Capitolo 2 - Rischio il lavoro?

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Il SeaSide non è molto distante dall'appartamento in cui vivo, meno di venti minuti a piedi con passo svelto. Anche questa mattina sono in anticipo, pronta per affrontare una nuova giornata. Camminare a quest'ora nelle strade di una delle metropoli più grandi al mondo ha un non so che di rassicurante. È bello vedere la città svegliarsi e prendere vita, con i taxi che iniziano a scivolare lungo le strade, colleghi di altri locali che sorridono cordiali, con quell'empatia che solo chi lavora a contatto con il pubblico riesce a percepire. Tra i palazzi a volte si incanala un'aria gelida che irrigidisce il corpo e affretta il passo verso l'ingresso del retro del ristorante. Ora mi comporto come se nulla fosse, ma all'inizio ero così terrorizzata che non entravo mai da sola, aspettavo sempre qualcuno che venisse con me. Grazie al cielo con il tempo ho superato questa timidezza.

«Buongiorno!» esclamo una volta dentro, ma a rispondere è solo il rimbombo della mia voce.
Strano. «Non è giorno di chiusura.» sussurro piano, nel dubbio controllo anche il cellulare per avere conferma. E poi non avrebbe senso, la porta sul retro era aperta.

Mi reco in sala dove i tavoli non sono stati ancora apparecchiati e persino la zona bar, con annessa la cassa in bella vista, sembra lasciata un po' troppo allo sbaraglio. È un casino ma non per questo non trasmette un fascino raffinato ed elegante. I tavoli sono perfettamente allineati tra loro, ognuno ha un piccolo lampadario che scende fino al centro della seduta, emettendo una luce soffusa romantica e allo stesso tempo accogliente. Mura e pavimenti sono in marmo scuro, colori che dominano fatta eccezione per la porta della cucina, bianca come il latte.

Resisto alla tentazione di tirare tutto a lucido – non posso farci nulla, la pulizia e la precisione sono più forti di me – poiché sento lo stomaco protestare per la fame. Non ho fatto colazione perché non sono abituata, di solito mi basta un caffè al volo per affrontare la giornata fino all'ora di pranzo, eppure questa mattina mi andrebbe proprio di mettere qualcosa sotto i denti.

Poso la borsa e la giacca nel mio armadietto all'interno dello spogliatoio e mi sposto in cucina dopo avere indossato il grembiule. A differenza della sala, qui trovo una precisione e una pulizia maniacali, esattamente ciò di cui il mio spirito aveva bisogno: i piani cottura sono come nuovi, i tavoli per le preparazioni così lucidi che posso specchiarmici, il resto dell'attrezzatura chiusa negli appositi cassetti e ogni confezione nei frigoriferi è ben sigillata con tanto di etichetta di riconoscimento e data di conservazione.
L'unica cosa che stona è un pacco di almeno una trentina di uova abbandonato sopra uno dei ripiani.

«Amelia, buongiorno.»

Lancio un gridolino mentre il cuore si tuffa improvvisamente nel vuoto, non si tranquillizza minimamente alla vista di chef Allen.

«Perdonami, non avevo intenzione di spaventarti.» rassicura abbozzando un sorriso.

Deglutisco pesantemente, fa sempre un effetto strano vederlo senza la divisa da chef: oggi indossa un paio di jeans neri e una felpa grigia, i capelli sono leggermente scompigliati e ha lievi segni bluastri sotto gli occhi. Evidentemente ha dormito pochissimo, come sempre. Non ricordo un giorno da quando sono qui che l'ho visto con aria riposata.

«Buongiorno chef a lei, chef.» rispondo trovando chissà dove le forze per sollevare appena le labbra.

«Sei arrivata presto.» mi fa notare passandomi accanto, nell'aria si alza un lieve sentore del suo dopobarba. È una fragranza che non conosco, ma che so già mi tormenterà per tutto il resto della giornata. «Metteresti a posto quella confezione di uova, per favore? Poi appena arriveranno i pasticceri vedremo cosa farci.»

«Sì, chef.»

Con uno scatto e ringraziandolo mentalmente per avermi costretta a distogliere lo sguardo dalla sua bellissima figura, prendo le uova e le metto all'interno di uno dei tanti mobili in acciaio in cui vengono riposti tutti gli ingredienti per la pasticceria.

«Che stai facendo?» chiede Allen, a giudicare dal tono della voce deve essere vicino. Molto vicino. Troppo vicino.

Oltre che agitata adesso mi sento terribilmente in imbarazzo, anche se so che non ha senso dato che non ho fatto nulla di male. Abbasso la testa mentre dalla bocca escono un paio di versi senza senso, come succedeva quando a scuola venivo interrogata e conoscevo a malapena la risposta alla domanda dell'insegnate.

«Perché non hai messo le uova in frigo?» prosegue serio portando le braccia conserte al petto, i muscoli ben delineati si gonfiano appena mostrandosi in tutta la loro bellezza nonostante la felpa larga.

Okay, vorrei sotterrarmi anche se non ho fatto nulla di male. Rispondo solo perché non posso fare scena muta di fronte al titolare. «Una volta durante un servizio l'ho sentita dire che le uova pronta consumazione non dovrebbero stare in frigo, soprattutto sui ripiani più alti. Sono agenti contaminanti e rischiano di rovinare tutti gli altri prodotti. Contaminazione "a cascata".» esito per poi muovere la testa su e giù, chiedendomi dove e come abbia trovato il coraggio per dire tutte queste parole senza balbettare.

Il volto dello chef resta impassibile, resta in silenzio per una manciata di secondi, come a volermi dare il tempo per pensare a chissà cosa. «Lo hai sentito da me. Durante un servizio» ripete portando una mano sotto al mento. «E sai dirmi quale malattia potrebbero trasmettere le uova se consumate dopo la scadenza o se conservate in maniera errata?»

«La salmonella?» rispondo con una domanda retorica, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Allen assottiglia lo sguardo iniziando a camminare verso di me con passo sicuro. Solo ora che lo vedo avvicinarsi come un'ombra minacciosa mi rendo conto di essere nei guai. Che diavolo mi è saltato in mente? Rispondere al mio titolare con aria saccente e forse anche un po' strafottente. Mi manderà via, ne sono sicura. Di solito è buono, un ottimo titolare che cerca il dialogo anziché il confronto – chiaramente durante il servizio diventa un'altra persona ma questo è un discorso a parte – ma magari ha avuto un inizio di giornata storto e ora questa mia supponenza è stata la ciliegina sulla torta.

Ho il respiro bloccato in gola, il corpo rigido e i nervi tesi come le corde di un violino, tanto che basterebbe un non nulla per spezzarli. Solo gli occhi si muovono e seguono Allen che si dirige verso lo stesso scompartimento in cui ho riposto le uova, ne prende un paio per poi indicare la sala con un cenno della testa.

«Aspettami al bancone del bar.» dice con un tono che non ammette repliche, tipico di chi non accetta un "no" come risposta.

«S-sì chef.» balbetto, perché ho perso tutta la baldanza di poco fa.

Ho il cuore che batte così forte che temo possa uscire dal petto, tengo gli occhi serrati mentre cammino per questa sala che ho imparato a conoscere meglio di casa mia. Mi siedo su uno degli sgabelli del bar a mani giunte pregando silenziosamente di non avere fatto un casino. Non sono mai stata una fervente credente ma mai come in questo momento sento il bisogno di un miracolo. Ho così tanta paura che temo persino di alzare gli occhi verso lo specchio della bottigliera, non voglio confrontarmi con il mio riflesso.
Aspetto la sentenza di Allen neanche fossi un condannato a morte.
Se perdo questo lavoro sarà la fine.

Mannaggia a me e alla mia stupida boccaccia!

Macaron Love - Gerini Alice (racconto)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora