal modo in cui si avvicinò ulteriormente, poggiandomi una mano alla base della schiena e stringendomi leggermente il fianco. «Okay, grazie. Chiamatemi quando arrivate così vi dico a che piano siamo. Ciao.» Chiuse la chiamata con un tocco del pollice sullo schermo, poi ripose l'aggeggio nella tasca anteriore dei suoi jeans, allungando una mano verso Nico che, proprio come aveva fatto con me poco tempo prima, la prese senza indugio, lasciandosi guidare.
Io feci la stessa cosa: seguii il mio ragazzo lungo quell'intrigato labirinto di corridoi fastidiosamente bianchi senza prestare veramente attenzione a ciò che stava accadendo attorno a me, le persone che incontravamo, i medici che incrociavamo, i pazienti che camminavano, finché non giungemmo in una piccola sala, stranamente circolare – sul serio, non c'era nessuno spigolo in quello spazio – ovviamente bianca. Percy si sedette sulla terza sedia dall'entrata, esattamente a metà della fila, e io presi posto alla sua destra lasciandomi sfuggire un piccolo sospiro involontario.
Di nuovo, ero vincolata dal lasciarmi andare: Bianca mi strillava ancora a pieni polmoni nelle orecchie e dovevo cercare almeno di calmarla un po', così presi a cullarla in una serie di sussulti e pacche leggere alla base del sedere.
«Shh... va tutto bene. Va tutto bene» mormorai pacatamente, con lo sguardo fisso in un punto impreciso, più o meno tra l'angolo del basamento e la linea gialla disegnata dieci centimetri dal pavimento sulla parete. Molto presto la vista mi si fece opaca, ma non chiusi le palpebre per schiarirla finché non sentii dei passi veloci nel corridoio adiacente alla stanza e delle voci famigliari. Solo allora mi decisi ad alzare gli occhi per vedere Chintia, accompagnata da Grover, fare la loro comparsa.
Provai – tentai – a fare un debole sorriso di circostanza, ma evidentemente i muscoli della faccia non rispondevano più ai comandi inviati dal mio cervello visto che mi dovetti accontentare di quella che, ero sicura, fosse una smorfia. E mentre Grover era andato a sedersi vicino a Nico e a Percy, dando una pacca sulla schiena a quest'ultimo, Chintia mi si avvicinò, allungando le braccia. Capii subito le sue intenzioni ed ero pronta a protestare, ma lei prese delicatamente Bianca, che nel frattempo si era calmata. Percepii immediatamente un vuoto assalirmi, riempiendo lo spazio lasciato dal corpicino della bambina che avevo usato per mantenere la calma per tutto il tempo, perciò impiegai tutte le forze che mi erano rimaste per mantenere una faccia neutra, mentre dentro di me iniziava la devastazione.
Il tempo passò. Ai minuti ne seguirono molti altri, finché non divennero un ora, due ore, interminabili ore di attesa durante le quali nessuno si mosse più del necessario dalla sedia su cui eravamo seduti. O almeno, così mi parve, ma quando alla fine tornai alla realtà, dopo essermi estraniata da tutto e da tutti involontariamente per chissà quanto tempo, Chintia teneva in braccio Bianca, la quale ora dormiva beatamente, Grover si torceva l'orlo della maglietta tra le mani, mentre Nico sedeva vicino a Percy con la testa appoggiata sulle sue gambe a qualche sedia di distanza rispetto a prima. E a causa di quella posizione rilassata e del fatto che anche il mio ragazzo aveva gli occhi chiusi, pensai che si fosse finalmente addormentato, ma quando incrociai il suo intenso sguardo nero sussultai per la sorpresa.
«Ehi, Nico» mormorai, allungando una mano per fargli una leggera carezza sui capelli. «Come va?»
Lui si alzò e venne a sedersi vicino a me, lasciando le gambe di Percy il quale, come succedeva quando era nel mondo dei sogni, non diede segno di averlo sentito muoversi.
Aiutandosi con le mani, si arrampicò sulla sedia e prese a muovere le gambette che non toccavano terra come se fosse su un'altalena. Era l'immagine stessa dell'infanzia e dell'innocenza, ma con una nota malinconica, quasi drammatica.
In risposta alla mia domanda si strinse nelle spalle, continuando a mantenere lo sguardo basso.
Mossa dal puro istinto primordiale, allungai una mano con il palmo in alto, facendola entrare nel suo campo visivo: lui alzò il capo immediatamente, guardandomi con gli occhi spalancati per qualche attimo, poi allungò a sua volta una mano, stringendola alla mia. In seguito lo sentii appoggiare la testa sulla mia spalla senza però smettere di muovere le gambe.
Sentendo il suo calore a contatto con il mio corpo, immediatamente nella mia testa prese forma un'immagine, un ricordo di appena qualche settimana prima: per puro caso, un pomeriggio io e Percy avevamo deciso di fare una passeggiata in un parco, poco distante dalla scuola, e di fermarci a mangiare qualcosa per cena. Quando dopo una curva, seduti su una panchina nascosta da alcuni cespugli, c'eravamo imbattuti in Katia e Nico. La prima con una mano spingeva avanti e indietro un seggiolino che, evidentemente, era stato raccattato da una discarica o qualcosa del genere, e al cui interno – immaginavo – ci fosse Bianca. Madre e figlio erano nella medesima posizione in cui ora ci trovavamo noi, con Nico appoggiato alla spalla di Katia e lei che lo coccolava.
Io e Percy avevamo preferito non interferire visto che sembravano particolarmente presi dal momento, così ce n'eravamo andati per i fatti nostri, ma l'istante in cui rivissi la scena non potei evitare di risvegliare i demoni dentro di me, i quali si erano stranamente assopiti in seguito al mio estraniamento dalla realtà.
E se non fosse stato per Nico, con tutte le probabilità mi sarei lasciata andare inevitabilmente, rompendo l'argine che tratteneva tutto dentro di me.
«Annabeth?»
Mi passai una mano sotto il naso in un gesto casuale, ma che in realtà era volto a cancellare l'unica traccia del mio turbamento, poi voltai leggermente il capo in basso, verso Nico. «Che c'è, tesoro?»
«Dov'è la mamma?» chiese lui guardandomi con una leggera esitazione.
Quella era una delle domande più difficili cui, ne ero sicuro, mi sarei trovata a rispondere nell'arco di tutta la mia vita perciò esitai, abbastanza a lungo per riuscire a vedere un bagliore di speranza negli occhi di quel bambino, troppo piccolo per comprendere appieno la situazione ma troppo grande per accontentarsi di una risposta qualunque. Perciò, alla fine, optai per la sincerità, nella speranza di non sconvolgerlo.
«La tua mamma ora si trova in un posto con delle brave persone che stanno cercando di aiutarla. Sta combattendo una battaglia difficile, Nico,molto difficile. Ma ce la farà, vedrai» mormorai, facendogli un buffetto sulla guancia che, al contatto, era calda malgrado dal colore pallido della sua carnagione sembrasse fredda.
«Annabeth?» tornò a domandare lui dopo qualche secondo, con un tono di voce più basso di prima, così basso che quasi credetti di essermelo solo immaginato. Aveva parlato così piano che Chintia e Grover non potevano sentirlo: capivo perché Nico non volesse farsi udire dagli altri, quindi risposi nello stesso modo, sussurrando: «Dimmi, Nico.»
«La mamma morirà?»
Mi aspettavo quella domanda, davvero. E credevo anche di essere pronta a gestirla, ma quando vidi gli occhi di Nico farsi lucidi e il suo labbro inferiore tremare leggermente, mi si strinse il cuore e non potei evitare di agire di conseguenza, stringendolo a me e circondando il suo capo per accarezzargli i capelli.
«Oh, Nico...» dissi dopo aver appoggiato la guancia sulla sommità della sua testa. «Vorrei dirti di no, davvero. Ma la verità è che non lo so» confessai amaramente, vittima dell'empatia che sentivo per quella incredibili e fortissima famiglia, la quale mi era entrata nel cuore senza possibilità di oppormici. «Non lo so proprio...»
E stemmo così a lungo, io che cullavo avanti e indietro Nico, ancora stretto tra le mie braccia, e lui in silenzio. Non passò molto che cominciai a sentire la maglietta leggermente bagnata, all'altezza dello stomaco, in corrispondenza del volto di Nico. Lo lasciai piangere senza dire un'altra parola, impotente nell'alleviare la sua – e la mia – sofferenza, ma sicura che non ci fosse altro modo di combattere la situazione che piangere, sopratutto per un bambino della sua età. Ne ero certa perché anch'io sentivo la stessa necessità.
Inevitabilmente, mentre i miei pensieri correvano veloci lungo una strada ricca di insidie e molto pericolosa, finii a immaginarmi cosa stesse succedendo proprio in quel momento al di là delle due porte, il cui vetro era oscurato per evitare di mostrare ciò che c'era al di là. Ma la mia mente era così provata dagli ultimi avvenimenti che, senza possibilità di oppormici, immaginai una futuro non troppo lontano, in cui i medici uscivano da quelle due porte con i camici sporchi, gli occhi appena socchiusi e la faccia di chi preferirebbe non dare una brutta notizia.
«Ehi.»
Sussultai, alzando di scatto la testa e incontrando due intensissimi occhi verdi. Percy era in piedi davanti a me, con il capo leggermente piegato e un sorriso gentile. Nell'immediato, sentii un calore propagarsi dal punto in cui lui mi stava toccando la spalla, per irradiarsi nel resto del corpo. Tentando di ricambiare – miserabilmente – il sorriso come risposta al suo saluto, alzai il braccio con cui non sorreggevo Nico per appoggiare la mano sulla sua e sentire ancora il calore famigliare della pelle di Percy a contatto con la mia.
Gli bastò solo quello e qualche secondo per capire, con una semplice occhiata, che non ero affatto in vena di sorrisi e smancerie, ma accettai con più gratitudine di quanto non volessi ammettere il bacio che mi diede sulla fronte, prima di prendere posto al mio fianco. Subito il suo braccio andò a cingermi le spalle, esercitando una leggera pressione per far sì che io andassi ad appoggiarmi a lui, proprio come stava facendo Nico con me.
Per un momento, un brevissimo istante, quando inspirai l'odore di Percy dalla sua maglietta di cotone, mi sentii... bene. Quasi come se tutto quel casino non fosse mai successo e io mi trovassi nel prato della fattoria con Percy, sdraiati al sole pomeridiano con nessun pensiero per la testa. Ma nel momento esatto in cui presi coscienza di quel benessere, il senso di colpa mi colpì così forte da togliermi il fiato.
Come potevo io sentirmi bene quando una persona – la madre di tre bambini – da qualche parte dietro a quella porta stava combattendo una battaglia più grande di lei? Come potevo far quello a Katia? Ero una persona orribile. Non meritavo niente che mi potesse rendere felice, non quando qualcuno stava soffrendo più di quanto avessi mai sofferto io in tutta la mia vita.
E poi ci arrivai: quello era esattamente ciò che avevo fatto negli ultimi due anni. Mi ero autocommiserata tanto da pensare solo e soltanto a me stessa, fino ad arrivare a pensare che nessuno poteva capire ciò che stavo passando io. Io che, se confrontata a Katia o a Chintia, nemmeno sapevo cosa fosse il vero dolore.
Sbarrai gli occhi, shockata da quell'ultimo pensiero. Che andavo a pensare? Perché tutt'a un tratto ero entrata nella zona a rischio del mio cervello? Era ufficiale: stavo impazzendo. Quei pensieri erano troppo grandi, troppo sbagliati da fare in quel momento che non potei evitare di essere delusa da me stessa. Negli ultimi tempi, sopratutto grazie alla presenza di Percy, avevo fatto incredibili passi avanti, sia a livello di relazioni che mentalmente. Lasciarmi andare a quegli assurdi pensieri autocommiseranti non avrebbe sortito altri effetti che farmi regredire, cancellando tutti i recenti successi. Quindi dovevo stringere i denti – un'altra volta – e concentrarmi su qualcos'altro.
Già... ma come potevo pensare a qualcosa di diverso quando ero seduta da ore in una sala d'aspetto fastidiosamente bianca di un'ospedale?
«Percy... Io... Io credo di non farcela» mi ritrovai a sussurrare contro la mia stessa volontà, con voce talmente flebile che pensai – sperai – Percy non mi avesse udito. E invece lo sentii muoversi e immaginai si fosse girato verso di me. Io però continuai a tenere il capo basso perché avevo timore di alzare la testa e di leggere nei suoi occhi qualcosa. Qualcosa che si avvicinava pericolosamente alla delusione.
«Ehi, Sapientona, guardami» disse in tono grave, mentre con due dita mi incitava a sollevare il mento. Il suo sguardo mi catturò inevitabilmente. «Tu sei forte, okay? Sei fortissima. Lo sai tu e lo io. Entrambi sappiamo anche che puoi farcela, quindi resta qui con me, okay? Io credo in te.»
Per tutto il tempo in cui Percy parlò, non staccai mai gli occhi dal suo viso. La sua voce roca, appena più forte di un sussurro, era così ipnotica che annuii lentamente, senza alcuna possibilità di fare altrimenti: Percy mi aveva incantata, Percy mi aveva lanciato un'ancora di salvezza metaforica.
E io la colsi.
«Va bene, dottore. La ringrazio.»
Aspettai di udire queste parole e di vedere l'uomo con il camice bianco scomparire dietro le porte scorrevoli prima di alzarmi finalmente dalla sedia, prendendo Nico per mano e raggiungendo Percy, il quale ci aspettava sulla soglia della sala d'aspetto. Cercai il suo sguardo, malgrado avessi il timore di conoscere la verità, ma, quando lo guardai, la sua faccia era una maschera inespressiva, che non lasciava trasparire alcuna emozione.
Seguimmo Percy lungo un paio di corridoi, opposti alla direzione da cui eravamo venuti quella mattina, inoltrandoci in quelle che dovevano essere le camere dei pazienti. Era molto tardi – non sapevo che ore fossero precisamente – ma le luci delle camere erano spente e quello servì solo a confermare la mia supposizione. Per tutto il tragitto, tenni lo sguardo puntato in avanti, sulla schiena di Percy, mentre Nico mi seguiva in silenzio. L'unico segno di turbamento era la stretta ferrea con cui mi stringeva la mano.
E poi ci fermammo davanti a una porta socchiusa, dietro alla quale si vedeva una luce soffusa, ma abbastanza intensa da creare un cono di luce sul pavimento.
Bloccandomi, rimasi a guardare Percy che sospingeva la porta per aprila, mentre Nico lasciava andare la mia mano, correndo verso l'unico letto al centro della stanza. «Mammaaa!»
E poi, dopo aver fatto un paio di respiri profondi per cercare di calmare i battiti del mio cuore, la vidi.
Katia.
Trattenni il respiro senza accorgermene quando vidi il colorito terreo del suo volto, quasi cianotico. Sembrava essere stata truccata per assomigliare a un cadavere. L'unico segno che in lei ci fosse ancora vita era il battito lente e regolare del suo core, scandito con piccoli suoni dalla macchina che le stava accanto, attaccata a lei da un lungo filo che terminava con una pinza sul suo dito indice.
Fu allora che tornai veramente a respirare, per la prima volta da quando l'avevamo scoperta riversa a terra, nella baracca.
Inevitabilmente il sollievo mi travolse come un tir sparato a cento all'ora lungo un'autostrada, ma cercai di attenuarlo un po' visto che non ero ancora a conoscenza delle dinamiche dell'intervento. Per quanto ne sapevo, Katia poteva avere la vita appesa a un filo di seta.
Feci due passi in avanti, socchiudendo dietro di me la porta in modo da non disturbare gli altri pazienti che dormivano.
«Fai piano Nico, mi raccomando. La tua mamma ha bisogno di tanto riposo» disse Percy, mettendo una mano sulla testa del piccolo e scompigliandogli un po' i capelli. Dentro di me, sorrisi leggermente, pensando che Percy si stava comportando proprio come un padre con il proprio figlio. Per tutta la giornata, ma anche nelle settimane precedenti, il rapporto tra Nico e il mio ragazzo si era evoluto in poco tempo: per il primo, Percy era diventato come il padre che non aveva più, vedendolo come una figura di riferimento per tutti i problemi. E quando Nico annuì alla raccomandazione di Percy, quel legame fu palesemente evidente.
Dopo un po' mi avvicinai, mettendomi al fianco di Percy. In quel modo eravamo a un paio di metri di distanza da Nico, per permettergli di godersi tutto il tempo che aveva a disposizione tenendo la mano della madre che aveva visto cadere a terra solo quella mattina.
Eppure, sembrava passata un'eternità...
Quando sentii il braccio di Percy avvolgermi il fianco, mi voltai automaticamente per guardarlo, trovandomi davanti a due occhi verdi che mi scrutavano nel profondo. Sapevo che stava cercando di capire il mio stato d'animo e i miei pensieri, proprio come aveva fatto prima, perciò gli posi subito una domanda, cercando di distrarlo dal suo intento: per qualche motivo a me sconosciuto, preferivo tenere le mie emozioni per me ancora per un po'.
«Che ha detto il dottore prima?»
La risposta a quella domanda mi interessava davvero, visto che, quando il chirurgo era uscito da quelle porte, avevo avuto improvvisamente paura di ascoltare delle brutte notizie. Certo, mi ero sentita stupida, ma era stato più forte di me. Perciò avevo lasciato che Percy si alzasse per andare in contro al dottore, insieme a Chintia e Grover, mentre io rimanevo seduta con Nico, il quale dormiva ancora.
Nel momento in cui avevo posto quella domanda, sapevo di dover stare pronta a tutto: dopotutto, un'operazione di svariate ore significava sempre complicazioni, complicazioni e ancora complicazioni. Ma nulla, proprio nulla, mi avrebbe mai preparato a quello.
«Secondo lui c'è stato un distacco di placenta dovuto a non so quale problema impronunciabile. Tutto si sarebbe potuto evitare con delle visite ginecologiche regolari, ma... beh, immagino che Katia non avesse disponibilità economiche sufficienti e che fosse impegnata con Nico e Bianca. Così hanno dovuto fare un parto cesareo d'urgenza per tentare di salvare il bambino. È stato un rischio perché Katia ha perso molto sangue durante l'operazione, ma il bambino...» Percy tentennò, bloccandosi.
E io impiegai un millesimo di secondo per capire. Un millesimo di secondo prima che Percy scuotesse il capo con un'espressione grave sul volto. Un millesimo di secondo prima che chiudessi gli occhi per non vedere, troppo consapevole della situazione. Un millesimo di secondo in seguito al quale le braccia di Percy mi avvolsero e mi stinsero a sé.
«Ehi, ragazzi.»
Alzai il capo, facendo capolino dalla maglietta di Percy per vedere Grover e Chintia sulla soglia della camera, quest'ultima con in braccio Bianca, la quale dormiva ancora. Chintia subito focalizzò la sua attenzione su di me, e io seppi che, in quel momento, stavamo condividendo qualcosa di unico, di speciale, che solo le donne potevano comprendere: la morte di un bambino risvegliava l'istinto materno, che in Chintia era più accentuato, a causa del figlio. Perciò accettai senza alcuna remora l'abbracciò con cui mi strinse a sé, dopo aver dato delicatamente Bianca a Percy.
«Andrà tutto bene, tesoro... ne sono sicura» mi sussurrò Chintia all'orecchio, regalandomi un sorriso rassicurante poco prima di staccarsi.
Annuii, anche se, dentro di me, ero ancora parecchio turbata e titubante. Come potevano le cose andare bene quando la situazione attuale era così tragica? Come poteva Chintia, la quale sapeva molto bene cosa volesse dire perdere un figlio, sperare in un futuro migliore?
Ero persa nei miei pensieri quando Percy si avvicinò, dopo che Chintia si era allontanata per accomodarsi su una sedia vicino al letto di Katia. Appoggiando una mano sulla mia spalla, mi guardò negli occhi per qualche istante prima di dire: «Forza, andiamo a casa.»
«Cosa? No! Dobbiamo restare...» tentai di protestare, spalancando gli occhi e scuotendo energicamente la testa: è se Katia si fosse svegliata mentre noi non eravamo lì? E se avesse avuto altri problemi? E se fosse... morta? È vero, il medico aveva detto che era fuori pericolo per il momento, ma la prima notte è sempre la più importante dopo un intervento chirurgico complesso. E lei era rimasta ore intere sotto i ferri.
Percy scosse il capo, facendo un cenno verso l'unica finestra della stanza, le cui persiane non erano ancora state abbassate. La notte era calata su Rio.
«Annabeth, è tardi. Nico e Bianca hanno bisogno di mangiare e dormire, e anche tu devi riposare» disse Percy irremovibile. Malgrado mi fosse difficile ammetterlo, era evidente che lui avesse ragione: Nico, seppur concentrato sulla madre da quand'eravamo entrati, non aveva toccato cibo per tutto il giorno; Bianca, invece, stava già dormendo tra le braccia di Percy.
«Ma Chintia... e Grover... Qualcuno...» balbettai, pensando che qualcuno doveva restare per forza in ospedale con Katia.
«Tesoro, non ti preoccupare. Io e Grover resteremo qui stanotte, in modo che voi possiate occuparvi dei bambini. Se ci sono novità vi chiamiamo subito» intervenne Chintia, appoggiandomi una mano sulla spalla, in modo rassicurante. «Ci vediamo domani mattina» aggiunse poi, allungandosi per baciarmi sulla guancia. Le sue mani, a contatto con la mia pelle, erano ruvide, ma molto morbide. Quella sensazione mi conferiva un senso di... pace. Proprio come il tocco di una madre premurosa.
La guardai negli occhi, ammettendo me stessa che le sue tesi non facevano una piega. Eppure volevo trovare a tutti i costi qualche motivo per protestare, per restare in quella stanza d'ospedale finché tutto non si fosse sistemato per il meglio, finché Katia non si fosse svegliata sana e salva. Ma, dentro di me, sentivo il bisogno di staccarmi anche solo per qualche istante da quella situazione, e di tornare a casa.
Perciò, dopo qualche attimo di esitazione, alla fine annuii.
«Hai freddo?» domandai a bassa voce, sistemando le pieghe del lenzuolo sul mio letto con qualche gesto e rimboccando le coperte sul corpo di Nico.
Nico scosse il capo lentamente, mantenendo lo sguardo puntato su un punto imprecisato della parete di fronte al letto: da quand'eravamo entrati in macchina all'ospedale, non aveva detto una parola. Al momento non ci avevo fatto caso, dando la colpa al fatto che fosse emotivamente e fisicamente esausto, ma anche quando ci eravamo fermati in un fastfood per cenare si era limitato a indicare con un dito un piatto dell'elenco. Avevo preferito non interferire, pensando che non fosse molto in vena di chiacchiere visto che l'avevamo separato dalla madre, ma si vedeva ch'era stanco. E poi non aveva fatto storie, quindi avevamo dato per scontato che a lui andasse bene.
In quel momento però, sdraiato nel letto della mia camera, continuava a mantenere il suo stato di mutismo e io non riuscivo a capirne il motivo. Accanto a lui, Bianca dormiva su un fianco, con il pollice in bocca e un'espressione rilassata in volto: grazie al cielo non si era lamentata troppo quando avevamo dovuto svegliarla per farla mangiare. In seguito, si era riaddormentata di nuovo poco prima di arrivare alla fattoria.
Sapendo che il mio letto era il più grande dell'intera casa, non c'era stato bisogno che io e Percy ci domandassimo dove far dormire i piccoli: lui era salito direttamente al secondo piano, mettendo Bianca su un lato e coprendola con un lenzuolo. Nico aveva fatto lo stesso, ma, dopo aver tolto le scarpe – avevo sorvolato sul fatto che le avesse lasciate cadere senza preoccuparsi di sistemarle – ed essersi infilato sotto le coperte, non aveva voluto saperne di appoggiare la testa sul cuscino.
Sospirai, lanciando un'occhiata a Percy che stava chiudendo le persiane della porta-finestra: era strano pensare che solo quella mattina eravamo stati in aeroporto per accompagnare Piper e Jason. Sembrava passata invece un'eternità.
Con questi pensieri per la testa mi chinai, lasciando un piccolo bacio sulla fronte di Nico prima di alzarmi in piedi e voltarmi, per sistemare un po' alcuni vestiti sparsi su una sedia. Però, non feci in tempo a girare la schiena, che qualcosa mi tirò per l'orlo della maglietta, trattenendomi.
«Ehi. Che c'è?» domandai il più premurosamente possibile. Con la coda dell'occhio vidi Percy fermarsi in mezzo alla stanza, osservandoci. Nico, invece, sembrò tentennare: era evidente che qualcosa lo turbava, ma per qualche motivo era insicuro.
Gli accarezzai la tempia, scendendo lungo la guancia, e alla fine confessò, gli occhi spalancati e il labbro tremante.
«Ho paura.»
«Di cosa hai paura, tesoro?» sussurrai, appoggiandogli anche l'altra mano sulla guancia: il mio cuore stava andando lentamente in mille pezzi perché era evidente che Nico fosse sull'orlo delle lacrime come mai prima di quel momento.
«Che la mamma muoia.»
Lo sapevo. Davvero, una parte di me sapevo cosa stava per dire perché era lo stesso pensiero che avevo trattenuto per tutto il giorno, ma ingenuamente avevo sperato che Nico non ci pensasse perché non avevo idea di come potessi aiutarlo. E, infatti, successe ciò: rimasi a bocca aperta, con gli occhi puntati in quelli di Nico, ma senza che una singola parola uscisse dalla mia bocca.
All'improvviso, senza che io l'avessi sentito muoversi, Percy comparve al mio fianco, appoggiandomi una mano sul braccio.
«Ehi, ometto. Ti va di ascoltare una storia?» mormorò, accovacciandosi accanto al letto per essere alla stessa altezza di Nico.
L'espressione facciale di quest'ultimo mutò all'istante, anche se sul suo volto rimase una nota di tristezza: interessato alla proposta di Percy, Nico strinse impercettibilmente la presa sulle lenzuola.
«Quale storia?» domandò.
Percy si strinse nelle spalle, mentre io mi alzavo, affaticata dalla posizione in cui ero rimasta per un bel po' di tempo.
«Non lo so... Tu cosa vorresti ascoltare?»
«Conosci la favola della cicala e della formica? La mamma me la racconta sempre!» disse Nico con un accenno di entusiasmo che mi riscaldò il cuore: vederlo distrarsi anche solo per qualche secondo dalla drammatica realtà era magnifico.
Volevo solo che fosse felice.
Percy annuì, sorridendo leggermente. «Certo che la conosco. Anche la mia mamma me la raccontava sempre prima di andare a dormire» disse prima di appoggiare le ginocchia a terra per stare più comodo e iniziare a raccontare.
I miei occhi non lasciarono la sua figura nemmeno per un istante: ero come calamitata alla vista della sua bocca, dei suoi occhi, del suo viso... della sua voce. Il modo in cui parlava e si relazionava a Nico, arricchendo il suo racconto con voce stridula quand'era nei panni della cicala e profonda con la formica, mimando la scena con facce buffe, stimolò la mia mente. All'improvviso rivissi tutti i momenti passati in compagnia di Percy: il nostro primo incontro; la prima volta che avevamo parlato come amici e non solo come conoscenti; la volta in cui io avevo fatto finta di dormire e lui era entrato nella mia camera, chinandosi vicino a quello stesso letto dov'era sdraiato Nico, per baciarmi su una guancia. Il gala, il nostro primo bacio, la prima litigata e il momento in cui finalmente mi ero lasciata andare, accettando di stare con lui. E poi tutto quello che ne era seguito fino a quell'istante.
La sua voce giunse alle mie orecchie e io lasciai che dentro di me si scatenassero una serie di emozioni che solo lui riusciva a provocarmi.
Percy c'era stato sempre, ma non solo per me: metteva il dovere prima di qualsiasi altra cosa e questo era uno degli aspetti che più amavo di lui. Contro ogni mio timore iniziale, Percy aveva mantenuto la promessa di starmi vicino qualunque cosa fosse accaduta, qualsiasi cosa mi fosse successa.
Mentre Nico entrava inevitabilmente nel mondo dei sogni, esausto, per la prima volta in tutta la giornata mi dimenticai di Katia e di ciò ch'era successo. Percy finì di raccontare la storia, rimboccando le coperte a Nico, e poi alzò lo sguardo, incrociando il mio. Vidi sul suo volto disegnarsi un'espressione confusa, perplessa forse per il modo intenso con cui lo stavo fissando incessantemente. Così, mentre Percy inclinava il capo e domandava: «Annabeth? Cosa stai...», io pensai solo a quanto fossi stata fortunata a incontrarlo e...
«Ti amo.»
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Love the way you live [PERCABETH]
FanfictionAnnabeth ha diciotto anni ed è una ragazza come tutte le altre, forse un po' riservata, forse un po' cauta. Certo è che non sente di meritarsi ciò che le accade quella sera. Il trauma subito è così profondo che non riesce più a sorridere, a ridere...