𝗟'𝗜𝗹𝗹𝘂𝘀𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝘂𝗻 𝗠𝗼𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼

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⚠️QUESTO CAPITOLO CONTIENE SCENE DI VOMITO E ANGST VARIO⚠️

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Il buio dell'armadio mi avvolgeva come un abbraccio freddo e distante. Sentivo il legno scricchiolare leggermente, un suono che a malapena riuscivo a udire tra i miei singhiozzi soffocati. Mi rannicchiai ancora di più, con le ginocchia piegate sotto il mento, mentre il calore umido delle lacrime mi scivolava lungo le guance arrossate.

Il ginocchio pulsava di dolore, la pelle sbucciata che bruciava sotto la crosta appena formata. Ma il dolore fisico non era nulla in confronto a quello che provavo dentro. Le parole di mia madre e mio padre continuavano a rimbombarmi nella testa, come un'eco che non voleva smettere:

Non sei buona a nulla!

Come fai a cadere in quel modo a otto anni?! Non sei capace nemmeno di reggerti in piedi!

Ogni frase era stata accompagnata da un ceffone, uno più forte dell'altro, che mi aveva lasciato il viso gonfio e infuocato. Avevo cercato di spiegare, di dire che ero solo inciampata, che non volevo farmi male. Ma le parole non erano uscite, bloccate dalla paura e dalla vergogna.

Adesso, chiusa in questo armadio, desideravo solo sparire. Mi abbracciai più forte, cercando di diventare piccola, invisibile, come se potessi davvero scomparire da questo mondo che sembrava non volermi.

La penombra era il mio rifugio, un posto dove nessuno poteva trovarmi, dove nessuno poteva dirmi che ero inutile, incapace, sbagliata. Eppure, anche qui, la mia mente non smetteva di tormentarmi. Rivedevo i volti arrabbiati dei miei genitori, sentivo ancora il bruciore degli schiaffi e, soprattutto, sentivo quel vuoto dentro di me, quella convinzione che forse, davvero, non sarei mai stata abbastanza.

Continuai a piangere finché le lacrime non si esaurirono, lasciandomi con gli occhi gonfi e il petto che sobbalzava ad ogni respiro. Rimasi lì per quello che mi sembrò un tempo infinito, immersa nel mio dolore, nel senso di colpa, nel desiderio impossibile di non esistere.

Tirando su col naso, girai la testa verso il mio futon, ripiegato nello stesso scaffale. « ... chissà come ci si sente ad essere un letto ...» mormorai. «Ehi, possiamo parlare?» ovviamente non ricevetti risposta. «Yuzuha sta aiutando la nonna malata a casa sua, non c'è per stare con me.» bofonchiai. «Papà dice sempre: chi tace acconsente ... quindi significa che ti va di ascoltarmi?» sorrisi da orecchio a orecchio. «Allora è un si ...!» sentii il cuore riempirsi di gioia, finalmente avevo un amico. «Mamma e papà mi hanno picchiata ancora, ora mi fanno malissimo le guance ... la tua madre-futon ti ha mai picchiato? O magari il tuo padre-futon ...»

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In piedi davanti allo specchio, guardavo le mie ragazze che si provavano per la prima volta i loro vestiti di scena. Un respiro profondo mi attraversò e, per un attimo, fui sopraffatta da una sensazione di vuoto. Mentre aiutavo le aiutavo ad aggiustare i costumi, sentii il magone stringermi la gola. C'era qualcosa che non andava, una malinconia sottile che non riuscivo a scacciare. Era da quella mattina che ricordi del passato continuavano a martoriarmi, non abbandonando la mia mente nemmeno per un secondo. Mi chiesi se fosse perché era passato tanto tempo dall'ultima volta che avevo visto la mia famiglia. Solitamente, li vedevo ogni giorno sul posto di lavoro, ma ora, qui a Tokyo, ero totalmente sola – ad eccezione di mio marito, ma questa è un'altra cosa.

𝐁𝐥𝐚𝐧𝐤 𝐒𝐩𝐚𝐜𝐞┋𝕊𝕒𝕟𝕖𝕞𝕚 𝕊𝕙𝕚𝕟𝕒𝕫𝕦𝕘𝕒𝕨𝕒Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora