Capitolo 17

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Rio de Janeiro, la stessa sera


Annabeth


La mia testa era come una scatola ermeticamente vuota. Probabilmente il cervello aveva preso, fatto i bagagli e s'era trasferito in una scatola cranica più agevole e accogliente. Eppure, malgrado la mia momentanea deficienza, una pensiero mi attraversò la mente, per mettere radici e decidere di assillarmi finché non fossi rinvenuta dallo stato catatonico in cui ero.
Percy aveva delle labbra morbidissime. Forse le più morbidi di tutto il mondo.
Nel momento stesso in cui i nostri corpi entrarono in contatto intimamente, quello fu il mio unico, costante e assillante pensiero. Ovviamente in seguito ce ne furono molti altri.
Fu l'esperienza più ultraterrena della mia vita, come se la mia anima di fosse separa dal corpo, per assistere dall'esterno. La carne, la fame, il desiderio rubarono il timone delle mie azioni.
All'inizio, forse a causa dell'effetto sorpresa che aveva preso in contropiede sia lui che la sottoscritta, tutto fu calmo e delicato. Era solo un contatto di labbra, le mie sulle sue, le sue sulle mie. Tenni gli occhi ostentatamente chiusi e questo mi permise di sentire le prime ondate di emozioni, senza però riuscire a distinguerle.
Probabilmente durò pochi secondi, il tempo necessario perché prendessimo coscienza della situazione ma, ovviamente, a me sembrarono millenni. Un nulla in confronto al dopo.
Percepii il cambiamento nell'immediato, come se le nostre menti si fossero attivate nello stesso istante, lasciando libero arbitrio all'istinto.
Percy schiuse le labbra, io aprii le mie e tutto fu un incrocio di lingue e uno scambio di saliva. Sì, perché c'era anche quella. Ma, logicamente, non ci feci caso. Quello che importava era che fossimo noi due, lì, quella sera, sul terrazzo.
Percy ricambiò il mio bacio con più foga, reagendo alla sorpresa iniziale. Mi strinse a sé, avvolgendo un braccio intorno alla mia vita e appoggiandomi l'altra mano dietro la testa, alla base del collo, forse per paura che mi ritraessi.
Non mi importava che fossimo in apnea da secoli e che i miei polmoni cominciassero a reclamare l'aria, perché mi sentivo viva e il mio corpo parlava da sé.
Gli buttai le braccia al collo, per stringerlo a mia volta, e le mie mani si tuffarono nei suoi capelli, dove presero a giocare con le ciocche arruffate, attorcigliandole intorno alle dita. Lo desideravo fare da secoli e finalmente ne avevo l'occasione.
Quando Percy spostò le labbra verso destra, creando una scia di piccoli baci fino all'incavo dietro all'orecchio, mi sfuggì un piccolo gemito involontario che cercai di mascherare. Ma, ovviamente, lui capì di aver toccato un punto sensibile perché prese a leccarlo e a morderlo delicatamente, toccando così tanti nervi che non riuscivo più a smettere di ansimare. Si spostò leggermente più in basso e appoggiò la bocca, succhiando poi con forza la pelle.
Oh, mio, Dio.
Il mio petto, ormai, si alzava e abbassava velocemente mentre stringevo la sua testa con più forza. Lo volevo più vicino, più vicino.
Quando finì di torturare quel punto riprese il suo cammino con le labbra, passando per la guancia, la tempia, la fronte e poi il naso, dove depositò un ultimo, piccolo bacio. Rimase così per qualche secondo, mentre il tempo ricominciava lentamente a scorrere.
Gli ultimi istanti li passammo fronte contro fronte, naso contro naso, fiato contro fiato. Cuore contro cuore.
Poi aprii gli occhi, incontrai i suoi e fu la fine del nostro inizio.

***Impiegai qualche momento per ritornare in me, forse più del necessario. Fu un processo lento e graduale, come la marea: sale lentamente per coprire la superficie terrestre. Non potevo dire che tornare in me mi procurò gioia e felicità perché non era vero. Ero stata così bene, così libera di evacuare per qualche minuto dalla realtà e, sopratutto, dalla mia testa.Ho baciato Percy, ho baciato Percy, ho baciato Percy.
Ho. Baciato. Percy. Cazzo.
Non era solo la consapevolezza del mio gesto a congelarmi ma sopratutto le sensazioni che in precedenza non ero riuscita a identificare.
Da una parte, a pietrificarmi, c'era l'adrenalina che mi scorreva in corpo, facendomi sentire viva e desiderando di rivivere ancora e ancora quell'esperienza. Dall'altra sorse anche l'imbarazzo e la vergogna per esser stata così sfrontata e impulsiva. Non era da me reagire in quel modo; io osservavo, pensavo, pianificavo, ragionavo. E poi agivo.
Le mani di Percy mi stringevano ancora a sé, una dietro la schiena, l'altra al collo. Pure le mie braccia erano sulle sue spalle, legate dietro la testa.
Qualcosa era cambiato ma non nel nostro corpo. Eravamo ancora fronte contro fronte, naso contro naso, fiato contro fiato. Io guardavo lui, lui guardava me e io temevo il momento in cui lui avrebbe aperto bocca perché, prima o dopo, qualcosa si sarebbe dovuto muore. Io non osavo nemmeno sbattere le palpebre.
Ti prego tienimi stretta così per tutta la vita.
Soppressi quel pensiero nell'angolo più buio del mio cervello, decidendo di fare la razionale e l'adulta. Poi Percy aprì la bocca, sbatté le palpebre, prese aria e...
Io andai nel panico. Letteralmente.
Nelle sue iridi, che nell'oscurità di quella notte parevano neri come la pece, lessi qualcosa di inaspettato. Sorpresa, confusione e qualcos'altro che non riconobbi. Ma le prime due emozioni bastarono: raccolsi le forze necessarie per riuscire muovermi e scappare, come un assassino che fugge dalla scena del crimine.
Bruscamente mi divincolai dalla sua stretta intorno al mio corpo, creando il varco necessario per raggiungere la porta finestra che dava sul balcone e andarmene il più lontano possibile da quel ragazzo. In quel momento mi bastava anche solo distanziarmi di pochi centimetri.
Necessitavo di aria urgentemente.
Ce l'avevo quasi fatta, il traguardo era di fronte a me ma, ovviamente, non avevo fatto i conti con l'oste. Passò un istante dal momento in cui Percy mi bloccò un braccio con la mano, costringendomi a voltarmi, e quello in cui i miei occhi erano di nuovo nei suoi.
Ora, però, non riuscivo più a sostenere il suo sguardo, così abbassai il capo, chiudendo gli le palpebre con forza. Non potevo sopportare di leggervi pietà e rammarico, non da Percy.
Io lo amavo ma lui non doveva saperlo. Lo facevo per il suo bene, e per il mio, sul serio.
-Lasciami!- probabilmente lo urlai con più isteria di quello che volevo ma sembrò funzionare perché, quando riprovai a liberare il braccio, ci riuscii senza troppo sforzo.
Ripresi la mia fuga, senza più guardarmi indietro.
-Annabeth, aspetta!-
Corri. Scostai bruscamente le tende della porta finestra per liberare il passaggio.
Corri. Non sapevo dove stessi andando ma mi fidavo dei miei piedi.
Corri. Entrai nella mia camera e chiudi la porta, a chiave.
Mettiti in salvo.
Mi appoggiai al legno della porta, con le gambe che faticavano a reggere il peso di tanto che tremavano. Inspiegabilmente avevo il fiatone e l'adrenalina aveva ripreso a scorrermi nelle vene, senza motivo apparente. Appoggiai l'orecchio alla porta e cercai di coprire il suono del mio fiato mascherando la bocca con la mano.
Nessun rumore dal corridoio: Percy aveva deciso di lasciarmi scappare sul serio e io non sapevo se esserne sollevata.
Cominciai a camminare per la stanza, lo sguardo che saettava da un punto all'altro senza mai fermarsi. L'acconciatura che avevo all'inizio della serata era ormai un lontano ricordo così, quando immersi le mani nei capelli in preda all'agitazione, nessun senso di colpa si aggiunse al carico di emozioni che stavo portando al momento. Quella posizione, assieme all'affanno, mi conferiva, senza dubbio, un'aria da pazza isterica. Probabilmente, pazza lo ero sul serio.
Fu allora che la mia mente riprese a funzionare attivamente, per mia sfortuna. Fu come se una diga fosse esplosa in seguito ad ordigni ben piazzati, gettando miliardi di litri d'acqua ovunque. Ecco, i miei pensieri erano come acqua: semplici e limpidi all'apparenza, ma pericolosi e tentatori nella realtà.
Il bacio non era arrivato dal nulla, ne ero consapevole; sarebbe stato troppo facile pensare il contrario. Per tutta la serata non avevo fatto altro che guardare le sue labbra ad intermittenza, desiderando ben tre volte di compiere quel gesto e annullare la distanza che c'era tra i nostri corpi. Ma nemmeno nei miei sogni più reconditi mi sarei immaginata di osare farlo sul serio.
Mai e poi mai.
Eppure ero stata proprio io la prima a muovermi, a prendere il suo viso tra le mani, ad avvicinarmi. A baciarlo.
Avevo fatto il primo passo, quello che, inevitabilmente, portava sempre alla rovina. In questo caso alla mia di rovina. Probabilmente ero impazzita. Sì, il mio cervello doveva essersi preso una vacanza dal suo lavoro di vecchio saggio che sperpera consigli razionali e giudiziosi. O, più probabilmente, e questo non andava affatto bene, i sentimenti che provavo per Percy, quelli che prendevano il controllo nei momenti in cui ero soggetta a debolezze da ragazza innamorata, stavano sfuggendo al mio controllo completamente.
Oddio.
Dove mi avrebbero portato se avessi deciso di lasciarmi andare? Perché, ero certa, che dopo il primo bacio ne venivano altrettanti, e altri baci portavano ad un contatto più intimo, e il contatto intimo portava sempre e solo a quello. Sesso.
Sesso, sesso, sesso, sesso, sesso...
Chiusi gli occhi ostentatamente, fermandomi per un momento al centro della stanza, ancora con le mani tra i capelli e la testa che scoppiava, di fronte al letto su cui era posato il mio cellulare.
Annabeth, Dio santo, fermati finché sei in tempo.
Presi un bel respiro, un grande respiro, desiderosa di far passare quella brutta sensazione che mi opprimeva il petto. Da quant'era che trattenevo il respiro?
Stavo in quella posizione, le spalle che si alzavano e abbassavano velocemente, assecondate dall'affanno e dalla necessità di aria nei polmoni. Per una sera ero andata in iperventilazione troppe volte.
La camera era avvolta nel più completo silenzio quindi, quando sentii distintamente dei passi fuori dalla porta, nel corridoio, mi premetti una mano sulla bocca. Quello era l'andamento di Percy, ne riconoscevo la cadenza.
Percy.
Prima di poter fare qualcosa di avventato e stupido come spalancare la porta e buttarmi tra le sue braccia una seconda volta nel giro di poco tempo, mi appoggiai alla parete, scivolando a terra, con le gambe al petto e la testa incassata tra le ginocchia. Ero stupida, stupida, stupida. Ero pazza, pazza, pazza.
I passi si bloccarono e io temetti seriamente che lui decidesse di bussare perché, in quel momento, non ero sicura di essere abbastanza forte per oppormi a qualsiasi sua richiesta.
Pregai, pregai finché il mio cuore non raggiunse una velocità allarmante di battiti al secondo. Probabilmente, se Percy non se ne fosse andato subito dopo, avrei avuto un infarto. Ero troppo giovane per avere un infarto.
Però Percy lo fece, se ne andò e io ripresi a respirare.
Probabilmente il karma, quella sera, aveva deciso di avercela con me in tutti i sensi perché, un paio di secondi dopo, il mio cellulare cominciò a squillare, la suoneria al massimo. Alzai il capo di scatto: Percy doveva avermi sentito.
E se aveva sentito, probabilmente, sarebbe tornato sui suoi passi, bussando alla mia porta. Poi io sarei stata costretta ad aprire, mentre il telefono continuava a suonare, e me lo sarei travata davanti, con il suo sguardo dispiaciuto e la sua espressione che mi rifiutava.
No, no, no, no, no, no!
Con un gesto fulmineo mi alzai dal pavimento, inchiodando gli occhi su quel maledetto aggeggio rumoroso. Odiavo la tecnologia. Odiavo la tecnologia. Odiavo...
Presi il cellulare in mano e senza più pensare, con la razionalità inghiottita dalla pazzia, lo scagliai sulla parete opposta, con forza e rabbia. Perché sì, ero arrabbiata.
Furiosa con Piper che mi aveva chiamato, furiosa con Percy che mi aveva preso tra le sue braccia, furiosa con il mondo che sembrava riservarmi le punizioni peggiori. E furiosa con me stessa, perché lasciavo che quella vita di merda mi distruggesse, prendendo il controllo delle mie scelte, delle mie emozioni, della mia felicità. Del mio cuore.
Il telefono cadde a terra, materia immobile, soggetta a forze esterne. Probabilmente l'avevo rotto: non mi importava. Volevo essere anch'io così: inerme, impotente, in modo da non dover commettere azioni sbagliate, rischiose, pericolose.
Ero un pericolo vivente, un pericolo per me stessa.
All'improvviso fu come se la pressione atmosferica intorno a me fosse aumentata di intensità perché mi sentivo oppressa, schiacciata. La testa mi scoppiava, il petto non riusciva ad incanalare abbastanza aria, le gambe erano bloccate. Dovevo liberarmi di quella sensazione, all'istante, altrimenti ne sarei rimasta soffocata.
Con la coda dell'occhio vidi il mio riflesso nello specchio a figura intera, alto, splendente. Il vestito mi avvolgeva il corpo come un serpente. Rimasi così, immobile, a guardarmi per qualche secondo poi scattai. Movimenti urgenti, goffi, essenziali. Tira giù la cerniera, lascia cadere il vestito a terra, fai un passo, poi un'altro. Ti senti libera ora?
Ritornai ad osservarmi allo specchio. Nuda, ero, ad esclusione delle mutande color carne e il reggiseno. Evitai con tutte le forse di soffermarmi sulla faccia: quella era l'ultima cosa che volevo vedere. Probabilmente, se uno psichiatra avesse visto lo stato in cui ero, mi avrebbe internato all'istante.
Un flash. Un cielo stellato, un gatto, dei lampioni, la gonna ai miei piedi. Una nuova emozione mi strinse la gola, espandendosi in tutto il corpo. Paura, avevo paura. Ma di cosa?
Voltai la testa, prima a destra, poi a sinistra, prendendo coscienza di essere nella mia camera, non in una vietta laterale a New York. E stavo bene, almeno fisicamente.
La paura aveva messo in circolo altra adrenalina, ma passò in fretta, non appena quell'emozione si tramutò in qualcosa che stavo aspettando da due anni, da quella sera.
In pochi passi raggiunsi il letto, lasciandomi cadere come un peso morto cade a terra. Presi il mio cuscino, il quale odorava vagamente di menta, e piansi, finalmente.
Piansi come non facevo da tempo.
Versai tutte le lacrime che non avevo versato da allora, liberandomi di un peso enorme, di tutta la tristezza che avevo dentro, del dolore che non mi ero concessa di provare.
Fu come morire dopo una lunga battaglia, giungere all'Inferno e venire assegnati ad un girone, subendo una pena eterna. Invidiavo i vivi nel corpo, ma compativo i morti nell'anima. Perché anch'io ero così: viva all'apparenza, ma deceduta dentro.
Strinsi le lenzuola tra le dita, battendo il pugno destro sul materasso. Perché? Perché proprio a me?
Con il viso affondato nel cuscino, le spalle che si muovevano ad intermittenza e la gola chiusa dai singhiozzi, piansi finché non fui esausta.
Non so che ora fosse quando mi addormentai su quel letto, supina, ma l'ultima cosa che vidi fu un pacchetto, il regalo di Percy per il mio compleanno, che avevo estratto dal cassetto del comodino prima di partire per il Gala. Chissà cosa conteneva.

***

Love the way you live     [PERCABETH]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora